IV. Il ritorno al Rifugio Gesù Bambino dopo l’esilio in famiglia di Eleonora Ortu
In questo capitolo l’autrice mette in chiara luce quella che era l’atmosfera che ebbe modo di resprare presso la madre, purtroppo fino ad allora, un’emerita sconoscita; lo sfruttamento domestico classico di certe famiglie messe su per effetto di gravidanze indesiderate, il ritorno in collegio con lo stigma della fuggiasca che doveva espiare quasi l’atto compiuto con un lavoro pesante, l’atteggiamento della superiora, di probabile origine pastorale, che vestendo l’abito esteriore della Figlia della Carità non aveva affatto mutato il modello educativo proprio di certe famiglie rimaste indietro nel tempo in cui spesso i genitori non si preoccupavano di dire alle figlie: io ti ho fatto e io ti distruggo. L’assenza di un’amministrazione che probabilmente lesinava alle suore i soldi per le necessità delle orfane. Non sono le suore, ma piuttosto le amministratrici che ricevono i contributi dallo Stato, dalla Regione, a volte dai Comuni e che più o meno parsimoniosamente davano alle suore i soldi per provvedere ai bisogni delle ragazze. Questo non significa che nell’esperienza dell’autrice vi sia una evidente denuncia della carenza pedagogica e psicologica di alcune suore che probabilmente, rispetto alla maggioranza di esse, non sentivano per le ragazze da accompagnare nella crescita alcun afflato materno. A tutto questo si aggiunga lo stigma d’essere in collegio dove ti vestivano a seconda delle disponibilità di quanto i privati offrivano senza badare alle misure di coloro che questi abiti dovevano indossare. (Angelino Tedde)
Due mesi di doloroso esilio domestico
La nuova casa di Camilla non l’avevo mai vista, ricordavo molto bene la precedente: una squallida camera in una soffitta, rivestita con una sorta di imbottitura che ne cadeva a pezzi, dove c’era un letto matrimoniale, un cucinino e un comò, illuminata da una piccolissima finestra da cui a malapena potevi vedere il cielo.
Il bagno era sul pianerottolo condiviso con la vicina che dovevo chiamavo zia.
La nuova casa, invece, era composta da una camera da letto con un grande armadio quattro stagioni, un letto matrimoniale, un letto singolo che divenne il mio giaciglio, un cucinino e un piccolo bagno senza doccia e vasca, in tutte e tre le stanze c’era la finestra. Questo fu per due mesi il luogo dei miei “arresti domiciliari”.
Camilla, visto che io ero in casa sua, la prima cosa che fece fu quella di ritirare i miei fratelli dal collegio e mia sorella di cinque anni, che viveva da sempre con i nonni, perciò io durante la sua assenza dovevo occuparmi non solo di loro, ma anche delle pulizie.
Subito presi coscienza che non volevo stare lì con loro, abituata com’ero agli spazi aperti del collegio.
Trascorrere le mie giornate in quelle quattro mura e la mancanza della mia vera famiglia, lasciata al Rifugio, m’induceva al pianto continuamente.
Le poche volte che uscii ero scortata dai miei fratelli che avevano il compito di sorvegliarmi costantemente. Mio padre, mi regalò una radiolina e un paio di pantaloni che Camilla mi portò via, quando rientrai al Rifugio.
Camilla non soltanto non mi forniva l’abbigliamento, ma aveva l’abitudine di portarmi via quello che gli altri mi regalavano: una catenina d’oro che mi aveva regalato la madrina di battesimo e i soldi che mi regalavano i miei zii, quando andavo da loro in paese.
Io non potevo uscire da sola, pur essendo la maggiore, mentre i miei fratelli uscivano tutti i giorni e non davano una mano in casa.
Soltanto io facevo le pulizie, lavavo i piatti, riordinavo la casa; i “signorini” non facevano niente e questo loro comportamento mi mandava in bestia senza contare che Camilla aveva sempre da ridire sulle mie faccende domestiche.
Una sera non avevo voglia di cenare e mi mandò a letto. Io mi alzai da tavola e, com’ebbi voltato le spalle, mi afferrò a tradimento per i capelli, in un attimo, non so come, d’impulso, mi rivoltai e le graffiai tutto il viso, scrollandomela vigorosamente di dosso.
È deplorevole che una figlia si rivolti alla madre, ma lei per me era un’estranea , che pensava di spaventarmi e picchiarmi come faceva quando ero piccola. Ero decisa a non sopportare le sue angherie.
Dal momento che non avevo le chiavi di casa, quando uscivo e lei non c’era, correvo quasi tutti i giorni al Rifugio da suor Giovanna, unica mia consolazione, che per il dispiacere era dimagrita tantissimo. La pregai di fare qualcosa per farmi rientrare in collegio.
