Categoria : assistenza, beneficenza

L’attività della famiglia vincenziana in Sardegna di Angelino Tedde

imagesGiovanni Battista Manzella 1855-1937

1.1. Una vocazione adulta

G. B. Manzella nasce a Soncino in provincia di Cremona il 21 Gennaio del 1855, sei anni prima della proclamazione del Regno d’Italia.

La sua era una modesta famiglia artigiana al pari di tante altre del cremonese: il padre Carlo e la madre Laura Zanardi esercitavano la professione di materassai, attività che permetteva loro di mandare avanti la famiglia costituita da tre figli.

Come avveniva in tutte le famiglie dell’800 i ragazzi si formavano tanto al catechismo quanto frequentando le scuole elementari.

Il Manzella inizia a frequentare tale scuola proprio nel 1861, allorché le scuole del neonato Regno d’Italia dovranno unifor¬marsi alle disposizioni della legge Casati.

Successivamente, sempre a Soncino, frequenterà le scuole tecniche di primo e di secondo grado, ultimate le quali, si trasferisce con la famiglia a Castello sopra Lecco, dove a sedici anni inizia a lavorare come commesso in un negozio di ferra¬menta presso la ditta Cima.

Nove anni più tardi lo ritroviamo a Cremona, presso la ditta Vignolo Spreafico, dove la titolare gli aveva affidato per intero la gestione del proprio negozio di ferramenta che, per quattro anni, il giovane gestisce con perizia e scrupolo meritandosi una grande stima.

Di quel periodo si ha notizia della sua assiduità alle confe¬renze maschili di Carità, (fondate a Parigi nel 1833 dal giovane storico francese F. Ozanam e istituite a Livorno dallo stesso nel 1855), della sua capacità di animatore di gruppi giovanili grazie alla sua abilità di prestigiatore.

A ventinove anni abbandona la sua attività di commesso per entrare a Monza nell’istituto Villoresi per vocazioni adulte, dove inizia la sua formazione religiosa e umanistica secondo il cur¬riculum di studi dei seminari tridentini.

La Chiesa in quel delicato momento, in cui si inaspriva la questione romana e contemporaneamente si ponevano le basi della dottrina sociale cattolica, mirava con particolare atten¬zione, alla formazione umanistica, filosofica e teologica dei fu¬turi preti.

In pratica il prete dell’800 doveva conoscere il latino, il greco, la filosofia aristotelica, quella tomistica (S. Tommaso) comunemente chiamata scolastica, e naturalmente la teologia.

G. B. Manzella nell’arco di nove anni, (1884-1893) dovrà studiare il latino e il greco, la filosofia, le argomentazioni e le tematiche teologiche cosa non facile vista l’età e la precedente preparazione scolastica ad orientamento tecnico.

Tre anni dopo entra nella Congregazione dei Preti della Missione della provincia vincenziana di Torino e viene accolto a Chieri, sede del noviziato e del liceo, e successivamente passa a Torino per portare a termine gli studi presso la facoltà teolo¬gica, sino alla conclusione, dove riceverà gli ordini minori (ostiariato, lettorato, esorcistato, accolitato) e gli ordini maggiori (suddiaconato, diaconato e presbiterato).

Esattamente a 37 anni viene ordinato sacerdote e comincia la sua attività di missionario vincenziano.

Lo ritroviamo infatti per pochi mesi direttore della Scuola Apostolica di Scarnafigi (Cuneo), dove venivano formati insie¬me agli apostolini dei convittori laici del corso ginnasiale.

Dopo questo breve periodo, fu mandato come direttore dei novizi a Chieri (Torino) e in quell’ufficio rimase circa cinque anni quasi a rivivere un’esperienza vincenziana che egli aveva dovuto abbreviare per via dell’età.

La permanenza così lunga alla guida umana e spirituale dei novizi dovette affinare sicuramente le sue capacità di direttore spirituale, di confessore e di formatore di aspiranti al sacerdo¬zio, compito che svolse poi frequentemente in Sardegna.

Una attenta ricerca sui documenti d’archivio del noviziato di Chieri nel periodo in cui egli fu maestro dei futuri missionari servirebbe non poco a conoscere sia le fonti letterarie bibliche a cui egli faceva costante riferimento sia l’esito che questa espe¬rienza poté avere sui novizi presenti sottolineandone i successi e anche i limiti.

