I/2. Quattro figli, 400 poponi. Il lavatoio della Scalitta di Ange de Clermont
La vita estiva all’Isola Rossa procedeva serena, ma vivace. Ho già detto che uno dei problemi era costituito dall’acqua potabile, erogata dalle sei alle otto del mattino. Si sa però che in una famigliola di quattro figli e due adulti, in piena estate, occorreva l’acqua per i servizi igienici, per lavare i piatti, ma soprattutto per lavare la biancheria dei bimbi e degli adulti. Certo di acqua potabile ce n’era poca, ma acqua di mare, a due passi dalla casetta dei poponi, ce n’era tanta.
Problemi risolti: acqua di mare per i servizi igienici, acqua di mare per lavare i piatti, ma per lavare la biancheria ci voleva acqua corrente. M’informai. Nello stazzo della Scalitta, si diceva ci fosse acqua abbondante e inoltre distava non più di due o tre chilometri dall’Isola Rossa. Si andò per la prima visita e fummo guardati come degl’invasori stravaganti anche perché mia moglie, da apposita stoffa cangiante degli asciugamani, era riuscita a confezionare, per grandi e per piccoli, calzoncini e gonne variegate e identiche per tutti, per cui ovunque andassimo facevamo colore e attiravamo l’attenzione di tutti: sembravamo provenire dalle isole Hawaii, mancava solo che rivestissimo la Cinquecento dello stesso colore.
Gli stazzari, dopo qualche perplessità, vedendo sbucare i bambini dalla macchina ci guardarono con simpatia. Chiedemmo se nelle pietre sottostanti un grosso rubinetto si potessero lavare i panni dei bambini. La risposta non solo fu cortese, ma qualche stazzaro si offrì a portar eventualmente qualche altra pietra, per allargare la superficie di quello che per l’estate sarebbe diventato il nostro lavatoio pubblico. L’acqua tra l’altro era anche potabile, per cui riempimmo una tanica che portavamo sempre in giro per fare provviste. Mia moglie ringraziò tutti e poi ricacciati in macchina i monelli e sistemato l’ultimo nato tra le sue braccia, tornammo contenti alla casetta. Anzi, per l’allegrezza, mangiammo come antipasto un fresco popone sbucato, ad apertura di porta, dalla camera da letto.
L’indomani, di buonora, mi pare verso le dieci del mattino, salimmo con la tribù alla Scalitta, collocato il poppante in una specie di seggiolino portatile, senza tanti complimenti, mia moglie si agghindò da lavandaia e cominciò a lavare i panni con una certa eleganza e maestria. Io dovevo badare alla prole che si disperse nei viottoli che giungevano e si dipartivano dalla Scalitta. Gli stazzari erano dispersi nelle vigne e negli orti dove tra le altre cose beneficiavano di qualche vasca. Le stazzare, invece, si avvicinarono a mia moglie e iniziarono a parlare per fare amicizia e conoscere questi strani turisti e la loro provenienza.
Passarono due ore, ed io mi stavo annoiando a morte nel badare ai frugoli, quando mia moglie, completato il lavoro e collocati i panni e i vestiti dentro un contenitore di vimini, pose fine alla nobile arte della lavandaia. Cacciati in macchina i fanciulli tornammo all’Isola Rossa e nel retro casa, dove si apriva una tanca di mucche “pileriane” al pascolo, stese i panni. Certamente le mucche non si sarebbero saziate di stoffe.
I bambini scorrazzavano ormai nella spiaggia, entrando e uscendo dal mare, in attesa del pranzo. Io mi distraevo leggendo qualche quotidiano e aspettando l’ora di punta per farmi il bagno senza perdere di vista l’infanzia. In fondo ero felice per la risoluzione del problema della pulizia della biancheria. Insomma, cerca che ti cerca, l’Isola Rossa offriva altri servizi, pur nella desolazione delle tanche popolate di mucche magrissime, (correva voce che Ziu Pidreddu non schiodasse una lira per comprare del mangime), nella bellezza del mare, nella mancanza d’acqua e di altri esercizi pubblici. Prima o poi sarei andato a fare un giro nel nucleo storico che dava di fronte all’Isolotto dove abitavano in casette bianche gli abitanti ponzesi di quella lingua di terra lambita dal mare. Pare fossero un centinaio tra marinai e nuova prole: pescavano del pesce e lo vendevano alla ditta Cimino di Castelsardo, ma non disdegnavano rifornire anche i villeggianti. Le famiglie più in vista tra questi ponzesi isolarossani erano i Vitiello e i Morlé, a quanto pare incrociati tra loro e in pianta stabile all’Isola Rossa del 1943, da quando una certa Caterina Muretti, già abitante nello stazzo di Vaccilleddi, dopo l’uccisione del marito e di un figlio, era scesa a valle, aveva messo su delle baracche e le affittava ai ponzesi che prima della guerra sostavano all’Isola da aprile a tutto ottobre. Lavorava per proprio conto, invece, un corallaro di Piombino, a quanto si diceva, monocolo, e che si faceva aiutare da un marinaio reclutato a Trinità d ‘Agultu, paesino sugli oltre 300 metri sul livello del mare che, come l’Innominato, da che era assurto a Comune, scacciati gli odiati aggesi, controllava biecamente il territorio da cui sognava di ricavare proventi lucrosi dalle lottizzazioni che procedevano abusivamente per via di leggi inesistenti che regolassero quell’immenso gradone che si squadernava sul mare isolarossano, gettato, forse distrattamente dal Creatore, con spuntoni di rocce e cime rossastre, tra boschi e macchie di mirto e lentisco. Spesso guardavo quello splendore squallido e nella mia mente da uomo fresco di lettere e da aspirante pubblicista mi dicevo che il tutto, con articoli ben assestati, me lo sarei girato come un calzino. E, per mia buona sorte, (avrei potuto rischiare d’essere impallinato) fu così.
Quando la sera il tramonto rossastro risucchiava il sole dietro l’Isolotto e i bimbi, spossati dal gioco di spiaggia e di mare, sprofondavano nel sonno, come attirati da una calamita, arrivavano Alberto e Gemma, Giuseppe G. e Mariolina, Giuseppe S. con Giannino, Battista con la fidanzata e qualche altro villeggiante per passare la sera suggendo poponi, fino al giorno in cui Giuseppe S. non giunse con tre casse di Vermentino e i Carabinieri non ci costrinsero all’esilio nella Caienna rossastra, popolata di cormorani dormienti, ma per la narrazione dell’evento, rinviamo ancora. Ordinariamente era zio Martino che, disperato, chiamava dall’unico telefono di quel Paradiso i Carabinieri per ordinarci di metterci a nanna ogni santa sera, dal momento che a quanto diceva eravamo troppo chiassosi.