Il risveglio del “camminatore” ossia “il matrimonio di mio fratello” del romanziere laureato Enrico Brizzi
Enrico Brizzi, Il matrimonio di mio fratello, Mondadori, Milano 2015 pp. 497 €. 22,oo con lo sconto €. 18,70 in ebook €. 9,99.
Intervista di Massimiliano Coccia
Enrico Brizzi dopo parecchi libri legati a progetti tra i più vari e disparati torna al romanzo con “Il matrimonio di mio fratello” (Mondadori), un libro importante e incisivo, una narrazione veloce e profonda che rende le 497 pagine del libro una lunga sinfonia che arriva dentro l’anima. Un libro che scardina e fa riflettere non solo sulla storia di una famiglia, di fratelli, di idealità tradite, ma su quello che quotidianamente siamo diventati, sul lento gioco delle maschere che indossiamo nelle nostre relazioni sociali, familiari e affettive. Tutto parte da Teo, che 39 anni, un lavoro saldo, benefit aziendali e relazioni fugaci. La sua vita è quella e gli sta bene. Ha un fratello Max che ha 42 anni, un carattere ribelle, che passa giornate tra le montagne per imprese estreme, un matrimonio fallito alle spalle e due figli da accudire. Max è Teo, nel loro contrasto si sono sempre amati, combattuti e radicalizzati nelle loro posizioni. Dietro di loro si muove un tessuto familiare che nasce nell’opulenta Bologna degli anni Settanta e Ottanta, una terra che offriva ogni certezza. Un giorno come tanti, proprio mentre iniziava il week end, sopra questa normalità tutta italiana si abbatte un fulmine: la scomparsa di Max e dei suoi figli. Teo inizia il viaggio più lungo alla ricerca del fratello, dove conduce il lettore alla scoperta del suo mondo familiare, con vizi e virtù, cercando il fratello è come se riannodasse pezzi complessi del proprio io, speranze negate e ferite mai sanate. Un libro forte, intenso come la chitarra di Keith Richards, un libro multiforme come una pietra delle Dolomiti. Una prova superata per Brizzi che ci conduce senza passare per il via, in un diario minimo della vergogna e della speranza, dove le speranze di un Paese che non esiste più fanno da contraltare ai vuoti che famiglie, aspettative e voglia di vivere creano. Enrico Brizzi non è mai monotono, lo si capisce dopo ogni singola pagina e dopo ogni singola risposta a questa intervista.
Come è stato tornare al romanzo?
Essenzialmente tutte le cose che ho scritto negli ultimi anni avevano a che fare con progetti più ampi dai viaggi a piedi al ciclo dei tre libri di fantastoria e ogni volta mentre scrivevo uno di queste cose era già previsto questo romanzo. L’idea di tornare a scrivere qualche cosa come avevo fatto all’inizio con “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” , un romanzo unico, ambientato nell’Italia di oggi, nelle nostre città che avesse al centro i nostri sentimenti, i nostri legami familiari, ho cominciato un anno e mezzo fa a scrivere con questo proposito in testa: scrivi come se fosse l’ultimo romanzo e poi nessuno ti leggerà più, scrivi tutto quello che sai. E alla fine mi è spuntata anche una lacrimuccia.
Come è stato scrivere e creare un personaggio come Teo?
Mi sono fatto da un lato delle gran risate, perché facile ispirarsi alle persone che conosco, dall’altro mi sono provato ad immaginare come fosse stata la mia stessa vita. Teo è un personaggio umano ma terribile, qualunquista, classista, dipendente dalla cocaina, dall’approvazione familiare, una versione mostrificata di me stesso, di ognuno di noi. E’ l’italiano medio visto da fuori è cuore d’oro in realtà.
Invece Max che tipo è?
E’ un personaggio semipositivo, fino ad un certo punto regge, perché buttarsi nelle proprie passioni è visto come una qualità; è il classico personaggio che ti sembra positivo solo quando hai vent’anni. Io stesso mi sono gestito con dei fallimenti, la mia vita familiare sarebbe stata più serena, la quotidianità, invece di vivere nel caos permanente con la valigia sempre fatta mi ha cambiata radicalmente. Nello scrivere questo personaggio ci ho messo molto amore e molta cattiveria, la stessa che hai verso te stesso e dici: “che cazzo sto a fa”. Un motto tenuto presente mentre scrivevo è: “basta mettersi davanti alla macchina da scrivere e sanguinare”, ho sanguinato molto per questo romano perché non ci sono il bello e il bravo dei due fratelli, sono due facce della stessa medaglia. Ognuno dei due è un fallito: Max brucia troppo presto e Teo perché vive sempre ogni partita dalla panchina.
Come è cambiato il tappeto ambientale della tua Bologna? Quanto hai dovuto accantonare questa etichetta nel corso degli anni?
E’ stato modificato in maniera forte. La verità è che mi sono trovato da subito coinvolto nella parte dello scrittore bolognese e questo è fatale perché non essendo ne’ romano e ne’ milanese è pittoresco, la verità è che ho fatto tre figli a Roma e tre figli a Milano, ho abitato a Venezia, mi sento italiano nel senso alto del termine. Bologna è la mia città, mi fa sempre abbastanza sorridere il luogo comune. Ho fatto un’intervista con lo Rai qualche tempo fa e sembrava che fosse piombato in Alaska. La troupe osservava tutto con attenzione incredibile, tipo come se le Torri fossero il simbolo di una riserva indiana. Credo che la deformazione italiana che guarda la provenienza comunale di un individuo sia la causa principale del provincialismo.
Nel romanzo ad un certo punto la svolta avviene con una scomparsa, quella di Max. Quanto questo libro nasce dall’assenza?
Penso che nasca da tante cose. C’è una raccolta di Tondelli, uno dei miei scrittori di riferimento, che si chiama “L’abbandono”, al suo interno è contenuto un racconto che si intitola “Camere separate”, dove l’essenza è racchiusa dall’importanza che percepiamo quando perdiamo le persone. Credo che questa sia la linfa di questo libro. Per me era importante mettere in campo un protagonista che non coincidesse col narratore. Rifletto molto in questo libro sull’importanza e sui brividi che genera un’assenza, sulla tristezza impressa in una lontananza.
Dopo questa fatica a cosa stai lavorando?
Sto lavorando ad altri progetti che non hanno a che fare con la narrazione pura, l’anno scorso ho pubblicato “Il meraviglioso giuoco” (Laterza), che racconta le gesta dei pionieri del calcio, un saggio storico narrativo e sto ultimando il secondo volume, dal 1926 fino alla seconda guerra mondiale. Sto cercando di raccontare la storia del calcio da sport minoritario da sport nazionale con un po’ di vicende interessanti come l’amore galeotto tra la bellissima moglie di Edoardo Agnelli e Curzio Malaparte.