Sarebbe interessante sapere quanti novizi abbandonarono all’epoca il noviziato manzelliano, quanti proseguirono per la via del sacerdozio e quanti giovani la abbandonarono. E ciò in riferimento al fatto che il Manzella dimostrò una capacità deci¬sionale inconsueta quando si trattò di sconsigliare la via del sacerdozio a seminaristi sardi, particolarmente del seminario di Sassari, dal momento che in una particolare circostanza arrivò al punto di invitare apertamente alcuni a lasciare quella strada inadatta per loro.

Contemporaneamente a questa attività interna alla congre¬gazione della missione, come tutti i suoi confratelli, svolgeva attività pastorale in Chieri e dintorni, con predicazioni al popolo e al clero.

Di questo periodo restano quaderni con accurati appunti di catechesi che andrebbero letti e approfonditi, ma che da un primo sguardo denotano l’impegno e lo scrupolo del vincen¬ziano nella preparazione biblica e scitturistica.

Nel 1898 ha inizio la sua attività missionaria nella Casa di Como, esperienza che dura non più di un anno.

Dal settembre del 1899 fino al novembre del 1900, lo si ritrova infatti come direttore di chierici nel piccolo seminario di Casale Monferrato dove non gli mancarono i problemi di carat¬tere amministrativo interno come si rileva da una sua rendicon¬tazione in cui ammette francamente che nonostante la collabo¬razione dei confratelli p. Cortassa e p. Parodi non riesce a districarsi sui conti a causa della molteplicità di essi e dei mutamenti finanziari avvenuti:

“Ho trovato un distintissimo e chiarissimo stato di cassa steso dal nostro amatissimo signor Parodi. Ma oggi non è più così -cartelle cambiate, redditi pagati- e variazioni tali avven¬nero che non le ho ancora potute capire. Abbia pazienza adunque se il riassunto non è soddisfacente. Io di pazienza debbo usarne abbastanza con queste confusioni.”

E’ indubbio che il giovane missionario, data l’esperienza contabile avuta, intendeva fornire un bilancio conforme alle regole contabili e non limitarsi alla buona a presentare un semplice rendiconto di cassa.

D’altra parte, sicuramente il visitatore o l’economo p. Alloatti più che un’esatta rendicontazione, secondo le regole ragionie¬ristiche, era interessato a conoscere le giacenze di cassa e basta. Lo scrupoloso Manzella, invece, era preoccupato di far capire al suo superiore che le cose si fanno secondo precise regole contabili e non con semplicismo.

Tale esperienza fu interrotta da una nuova destinazione, la Sardegna, che raggiunse nel novembre del 1900.

Quando p. Manzella arrivò nell’Isola aveva 45 anni d’età e sette anni di sacerdozio.

Gli venne subito affidato il compito della direzione spirituale del Seminario di Sassari che allora accoglieva oltre che il gin¬nasio liceo anche la facoltà teologica della provincia ecclesia¬stica del Nord Sardegna: 68 alunni, 8 nel convitto della scuola elementare, 31 nel ginnasio 6 nel liceo e 23 in teologia.

Prese residenza coi confratelli nella nuova sede di via Muroni e quotidianamente si recò nel seminario per il suo deli¬cato compito di direttore spirituale di una struttura formativa in cui i chierici convivevano con i convittori. Ad ogni buon conto il nuovo direttore ottenne gradualmente dagli aspiranti al sacerdozio la comunione più frequente, il lindore della cappella e maggior frequenza alla visita eucaristica. Svolse questo compito dal 1900 al 1905: in questo periodo si ritrova anche a predicare le missioni al popolo con altri confratelli a Bono, a Benetutti, a Ozieri, a Buddusò, a Pattada, dove fondò anche le locali compagnie delle Dame di Carità.

Anche su questo periodo resta molto da indagare sia utiliz¬zando i documenti dell’archivio del seminario sia esaminando il fondo della biblioteca vincenziana.

