La lettera d’indulgenza del vescovo González (1519) e il cosiddetto condaghe di Luogosanto di Alessandro Soddu
Il contesto. Per la recensione di un’opera complessa come il volume curato da Graziano Fois e Mauro Maxia, intitolato Il Condaghe di Luogosanto (edito da Taphros, Olbia 2009), servirebbero i pareri di uno storico della Chiesa, di uno storico modernista, di un agiologo e di un linguista, dal momento che si tratta dell’edizione di un testo redatto, parte in latino e parte in sardo logudorese, nel 1519 per avvalorare le origini e la fondazione del santuario di Nostra Signora di Luogosanto e delle annesse chiese dei martiri S. Nicola e S. Trano. Essendo stato coinvolto per le tematiche medievali che il testo richiama, proverò comunque a farne una sommaria esegesi, dando conto naturalmente del contributo scientifico scaturito dalla ricerca compiuta da Fois e Maxia.
Prima di entrare nel merito delle problematiche che il testo pone sul tappeto, vorrei citare un aneddoto personale, utile per spiegare il milieu culturale nel quale deve essere collocata tutta la questione. Nel 1998, nell’ambito di una ricerca commissionata dall’Ecole française de Rome e dal CNR-Istituto sui rapporti italo-iberici di Cagliari riguardante il censimento dei santuari cristiani in Italia, ho avuto modo di occuparmi, oltre che di quello di Luogosanto, del santuario di S. Maria della Neve di Cuglieri. Dopo aver raccolto la bibliografia ottenni un incontro con l’anziano parroco di Cuglieri (Antonio Motzo) che mi illustrò la leggenda di fondazione: la statua della Madonna sarebbe stata ritrovata da alcuni pescatori nella spiaggia di S. Caterina di Pittinuri il 5 agosto del 358, giorno in cui nevicava su Roma (da qui l’intitolazione a S. Maria della Neve); la gente avrebbe voluto depositare la statua nella chiesa di S. Silvana (oggi S.
Croce), ma i buoi che guidavano il carro si ribellarono e proseguirono fino al sito di Monte Bardosu, dove venne edificato il santuario. A conclusione del racconto ringraziai il parroco, chiedendogli però di riferirmi, oltre alla leggenda, qualche dato storicamente accertato. Ma don Motzo replicò ammonendomi severamente che non si trattava di leggenda ma che era tutto vero. Ecco dunque il cuore della questione: la dialettica tra verità storica e leggenda, che riguarda l’origine di un gran numero di santuari sardi, e non solo, segnata da elementi narrativi spesso simili, che testimoniano un comune sostrato culturale. Ed ecco perché la necessità di specialisti quali gli storici dell’età moderna e della Chiesa e soprattutto gli agiologi per comprendere fenomeni che sfuggono ad una mera ricostruzione di eventi sulla base di fonti scritte anche autorevoli e richiedono piuttosto la conoscenza delle grandi correnti del cristianesimo e dei meccanismi che sovrintendono alla costruzione e diffusione della devozione popolare.
Il testo. Come si rileva dal documento stesso, il testo edito da Fois e Maxia è una lettera patente d’indulgenza, scritta a Sassari nel 1519 (non sono indicati mese e giorno) dal vescovo di Ampurias e Civita Ludovico González, rivolta agli arcivescovi di Cagliari, Arborea e Torres e loro suffraganei, nonché a tutti i fedeli cui sarebbe pervenuta o mostrata la suddetta lettera e specialmente a quelli della città, chiesa e diocesi dello stesso González, al suo vicario, ai canonici, presbiteri e chiese della stessa diocesi, rettori e curati e a tutti gli abitanti dell’uno e dell’altro sesso. Notaio rogatario della lettera è un certo Gribaldus. Le finalità dell’atto di Ludovico González sono dunque pastorali: in particolare, il vescovo intendeva rivitalizzare la fede cristiana in Gallura attraverso la promozione di una “meta di pellegrinaggio martiriale di montagna” (la felice espressione è dell’amico e collega Franco Campus) da affiancare al polo rivierasco di S. Simplicio di Olbia, con un orizzonte extradiocesano giustificato dalla volontà di attrarre il maggior numero di fedeli. Il testo è redatto in latino, con un lungo inserto in sardo logudorese riservato all’approfondimento della “leggenda”, il cui uso doveva essere funzionale ad una lettura pubblica che operasse da ulteriore volano promozionale. Ricostruendo la storia del santuario di Luogosanto, González afferma di aver tratto le informazioni in suo possesso da – cito la traduzione del testo in sardo – «un condaghe e una “lettera antica” e anche per pubblica fama fra tutti i nostri diocesani della diocesi di Civita o Terranova, i quali tutti riferiscono d’aver così inteso da tutti i loro antenati, come questi antenati avevano inteso dai loro predecessori, di grado in grado fino al nostro presente tempo», cioè il 1519. Ecco dunque la menzione del condaghe (nella parte in latino si parla addirittura dei condaghes delle tre chiese di Luogosanto), che non è giunto a noi nella sua forma ma solo nei suoi contenuti sommari, mediati dal vescovo González e integrati da altre informazioni non meglio precisate («una litera antigua») e dalla tradizione orale.
