Gabriella Mondardini: il ricordo di Fabio Pruneri
Ricordo di Gabriella Mondardini Sassari,
Aula Eleonora D’Arborea, 16 marzo 2016 ore 17:00
Da storico mi rendo perfettamente conto dei rischi e dei limiti di una testimonianza su Gabriella, e forse anche lei da antropologa avrebbe qualche cosa da ridire circa una narrazione ancora a caldo, perché sono ancora troppo vive le emozioni e i ricordi dei momenti vissuti insieme a lei. Si compiono, proprio in questi mesi, quindici anni di mia docenza in Sardegna. Quanto siano quindici anni lo attesta mia figlia Irene, alla quale indirettamente debbo la mia avventura sarda, dato che accettai un contratto di docenza proprio perché mia moglie, godendo del congedo per maternità, poteva accompagnarmi nell’isola. Non sono sicuro che le cose siano cambiate a Sassari quanto é cambiata mia figlia da lattante a sedicenne di un metro e settanta! Certo sono molto mutato io grazie agli incontri e posso dire alle amicizie che qui ho sperimentato. Ecco partirei dalla parola amicizia, un termine non propriamente accademico che, dall’avvento di Face book, ha bisogno di qualche precisazione. Come Luciano Caimi sa, perché gliene ho parlato più volte, la prestigiosa Università Cattolica, dalla quale lui ed io proveniamo e dove lui tuttora insegna, può vantare illustri docenti e qualificati centri di ricerca, ma manca di un fattore che non rientra nei parametri dell’Anvur e nel conteggio dei “costi standard” ed é il calore umano, un calore e un’accoglienza che io, novello docente “milanese”, avvertii subito in Gabriella. In realtà vivevo un po’ di rendita, dato che si parlava di Caimi, come di un collega particolarmente prezioso. Presto acquistai con Gabriella una mia identità e mi inserii in questo mondo così diverso dal paludato dipartimento di Pedagogia della Cattolica che fino ad allora avevo praticato. Gabriella si trovava in quei primi anni Duemila “come vaso di coccio tra vasi di ferro”. Mi fece subito parte, ma lo avevo ben compreso io stesso, della sua lunghissima militanza al Magistero e delle tensioni che la vedevano in bilico tra il gruppo “dei sociologi”, quello “degli antropologi”, e un po’ più in disparte degli “psicologi”. Dei primi due, intesi come gruppi disciplinare più che come persone, coglieva il valore, il contributo dato al rinnovamento della tradizione degli studi, ma anche, mi sia permesso dirlo, un certo “corporativismo”1. Non amava i “noi” e “loro”, incline com’era alla mediazione. Perciò mi parve che cercasse nei pedagogisti, in Calidoni- prima – e poi molto anche in me, una sponda, un ambiente terzo in cui parlare apertamente di progetti, di studenti e persino di ricerca. Ci fu un passaggio in cui tutto questo mi fu molto chiaro allorché, per ragioni che è lungo spiegare, mi trovai io a dover traghettare, attorno al 2005-06, come presidente pro tempore, nonostante il mio inquadramento da professore associato, la barca del corso di laurea in scienze dell’educazione. Mi confidò, in disparte, che avrebbe accompagnato, come poi fece, con la massima lealtà e disponibilità, il mio mandato. Poi, divenuta ordinario, accettò di alleggerirmi del fardello di quel carico, solo a condizioni che potessi farle ancora da braccio destro. Vorrei focalizzare il mio intervento su Gabriella presidente del corso di laurea per evidenziarne alcuni tratti: DIDATTICA: Centralità degli studenti. Può sembrare ovvio – ma abbiamo tutti prove costanti che non è così – che l’università persegua l’interesse dello studente, il quale in fondo è il vero azionista dell’accademia, ma spesso ci si dimentica di questa stella polare. Gabriella, forse anche per una formazione antropologica, desiderava capire il punto di vista dei ragazzi e dedicava ad ogni studente grande cura. Posso fornire due esempi. In una fase concitata come spesso erano i consigli di facoltà a fronte di chi ci accusava di alimentare la disoccupazione intellettuale rispose con una frase che mi colpì molto. Disse, vado a memoria, che quando lei insegnava non mirava a formare una ristretta elite, perché la Sardegna aveva ancora bisogno di ragazze che studiassero e di donne colte. Ci ammonì dal restare troppo legati ai dati di occupazione e considerare il capitale di cultura fresca che stavamo dando a paesi e villaggi che ancora guardavano con sospetto i laureati. Un secondo esempio mi è stato fornito dai suoi ultimi corsi che terminarono con una mostra allestita dagli studenti stessi. Io non avevo mai visto, e ancora oggi vedo assai raramente docenti capaci di esaltare la partecipazione anche nella ricerca dei ragazzi, invece Gabriella aveva avuto questa determinazione che si era tradotta in una serie di poster e cartelloni che campeggiarono per qualche tempo nel corridoio del DEIS. RICERCA Un altro aspetto che merita di essere ricordato è quello della ricerca. Ne vorrei parlare agganciandolo ancora al tema della presidenza del corso di laurea in scienze dell’educazione. Non posso dimenticare l’entusiasmo che manifestava per la discussione attorno alle nostre comuni piste di indagini. Ricordo i consigli e la simpatia che mostrò per le mie investigazioni sulla storia dell’istruzione in Sardegna, gli spunti che mi offrì e che offriva agli studenti insegnando a valorizzare le testimonianze orali, la cultura popolare, i saperi non codificati. Cordiale e accogliente fu anche con il collega Filippo Sani anch’egli continentale arrivato però più tardi, con il quale Gabriella scambiò più di un parere su temi ad entrambi molto cari come quello della malattia, delle forme di cura e di disciplinamento sociale. TERZA MISSIONE Da ultimo mi sia permesso parlare di Gabriella al di fuori dell’università. Credo che avesse una dedizione per la cosiddetta terza missione che trascendeva gli obblighi istituzionali. Così si spendeva con generosità per la realizzazione di eventi, convegni e pubblicazioni che tenessero viva la memoria di mestieri ormai in disuso: le levatrici, i pescatori. Si interessò con largo anticipo al tema delle produzioni alimentari locali come il vino e il pane, di cui mi spiegò varie volte il valore culturale. Combinò con me persino un convegno in val Sabbia, a Brescia dove trascorsi uno di quei pomeriggi che restano nella vita di una persona per la ricchezza di incontri, mi riferisco al fratello di Vittorio, oltre che per la scoperta di mondi per me abbastanza sconosciuti come quella dei musei della cultura popolare. Insomma il rapporto che mi ha legato a Gabriella si è allargato anche ai suoi cari, ai figli, ai nipoti e a mia moglie e le mie figlie. Questa condivisione, davvero unica, preziosa e così rara nel mondo universitario, la conservo come un importante segno della nostra amicizia che, al di là della retorica, io sento ancora presente, qui oggi. Grazie Vittorio, grazie Gabriella.