A parte qualche testimonianza di stile agiografico sia su questi primi cinque anni sia sul periodo che va dal 1926 al 1934 allorché riprese la direzione spirituale del seminario, questa volta minore, poco é stato scandagliato sulla sua attività di direttore spirituale.

E’ indubbio però che l’uomo si impose subito per la compe¬tenza acquisita a Chieri come direttore dei novizi.

Come si è già detto, data la scarsità delle testimonianze scritte da parte dei chierici dell’epoca e la riservatezza in cui deve operare il direttore spirituale non è agevole emettere giudizi documentati sull’opera da lui svolta in questo delicato ufficio è certo però che anticipò alcune iniziative che poi furo¬no suggerite nel 1905 dalle direttive sui seminari da parte di Pio X.

2.2. Un uomo d’azione

La Sardegna godeva allora di una non buona fama sia per la malaria sia per l’arretratezza sia per la povertà dei suoi abitanti, per la maggior parte pastori e agricoltori.

Occorre ricordare in proposito che la prima esperienza dei vincenziani, tra il 1836 e il 1866 a Oristano, era stata dramma¬tica: erano morti quasi tutti giovanissimi di febbri malariche.

Il Manzella giungeva con un corredo di esperienza pratica di commerciante, capace di capire il valore del danaro, ma anche del modo migliore di investirlo, da autentico operatore econo¬mico. Ciò aveva appreso, infatti, dalla sua più che decennale esperienza di commesso e gestore di negozi di ferramenta nonché di figlio di genitori artigiani.

Contrariamente ai suoi confratelli, che, trovandosi in semi¬nario sin dai dieci undici anni, venivano educati lontano dagli affari, il Manzella aveva appreso, sia a Lecco sia a Cremona, l’arte del commercio, delle buone maniere con i clienti e della pubblicità per i prodotti da vendere alle varie categorie di arti¬giani.

D’altra parte, nella sua permanenza presso le strutture formative della sua Congregazione sia come studente sia come direttore e maestro aveva potuto far proprio e “incarnare” quello che viene definito lo “spirito vincenziano”, la piena disponibilità per gli strati più poveri ed emarginati della società così come richiedeva il metodo vincenziano.

Questo era impostato sui seguenti obiettivi: formazione educativa dei giovani destinati al sacerdozio; formazione del clero secolare; formazione delle varie filiazioni della numerosa famiglia vincenziana e infine, l’istruzione e l’educazione cristia¬na del popolo .

Al p. Manzella, al suo arrivo nella città di Sassari, fu affidato come primo campo d’azione la direzione spirituale del semi¬nario arcivescovile, che annoverava allora professori, prefetti, teologi, filosofi, alunni del ginnasio e della scuola elementari per un totale di circa settanta persone .

Da notare che non tutti gli aspiranti al sacerdozio risie¬devano nel seminario, molti chierici, infatti, alloggiavano presso famiglie a pensione perché in condizioni economiche piuttosto disagiate e non potevano pagarsi la retta richiesta dal seminario, ciò incideva negativamente nella formazione dei giovani al sacerdozio, esposti ai pericoli di una coabitazione promiscua.

Questo problema fu discusso nella Consulta del 26 ottobre 1901, e soltanto all’inizio del 1903 fu fondato e diretto dal p. Manzella il Convitto Ecclesiastico per chierici poveri .

P. Manzella oltre a prendere contatto coi suoi confratelli, ebbe modo di contattare anche i teologi, i giovani e non giovani del seminario, i componenti della famiglia vincenziana laica sassarese, e in particolare, in campo maschile il cav. Carlo Rugiu, fondatore, fin dal 1855 a Sassari delle Conferenze maschili di Carità in campo femminile le più ragguardevoli Dame della Carità tra le quali la Bellieni, la Pittalis Zirolia, donna Raimonda Usai e numerose altre.

Lo stesso Rugiu, infatti, fin dal 1864 con la collaborazione di altri sacerdoti e laici, aveva aperto sul colle dei Cappuccini, in una parte del convento concessagli dal Comune, un ospizio per trovatelli e sia da consigliere civico che da consigliere provinciale si era dato da fare per andare incontro ai poveri della città –

Tra i membri del clero, oltre al vecchio vescovo Marongiu Delrio, ebbe modo di conoscere e apprezzare i professori del seminario arcivescovile .