Condaghes e fundaghes. Ma che cos’è precisamente un condaghe? Nei secoli XI-XIII questa parola indica un registro in cui venivano ricordate donazioni da parte di giudici e maggiorenti locali, acquisti, permute, liti giudiziarie, ma anche fatti di rilievo riguardanti la vita e l’attività dei monasteri. Si sono conservati i condaghes relativi ai monasteri di S. Pietro di Silki (presso Sassari), S. Michele di Salvennor (presso Ploaghe-SS), S. Nicola di Trullas (presso Semestene-SS) e S. Maria di Bonarcado (nell’attuale provincia di Oristano). Oltre a quelli monastici, si sono conservati frammenti di condaghes di chiese cattedrali, come quello di S. Antioco di Bisarcio, o redatti dagli stessi giudici, come quello di Barisone II di Torres a beneficio dell’ospedale di S. Leonardo di Bosove (presso Sassari). Riguardo all’etimologia, gli specialisti sono da tempo concordi nel ricondurre condaghe al greco bizantino kontákion, ossia bastone (kontós) intorno al quale si avvolgeva il volumen, che già era pronunciato kondak’i. Recentemente Giampaolo Mele ha proposto di riferire più precisamente il termine all’accezione di kontákion come libro liturgico-musicale, testo diffuso nel mondo bizantino soprattutto nei secoli VIII-IX. Secondo Paolo Maninchedda, «con un processo di sineddoche analogo a quello per cui il libro intero (kontákion) prese il nome dalla parte (kontós ‘bastoncino attorno al quale veniva avvolto
il volumen’), così il nome di un libro liturgico passò a designare tutti i libri conservati in chiesa» (P. Maninchedda, Medioevo latino e volgare in Sardegna, Cagliari 2007, p. 76). Tra la fine del XV ed il pieno XVI secolo, ormai declinato in Sardegna il monachesimo benedettino, il termine condaghe assume un significato differente, quale quello attribuibile al condaghe di S. Chiara di Oristano e al fundaghe o condaxi di S. Martino di Oristano di “elenco di immobili, urbani e agrari e relative rendite”. Infine, nel Cinque-Seicento si affermano condaghe o fundaghe nel significato di “leggenda di fondazione” di chiese e monasteri, in virtù dello slittamento semantico indotto dalla paraetimologia che deriverebbe il sardo condaghe dal latino condere “fondare”: è questo il caso dei condaghes di S. Gavino di Torres, S. Maria di Tergu, SS. Trinità di Saccargia, S. Antioco di Bisarcio e S. Pietro di Sorres. Come giustamente osservano Fois e Maxia, è a quest’ultimo genere che devono essere attribuite le notizie riferite dal vescovo González.