La superiora l’avevo vista una volta e nonostante mi avesse promesso di riprendermi con tono sprezzante mi rispondeva che non mi voleva più.
Tante sere, ferma in viale Mameli, davanti al Rifugio, guardavo le finestre illuminate, immaginavo il calore di quella famiglia che avevo perduto e invidiavo le mie compagne che potevano goderne.
Un giorno Camilla, rientrando a casa, trovando la porta socchiusa, pensando che fossi scappata, mi denunciò ai Carabinieri e quando rientrò mi accompagnò in caserma. Davanti ai Carabinieri, piangendo, manifestai tutto il mio dolore dicendo che io con quella donna non volevo più starci e che ero disposta anche ad andare in un altro istituto pur di non rimanere con lei.
Camilla vista la mia determinazione, poiché aveva troppo bisogno di me in casa, con una bambina di cinque anni da gestire, più un’altra in arrivo, mi permise finalmente di uscire ed io ogni volta mi recavo al Rifugio. Suor Giovanna e poi anche Suor Vincenza mi accompagnavano in cappella, per pregare la Madonna, affinché mi facesse la grazia di farmi rientrare in collegio.
Così dopo due mesi d’esilio duro e penoso, la Madonna mi fece la grazia: era il 26 settembre 1974. Non ero che una ragazza di 14 anni.
Probabilmente ci fu anche l’intervento dei Carabinieri presso l’Amministrazione e forse quello di altre istituzioni o persone che non saprei individuare.
Il ritorno in collegio e l’esclusione dalla mia sezione
II problema del rientro fu che nessuna suora di sezione, a parte Suor Giovanna, mi voleva, ma lei non poteva tenermi in portineria perciò fui mandata in cucina da Suor Paola.
Camilla usci dalla mia vita definitivamente, so che mandava una sua amica da Suor Giovanna per convincermi a ritornare da lei, che essendo nuovamente in stato interessante aveva bisogno di me. Per fortuna la mia cara Suor Giovanna neanche mi chiamava in parlatorio perciò mi evitava un incontro spiacevole. So anche che quando ho iniziato a fare il corso di infermiera Camilla si vantava di avere una figlia che studiava e che una volta diplomata mi avrebbe mandato a lavorare a Milano da una sua sorella che lavorava al Niguarda, tutto questo senza che io ne sapessi niente.
Il mio rientro al Rifugio fu accolto da grida di gioia e di stupore da parte delle mie compagne.
Il mio nuovo dormitorio fu il Sacro Cuore, il reparto dove dormiva la suora della cucina con l’équipe delle ragazze della mia vecchia sezione delle grandi.
In cucina lavoravano tre ragazze interne, Grazia, la preferita di Suor Paola, Margherita, donna energica e forte che tutti temevano, suore comprese, e Graziella.
Margherita spesso si occupava, con metodi molto bruschi, dell’educazione delle sorelle e Tina che non era affatto prepotente e disobbediente, spesso si trovava malmenata dalla sorella per accuse infondate che qualcuna le faceva perciò passava dei momenti di vero terrore. In quell’anno per dare modernità ed efficienza al Rifugio furono installati i citofoni, alla casa nuova e in cucina, così, ogni volta che suonava quello della cucina, capitava di vedere una vera e propria gara tra Grazia, Margherita e (Derudas), a chi riusciva a rispondere per prima e tutto questo suscitava dei veri bisticci dove le contendenti si tiravano la cornetta del citofono in testa. Io, ultima arrivata, preferivo stare lontano da tutte quelle beghe, cercando di fare bene il mio lavoro, perché proprio di lavoro si trattava anche se non era retribuito.
La mattina andavo a scuola, all’epoca ero in terza media, e la sera cercavo di studiare su un tavolino dove mangiavamo, finché era libero, poi dovevo cercare un posto altrove, ma dove visto che non sapevo dove andare. Durò così finché non trovai un rifugio tutto mio, che divenne il mio mondo e dove io mi sentivo padrona.
Si trattava dell’ amato pollaio che, fino a due anni prima, mi vedeva occuparmi delle galline che adesso non c’erano più e dove nessuno vi si recava. Occupai l’ultima stanza dove un tempo dormiva il nipote di Suor Maria, la liberai di tutto, recuperai un vecchio tavolino dalla cantina, alla bella meglio e con il materiale che raccoglievo in giro sistemai la finestra che andava bene anche se era senza vetri e ne feci la mia abituale dimora.