La città di Sassari coi suoi 36.000 abitanti già fiorente per l’economia, attraversava come si vedrà più specificatamente nel capitolo seguente, un periodo di crisi economica che porterà dei mutamenti notevoli fra le diverse classi cittadine, con un conseguente arricchimento attraverso l’usura dei grandi deten¬tori della ricchezza mobiliare, (che a Sassari erano soprattutto i commercianti), che acquistarono una responsabilità ed un ruolo di detenzione del potere economico che fino ad allora non avevano mai avuto. Tutto ciò e’ visibile nella vita politica sas¬sarese dove si inserirono.

Sino ad allora infatti, il gruppo dei commercianti era isolato dalla vita amministrativa e politica della città, nella maggior parte non erano originari di Sassari e nell’opinione pubblica non era concepita una loro attività che uscisse dall’ambito mercantile

La vita politica di Sassari era caratterizzata dalla presenza di due gruppi che emergevano su gli altri: quello politico antigo¬vernativo dei progressisti o repubblicani o mazziniani che era il più combattivo e quello dei conservatori filogovernativi.

Dopo F. Sulis un professore universitario che aveva capeg¬giato il liberalismo sassarese sino all’unità e quindi fino al 1860, il personaggio di maggior rilievo della vita politica cittadina era stato un fervente repubblicano di Sassari, Gavino Soro Pirino.

D’altra parte, la corrente dei giovani aveva già scelto il leader di ricambio, da sostituire al Pirino, nell’avv. Filippo Garavetti, il protagonista della più aperta opposizione nei suoi confronti, candidato al parlamento nel 1882 e nel 1887 deputato di Sassari.

Vi erano poi, i moderati capeggiati dal prof. Giommaria Devilla, dal cav. G. Pintus dall’avv. Segni e dal prof. Delitala. La minoranza progressista invece era guidata dall’avv. Berlinguer dall’avv. Satta Branca dall’avv. P. Moro ed aveva l’appoggio del consigliere provinciale Garavetti.

I liberali erano guidati dall’on. Abozzi che aveva dato avvio ad un eterogeneo partito che raccoglieva le istanze dei liberali e dei conservatori.

Lo stesso Abozzi negli anni 1897 1902 avrebbe poi tolto il potere cittadino al gruppo radicale repubblicano .

All’arrivo del Manzella a Sassari si stavano verificando in seno alla vita politica una serie di assestamenti all’interno dei gruppi, con spostamenti di alcuni personaggi politici di rilievo dall’uno all’altro dei due maggiori schieramenti contrapposti che crearono un risveglio dell’attività politica locale assai vivace.

Il gruppo progressista aveva un organo di informazione molto influente nella città La Nuova Sardegna, sorto come set¬timanale nell’agosto del 1891, divenuta poi quotidiano l’anno successivo .

Diretto dall’avv. Satta Branca il foglio, era di chiara intona-zione progressista repubblicana.

Accanto a La Nuova i cattolici di Sassari per iniziativa del sindaco di Gavoi notaio ad Orani Salvatore Daddi contrappo¬nevano il quotidiano cattolico L’Armonia Sarda.

Le polemiche sorte tra i due fogli, conseguenti alle diversità ideologiche, renderanno ancor più vivace la vita cittadina .

E’ intorno ai nomi di Garavetti ed Abozzi che si svolgerà la vita politica sassarese sino alla prima guerra mondiale –

P. Manzella, venuto a contatto con gli ambienti cattolici della città, offrirà il suo apporto, insieme al noto avv. Zirolia, dap¬prima all’Armonia Sarda e, alla chiusura di questa, a La Libertà, primo periodico sardo di orientamento sturziano.

Per circa sei anni sarà impegnato nella direzione spirituale degli alunni del seminario arcivescovile, e contemporanea¬mente, inizia le missioni al popolo e i corsi di esercizi spirituali al clero e alle religiose; dirigendo anche il convitto ecclesiastico per chierici poveri, da lui promosso come già si è detto nella Casa della Missione, della quale sarà superiore dal 1906 al 1912.