La “leggenda”. La vicenda relativa all’edificazione del santuario di Luogosanto può essere articolata in otto fasi: 1) Tre frati francescani si trovano in pellegrinaggio a Gerusalemme, nella chiesa di S. Giovanni Battista. 2) Appare loro la Vergine Maria che raccomanda un buon ritorno in Italia e indica loro di recarsi in Sardegna, in un grande bosco del Capo di Sopra dove si trovano sepolti i corpi di due santi, Nicola e Trano, i quali avevano condotto la loro vita da eremiti in quei luoghi e lì erano morti. La Vergine chiede ai frati di costruire tre chiese, una in suo onore, una per San Nicola e una per San Trano. 3) I tre frati francescani obbediscono e arrivati in Sardegna, trovato il luogo indicato, vi costruiscono il loro romitorio. Attraverso le elemosine dei fedeli riescono quindi a costruire le tre chiese, nel luogo che dai tempi in cui San Nicola e San Trano conducevano una vita santa era chiamato Logosancto. 4) González osserva che le tre chiese sono dunque antichissime: «da quando la fede cristiana cominciò a crescere e spargersi per il mondo» (intendendo cioè i primi secoli dopo Cristo), costruite durante il pontificato di Onorio II (ossia 1124-1130). È evidente l’iperbole da un lato e l’imprecisione storica dall’altro: basti pensare al la cronologia relativa a Francesco d’Assisi (1181-1226) e al papa cui effettivamente ci si riferisce, ossia Onorio III, in cattedra tra 1216 e 1227. 5) Costruite le tre chiese, i principales di Sardegna mandano un’ambasciata al pontefice Onorio affinché questi invii un suo legato che le consacri e conferisca alle stesse «indulgencias et perdonos». 6) Prima dell’arrivo degli ambasciatori alla corte pontificia, appare ad Onorio la Vergine Maria che gli comanda di inviare in Sardegna un cardinale per adempiere a quanto richiesto. 7) Onorio invia in Sardegna messer Giovanni, cardinale di Avignone, il quale arriva a Luogosanto, dove convoca tutti gli arcivescovi e vescovi di Sardegna e quindi consacra le tre chiese, intitolando la prima a Dio e alla Vergine Maria, la seconda a San Nicola e la terza a San Trano, unendo queste due ultime alla prima. Quindi affilia le tre chiese all’Ospedale di S. Giovanni Battista di Gerusalemme. 8) Il cardinal e consegna lettere apostoliche di perdono a tutti i fedeli che si fossero confessati e avessero fatto atto di contrizione, o avessero la volontà di farlo, i quali avrebbero dovuto visitare le dette chiese in un periodo compreso tra la Natività di Maria (8 settembre) e la festa di S. Michele (29 settembre), in tutte le festività mariane, in quelle degli apostoli, durante tutta la Quaresima, alla Pentecoste, Ascensione, Natale e relative ottave, facendo elemosina secondo le proprie disponibilità.
La tradizione del testo. I contenuti della lettera del vescovo González erano parzialmente noti, ma non si conosceva finora il documento originale. Curiosamente, così come González nel 1519 ha messo per iscritto le notizie contenute in uno o più condaghes andati perduti, a partire dalla fine del Cinquecento noi abbiamo conosciuto la sua lettera d’indulgenza attraverso gli storiografi dell’età moderna che ne hanno avuto conoscenza diretta o, ancora una volta, mediata. Si entra così in quello che a mio avviso è il maggior pregio del lavoro di Graziano Fois – che ha curato la parte storica, mentre
Mauro Maxia ha curato quella linguistica – ossia la meticolosa ricostruzione della trasmissione e progressiva alterazione, non sempre casuale, del testo. Il primo storiografo ad essersi occupato della storia della Madonna di Luogosanto e del suo “condaghe” è naturalmente Giovanni Francesco Fara, che doveva aver visto direttamente la lettera di González, forse nella copia pervenuta nella sede di Sassari o in quella di Bosa, giacché scrive «ut ex antiquo eiusdem loci [Luogosanto] codice a Ludovico, episcopo civitatensi, approbato constat» («come risulta da un antico codice dello stesso luogo, giudicato attendibile da Ludovico, vescovo civitatense»). Fara, dunque, evidenzia la forza legittimante del vescovo nel tramandare il contenuto del codice (ossia il “condaghe”) e in un altro passo della sua opera inserisce arbitrariamente la data – 1227 – del ritrovamento dei corpi dei santi Nicola e Trano da parte dei francescani e dell’edificazione delle tre chiese, specificando di nuovo «ut in dictarum ecclesiarum manuscripto codice a Ludovico, episcopo civitatensi et ampuriensi, approbato constat».
Graziano Fois ricostruisce il tortuoso percorso del testo attraverso le opere di Giovanni Arca (fine XVI secolo), Dimas Serpi (1600), Jaime Pinto (1624), Salvatore Vitale (1639), Francesco de Vico (1639), Jorge Aleo (1684-1687), Pacifico Guiso Pirella (1730), autori che pur citando la fonte originale (González) si rifanno in realtà a Fara e ai suoi continuatori, proponendo talvolta date differenti (1217, 1218) relativamente alla fondazione delle tre chiese. Di particolare rilievo è l’opera di Salvatore Vitale (frate minore osservante, così come lo era stato Ludovico González), che nei suoi Annales Sardiniae traduce in latino la parte della lettera scritta i n sardo, omettendo però il brano relativo all’affiliazione delle tre chiese di Luogo santo all’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme, a testimonianza del timore di rivendicazioni da parte dei Cavalieri di Malta, eredi dell’ordine gerosolimitano. Oltre l’orizzonte storiografico esaminato da Fois si pone il breve accenno che del santuario gallurese fa Vittorio Angius all’interno del celebre Dizionario del Casalis. Lo scolopio cagliaritano si mostra insolitamente scettico, lasciando intravedere nel suo anonimo informatore un avversario di campanile di Luogosanto. Riferendosi alle cappelle di S. Maria, S. Nicola e S. Trano, Angius infatti dichiara: «Il Fara scrivea che queste per le frequenti largizioni de’ fedeli diventarono ricche; e forse sarà stato così: ma nessuna magnificenza attesta quelle dovizie raccolte dalle genti devote, non parendo altro quelle tre chiesette che bruttissime e sordide spelonche. […]. Il Condaghe venuto sotto gli sguardi del González non mancava di quelle grosse imposture, di cui riboccano gli altri consimili monumenti; e sulla fede di quello egli asseriva che il giudice Ubaldo supplicasse il Papa di spedire un legato per la consecrazione della chiesa, e che godesse vederla consecrata da un certo cardinal Giovanni. Che capriccio era in quei buoni autori de’ Condaghe di far venire da Roma i cardinali per fare tali riti in meschinissime cappelluccie!» (ivi, s.v. Gallura, p. 192).