Suor Paola, a differenza delle altre suore della sezione, non si occupava di me anche perché doveva passare dalla superiora, per farmi avere il necessario per la scuola, vestiario e vario abbigliamento, perciò era la stessa superiora all’inizio dell’anno scolastico a darmi il materiale didattico, che consisteva in sei quaderni, una penna, una matita e dei libri usati, presi dalle altre sezioni, raccomandandomi di farmeli bastare per tutto l’anno. Si è sempre rifiutata di comprarmi il libro d’inglese, finché le compagne di classe avevano fatto una colletta e me l’avevano regalato. Per me fu una vera umiliazione. La superiora non perdeva occasione per umiliarmi su tutto, non faceva altro che minacciarmi:
– Se non ti comporti bene ti caccio via dall’istituto.-
Non possedevo niente, mi mancavano le cose più essenziali per una ragazza.
– Già mi costa darti ogni mese 500 lire per gli assorbenti.-
Il vestiario che mi dava era fuori misura e spesso venivo presa in giro dalle compagne di classe con frasi:
– Oggi ti sei messa il cappotto di babbo.-
Oppure riferendosi a scarpe particolarmente a punta
-Oggi hai le scarpe alla centramincù-
Sono cresciuta senza mai mettere un reggiseno, perché nessuno me ne hai mai comprato e io non avevo soldi per farlo. Queste carenze mi procuravano molto dolore.
In particolare ho sofferto il freddo ai piedi, perché lei non mi dava i calzettoni e questo disagio mi ha portato, da grande, a tenere i calzettoni sempre, giorno e notte e toglierli solo ad estate inoltrata.
Ricordo che quando le chiedevo qualcosa mi accoglieva sempre con quella risata sprezzante e sarcastica.
In tutta questa sofferenza, per fortuna, avevo un angelo che mi proteggeva e cercava di fare il possibile per aiutarmi, la mia cara amata Suor Giovanna che aveva iniziato a farmi i maglioni di lana e le babbucce, mi dava gli asciugamani che i genitori dell’asilo lasciavano lì, prendeva le offerte che i passanti mettevano sulla statua di Sant’ Antonio che c’è nelle mura perimetrali esterne di viale Mameli, e con quelle mi permetteva di comprarmi le cose più urgenti.
Avevo 14 anni e la Regione Sardegna pagava una retta mensile al Rifugio per il mio mantenimento, eppure ero costretta a lavorare duramente senza avere niente in cambio.
Invidiavo le ex compagne della sezione di Suor Rosalia, le spiavo di nascosto, quando andavano a giocare in cortile o al campo sportivo, mentre io ero costretta a lavare pentoloni.
A scuola andavo sempre peggio, ero diventata molto taciturna e mi isolavo facilmente.
Da bambina ho sempre amato gli animali, soprattutto i gatti ed è in questo periodo che ho iniziato a raccoglierli e a nasconderli nel pollaio.
La mia prima gatta l’avevo preso dal cortile del palazzo vicino al Rifugio, l’avevo chiamata Musetta ed era diventata la mia amica, la tenevo nascosta nel pollaio e ci facevamo compagnia soprattutto mentre cercavo di studiare e quando ebbe a partorire, ebbra di felicità, correvo per i corridoi del Rifugio cercando qualcuna con cui condividere quella gioia, ma non trovavo nessuna degna di ricevere quel segreto.
Commenti
Mi domando spesso, ma la superiora perche’ era così cattiva? Tra i miei ricordi c’è lei che mi chiama alla fine del mio primo anno di magistrale e mi dice di andarmene via perché’ ero stata bocciata, ma la colpa non era mia, ma sua che non mi aveva dato mai un libro e per studiare mi dovevo arrampicare sui vetri ed è ovvio che mi hanno bocciata. Quella suora ha bruciato un sogno, quello di farmi diventare maestra. Era davvero una donna cattiva.
Giusy Silanos
Settembre 29th, 2015
Io ero cordiale con tutte ma mi confidavo solo con una,Eleonora, solo che prima di capire che era stata la mia amica del cuore fui costretta da suor Paola a tradirla, facendo la spia per paura di essere picchiata ancora una volta da mia sorella, dissi dove fosse. Fu la prima e ultima volta che feci una cosa del genere. Mi ricordo anche quanto soffri, quando la mandarono via dal collegio per una bravata da ragazzina, quando arrivava in via Mameli e stava fuori dal cancello mi sentivo impotente perché non sapevo come aiutarla.
Tina Soggia
Settembre 29th, 2015
Ricordo che quando stavano organizzando la fuga io ero al corrente di tutto e per non fare la spia a S. Rosalia Eleonora mi regalò le sue pinne.
Marcella Soggia
Settembre 29th, 2015
Cara Eleonora,
a che anno risalgono le foto?
un caro saluto e grazie
Alessandro Soddu
Ottobre 5th, 2015