E’ in questo periodo che p. Manzella avrà l’opportunità di iniziare le missioni nei centri del nord-Sardegna, così denomi¬nata secondo la divisione amministrativa, che allora abbracciava la provincia di Sassari e buona parte di quella di Nuoro.

Perciò, oltre che a provvedere alla formazione del Clero, del personale religioso femminile, prende contatto non solo col mondo degli emarginati della città di Sassari, con l’aristocrazia e borghesia cattolica, ma anche con la povertà delle svariate sot¬toregioni della Sardegna del Capo di sopra. In quei primi anni, infatti, predica oltre che a Sassari ad Alghero, a Ozieri, a Tempio, a Bosa, a Nuoro e talvolta anche a Cagliari, quasi sem¬pre accompagnato dai suoi confratelli presenti a Sassari o a Cagliari.

Nello stesso periodo Manzella sostituisce il suo confratello p. Genta come assistente del circolo giovanile cattolico Silvio Pellico, da cui uscirà parte della classe dirigente di matrice cat¬tolica della città di Sassari.

L’infaticabile prete della Missione si prende a cuore anche la formazione delle Dame della Carità, alla cui compagnia aderi¬scono circa una trentina di socie attive e oltre duecento onora¬rie, della migliore aristocrazia e borghesia sassarese.

Grazie alla numerosa schiera delle Dame di Carità comincerà a dotare Sassari di quelle strutture socio assistenziali di cui la città aveva bisogno ma che non riusciva a realizzare.

Nel 1905 dà la sua collaborazione al decollo del Rifugio Gesù Bambino per le bambine abbandonate.

Nel 1910 promuove l’apertura della Casa Divina Provvidenza per Cronici e Derelitti.

Promuove anche la fondazione dell’istituto dei Ciechi e quello dei Sordomuti e, infine, durante le sue missioni nella provincia, promuove l’istituzione degli orfanotrofi di Bonorva, di Tempio, di Terranova e contemporaneamente in tutti i centri l’istituzione della compagnia delle Dame di Carità, che più tardi, nell’ultimo decennio della sua vita (1924-1934), riuscì a ravvi¬vare col bollettino La Carità, che diresse personalmente fino a qualche anno prima della sua morte e da cui si può attingere quanto di meglio si possa trovare per apprezzare il suo impe¬gno formativo a favore dei giovani e degli adulti.

Le sue lettere e il bollettino La Carità costituiscono impor¬tante fonte di informazione sul suo pensiero educativo nei con¬fronti dei minori e formativo nei confronti degli adulti.

La circolare Gasparri con la quale si impone al clero di te¬nersi lontano dalla politica offre al missionario vincenziano l’opportunità di curare maggiormente la formazione sia del personale religioso sia del personale laico impegnato nell’at¬tività assistenziale dei piccoli, dei bisognosi e dei vecchi più diseredati.

Egli promuoverà, quindi, accanto agli ospizi a favore delle varie categorie di diseredati, anche l’apertura di oltre venti¬cinque asili, perché i piccoli, raccolti dalla strada, venissero ade¬guatamente nutriti e allevati .

2. 3. Un asilo per i poveri abbandonati

Il Manzella durante i festeggiamenti per il 50° della istitu¬zione delle Dame della Carità a Sassari, dopo la rievocazione storica dello Zirolia, prese la parola per dire alle Dame testual¬mente:

“Una signora cagliaritana venuta a rappresentare alle no¬stre feste l’associazione della sua città, diceva – Il miglior ricordo del cinquantenario è un’opera di beneficenza.

Ed io ne propongo tre:

1. L’asilo degli abbandonati

2. La protezione della giovane.

3. Le case operaie.

L’istituzione d’un asilo dei poveri abbandonati, proposta anche dalla signora presidente, è di assoluta necessità.

Quanti sono infatti i bambini, gli adulti ed i vecchi che pas¬sano la notte dove il caso li conduce, perché non hanno un tetto, un misero tetto sotto cui rifugiarsi, trovare protezione dalle intemperie ed un freno che li trattenga dalla china rapida dell’immoralità?

E’ doloroso pensare che mentre tutti gli animali hanno un nido, un cespuglio od una tana, tanti poverelli non hanno dove passare la notte.