L’opera di G. Fois e M. Maxia. Merito del lavoro di Graziano Fois e Mauro Maxia, oltre che di fornire un’edizione e parziale traduzione della lettera di González, è di mettere in evidenza le molteplici problematiche che il testo pone. Il saggio di Fois, anticipato in sintesi sul numero del 2009-2010 del periodico “Almanacco Gallurese”, è articolato in nove capitoli che trattano gli aspetti codicologici e diplomatistici, quelli agiografici, la questione della trasmissione del testo, la ricostruzione del contesto storico oggetto del “racconto” (la presenza francescana, l’implicazione gerosolimitana), la temperie culturale in cui si inserisce l’atto del vescovo González, e tanto altro ancora. È apprezzabile la volontà di Fois di non volere imporre a tutti i costi una “verità” storiografica, optando di volta in volta per la proposizione di un ventaglio di ipotesi, con un taglio didattico che rende comprensibili anche ai non addetti ai lavori temi altrimenti (e comunque) assai complessi. Mauro Maxia ha curato, invece, la parte linguistica, attraverso tre capitoli che danno conto della struttura del testo e della lingua del documento in tutti i suoi aspetti (fonetici, morfologici, sintattici). Spicca la traduzione in italiano dell’inserto in sardo e gli utilissimi glossario e indice dei nomi e dei luoghi. Il volume è arricchito da quattro appendici, un apparato fotografico e, opera meritoria, di una pregevole riproduzione fotografica della lettera del vescovo González. È evidente, in conclusione, come l’opera di Fois e Maxia rivesta una notevole importanza, non soltanto per la comunità di Luogosanto e per la Gallura. L’interesse sta nella rivalutazione di una fonte che, pur priva di preoccupazioni lato sensu filologiche o di ordine storiografico, approda negli scritti di Fara e da qui in tutta una serie di opere della piena età moderna, facendosi a un tempo tradizione dotta e popolare. La circolarità delle due tradizioni dimostra come l’autorità della fonte ufficiale (soprattutto quando ecclesiastica) trasformi in autorevole e indiscutibile l’esposizione e l’interpretazione di fatti storici e leggendari, fissando attraverso una nuova codificazione scritta irrelata forniti da imprecisati condaghes, “documenti antichi” e memorie orali. La fiducia e
la fede, insieme al rispetto per l’autore-autorità, devono essere a questo punto a scatola chiusa e poco importa se il condaghe o i condaghes di Luogosanto cui fa riferimento Ludovico González siano realmente esistiti. L’iniziativa del vescovo sembra in realtà essere funzionale, appena rinnovato il quadro delle diocesi sarde e di quella gallurese nel caso specifico, ad un riordino e una funzionali zzazione o rifunzionalizzazione delle strutture ecclesiastiche presenti nel territorio, azioni che necessitavano di una corroborazione storiografica e agiografica di cui la Gallura era carente, senza che questo voglia dire “invenzione” in senso stretto. Quale che sia l’origine e indipendentemente dalla veridicità del racconto tramandato da González, è indubbio che gli obiettivi di quest’ultimo furono raggiunti con un successo clamoroso e forse insperato. Già nel 1600 Luogosanto è diventata meta dei pellegrini galluresi e non solo, come testimonia Dimas Serpi nella sua Chronica de los santos de Sardeña. È questo il dato più significativo: la scoperta o riscoperta, a partire dal 1519, di una tradizione che si sarebbe consolidata nei secoli, facendo diventare la Madonna di Luogosanto patrona dell’intera Gallura. Forse occorrerà pensare già ai festeggiamenti del 2019, cinquecento anni dopo.
Alessandro Soddu
Presentazione del volume G.FOIS , M. MAXIA, Il Condaghe di Luogosanto, Olbia 2009
Luogosanto, 5 settembre 2009