Mi si potrebbe obiettare che qualcosa si è fatto. Si! ma è troppo poco.”

Uguale discorso per le altre due istituzioni.

Questo il discorso fatto nel giugno del 1909.

Il proposito non morì in questa circostanza dal momento che dell’anno successivo, tra i documenti dell’archivio della Casa Divina Provvidenza, abbiamo ritrovato degli appunti che sicu¬ramente ha steso la Zirolia Pittalis nel 1929 sulla scorta dei ver¬bali delle riunioni delle Dame e che in mancanza di questi ultimi ci soccorrono per documentare l’impegno del Manzella e la sua tenacia nello stimolare le Dame a realizzare le opere.

Gli appunti datano dal 10 settembre 1910 e si concludono col 28 novembre del 1928.

Grazie ad essi è decisamente documentato l’impegno del Manzella alla fondazione dell’istituto nei momenti in cui parte l’iniziativa.

Il vincenziano, scoraggiato per le difficoltà incontrate per il reperimento dei locali “consigliò che si facesse una novena all’Immacolata”, iniziata la quale le buone Dame riescono a re¬perire i primi locali per dare inizio “all’erigendo istituto dei cronici”.

Il Manzella, visto il successo della fruttuosa novena, e il conseguente ricovero delle prime donne bisognose, ne propone un’altra di ringraziamento.

Il vincenziano lo si intravede ancora attraverso questi scarni appunti allorquando le Dame attendono un suo giudizio sul Regolamento dell’istituto e successivamente allorché si delibera, su sua proposta, “…che quando avviene il decesso di una cro¬nica della Div. Provv. qualora pel seppellimento non possa la famiglia della defunta, la Società delle Signore conceda le L.2,50 alla parrocchia più L.1,50 per una messa affinché le de¬funte della detta Casa abbiano la carità delle loro benefattrici anche dopo morte

Gli scarni appunti del 13 maggio 1912, subito dopo la noti¬zia di una sottoscrizione ” …per l’erigenda Casa dei Cronici per¬ché quanto prima si veda compiuta con più solide basi un’opera tanto necessaria… il superiore consiglia per lo scopo una nove¬na all’Immacolata poiché si capisce che ogni impresa non riesce senza l’aiuto del Cielo.”

Nella discussione avvenuta un mese dopo, esattamente il 10 maggio 1912 la compilatrice delle note desunte dal libro delle adunanze delle Dame testualmente scrive: ” Si apre una discus¬sione per i tanti ostacoli che sorgono per l’erigenda Casa dei Cronici e il signor Manzella, viste le difficoltà consiglia una novena all’Immacolata. Raccomanda che dalle buone opere sia bandito ogni principio umano e che il tarlo della vanagloria non le corrompa ma tutto sia fatto con purità d’intenzione ossia per la maggior gloria di Dio.

Umiltà e fede, anche il peccatore si salva col dono della Fede.” Gli stessi concetti vengono ribaditi in una riunione alla fine del mese di Giugno.

Sulla riunione del 29 ottobre 1912 l’anonima compilatrice tra le altre cose annota “Sig. Manzella dimostra il vantaggio di vivere spoglio da cariche e ambizioni umane”

Vi è da supporre che con questa riunione il vincenziano desse l’addio alle sue Dame in quanto alla fine del suo mandato di Superiore della Casa della Missione e contestualmente di Direttore delle Dame della Carità dal momento che dalle anno¬tazioni del 26 maggio 1913 appare come Direttore delle Dame il signor Scotto.

Il Manzella, avviata la sua opera presumibilmente continuò a dare la sua direzione spirituale, a livello personale alle Dame e ad incoraggiarle nell’avvio e nella realizzazione della Casa Divina Provvidenza per i Cronici Derelitti, ma ufficialmente non compare più, almeno allo stato attuale delle ricerche, nella realizzazione di quest’opera. Il suo interessamento alle Dame della Carità di Sassari e di tutta l’Isola apparirà chiaramente a partire dal 1924 allorché col suo bollettino La Carità, con gli scritti e con gli esempi sulle altre fondazioni apparirà maestro di teoria e prassi alle Dame della Carità di tutta l’Isola.

Dopo essere stato direttore spirituale del seminario, dal suo arrivo fino al 1906, e quindi Superiore della Casa della Missione fino al 1912 si accommiatava dall’impegno attivo con le Dame della Carità di Sassari per dedicarsi nei successivi dodici anni quasi totalmente alle missioni nei centri rurali di tutta l’Isola.

III

Emarginazione e povertà nella Sassari del

Primo Novecento*

3.1 Situazione socio-economica tra 1900 e 1920

Il XX° secolo si apre per la città di Sassari con la tenue spe¬ranza d’una ripresa economica, dopo la terribile crisi che aveva caratterizzato la fine dell’800.

Fra le principali cause di questa crisi ricordiamo l’epidemia di fillossera del 1883 che distrusse quasi tutti i vigneti sassaresi; la guerra delle tariffe con la Francia, che portò alla chiusura dei traffici commerciali con quella nazione; il fallimento di nume¬rosi istituti bancari.

Se tutta la Sardegna fu gravemente provata, soprattutto dagli ultimi due eventi, la città di Sassari fu forse quella che meglio reagì alla situazione di cui s’è parlato.

In seguito alla rottura dei rapporti commerciali con la Francia i prodotti che da questa venivano maggiormente as¬sorbiti, quali bestiame, grano, olio trovarono altri sbocchi o verso la penisola o in città stesso, dove la piccola industria lega¬ta al settore agricolo quale quella dei mulini, frantoi, concerie, conobbe un momento di rinascita.

Coloro che maggiormente risentirono delle mutate condi¬zioni economiche furono soprattutto i piccoli agricoltori, che costituivano il 20 % della popolazione attiva essendo il circon¬dario di Sassari particolarmente fertile e adatto quindi alla at¬tività agricola, che veniva tuttavia praticata con metodi arretrati quasi di sussistenza e non consentiva certo una vita dignitosa ai suoi operatori ; questi rimanendo arroccati sui loro vecchi si¬stemi produttivi si videro surclassare dai trasformatori dei pro¬dotti e dagli intermediari commerciali, la città stessa perdeva il suo aspetto prevalentemente agricolo per assumere quello di un centro commerciale.

Agli inizi del 900 la popolazione presente nel comune di Sassari è di 38.205 unità di cui 32.763 nel solo capoluogo . Questo il suo evolversi nel corso del primo ventennio . 1901: 38.268 abitanti, 1911: 43.145 abitanti, 1921: 42.946 abitanti.

Ciò che maggiormente influì sull’andamento demografico, fu il primo conflitto mondiale con la diminuzione della natalità e l’aumento della mortalità, dovuta ai caduti in guerra e ai morti in seguito alla pandemia influenzale.

La città che all’inizio del secolo toccava i 38.000 abitanti si accrebbe nel primo decennio di oltre 5.000 unità, perdendone oltre un migliaio nel 1921. A partire dal 1922 si ha però una ripresa che sarà pressoché uniforme nel tempo.

Il tasso più alto di emigrazione all’estero si ebbe nel 1913 con 868 unità, mentre cessò o quasi, nel periodo bellico per riprendere con cifre più modeste negli anni successivi al conflit¬to e ridursi notevolmente dal 1924 in poi .

All’inizio del 900 la stragrande maggioranza della popola¬zione viveva in condizioni deplorevolissime dal punto di vista igienico, ammassata nella città vecchia : la penuria di case era molto avvertita, tanto che, nel 1919, fu emanato un Regio Decreto nel quale si dispose che i comuni potessero ottenere dal Prefetto la facoltà di espropriare abitazioni di proprietà privata non ultimate o che si trovassero in deficienti condizioni igieni¬che, qualora il proprietario non potesse o non volesse prov¬vedere alla loro ultimazione o al loro risanamento, affinché altri godessero dell’immobile .

La città di Sassari si componeva di due parti nettamente distinte: la città vecchia e quella nuova dovuta all’espandersi delle costruzioni intorno alle vecchie mura.

I quartieri della città vecchia, S. Donato, S. Apollinare, Duomo, Università, Piazza Tola, erano quelli dove maggior¬mente si avvertivano i bisogni, poiché erano abitati prevalente¬mente da strati sociali poverissimi, che vivevano in gravi condi¬zioni di indigenza .

Molte delle abitazioni della città vecchia erano alte poco più di due metri, abitate di solito, da contadini che lavoravano le campagne vicine. Le casette, spesso sotto il livello stradale erano formate da un’unica camera in cui trovava luogo il letto o i letti per l’intera famiglia, la cucina, il pozzo nero, posto in prossimità della porta di casa, costruito con tubi d’argilla, che comunicava direttamente con le fognature, senza alcun sifone.

Unica apertura per il ricambio dell’aria di quegli ambienti bui, angusti, umidi, covi di microbi e malattie, dove il sole non penetrava mai, era l’unica portafinestra.

Nonostante tutto, questi edifici erano spesso adibiti a bot¬teghe per la vendita di oggetti alimentari, quali frutta, erbaggi, pane in contrasto con qualsiasi norma igienica .

I bambini numerosi scalzi, sporchi e mal vestiti giocavano per le strade in contagiosa promiscuità dove alla scarsa igiene privata corrispondeva una ancor più scarsa igiene pubblica che, secondo una relazione del 1920, non era completamente impu¬tabile alla noncuranza della autorità, ma dovuta anche alle carat¬teristiche climatiche e geografiche della città. Posta, infatti, su di un altopiano privo di monti che lo circondano e sottoposta a forti venti, le lordure e le sporcizie delle strade venivano solleva¬te e trasportate con tutte le conseguenze di carattere igienico che ne derivavano .

A render ancora più tragica la situazione vi era l’endemica scarsezza d’acqua che caratterizzava da sempre la città, decisa¬mente insufficiente alle necessità della popolazione, spesso ero¬gata a giorni alterni.

L’acqua fornita, veniva usata, quasi esclusivamente, per scopi alimentari, poiché come abbiamo visto ne l’igiene privata ne quella pubblica erano esigenze particolarmente sentite, anche i panni venivano lavati nei pubblici lavatoi esistenti in Sassari in numero di 3, ossia quello di Rosello, delle Conce e del Mulino a Vento, quindi non solo insufficienti in proporzione alla popo¬lazione, ma anche non rispondenti alle più elementari norme igieniche, poiché la lavatura avveniva in un unica grande vasca in muratura dove il rinnovo dell’acqua non si aveva con la necessaria frequenza .

In base a quanto detto si può capire come precaria fosse la situazione dal punto di vista igienico e di come la salute pub¬blica risentisse di questo stato di cose col proliferare di nume¬rose malattie.

Le malattie più diffuse nella città di Sassari, nel primo ven¬tennio del secolo, come d’altronde nei decenni successivi, erano la malaria, la tubercolosi, il tracoma.

La malaria di cui la Sardegna aveva un triste primato, determinata da condizioni geografico-ambientali, era un feno¬meno secolare, che si legava alla persistenza dell’agricoltura estensiva e al regime fondiario conseguente.

All’inizio del 900 fu effettuato a Sassari ad opera di Claudio Fermi , il primo tentativo di liberare un’intera città dalla fasti¬diosa ma innocua “culex pipiens” e contemporaneamente si tentava il risanamento antimalarico di alcuni centri della pro¬vincia e dell’agro sassarese.

Tali campagne richiedevano notevole dispendio di uomini e mezzi e nonostante gli sforzi i risultati erano spesso poco dura¬turi.

Notevoli passi avanti nella lotta contro la malaria si ebbero quando anche in Sardegna prese piede la tecnica della chininiz¬zazione incentivata da una serie di leggi varate tra il 1900 e il 1904, che istituivano in tutta l’Isola decine e decine di stazioni per la diffusione del chinino. Questo significò l’abbandono di iniziative di più ampio respiro quali l’opera di risanamento terri¬toriale e di protezione delle case, attraverso l’eliminazione di acquitrini anche ad opera di privati.

Sebbene col metodo chininico si ottenessero ottimi risultati, anche a breve scadenza, il problema non veniva certo risolto all’origine, nel 1913 dopo un decennio di chininizzazione, la provincia di Sassari occupava il terzo posto per malaricità in Italia.

Questo dimostrava come le popolazioni non potessero essere eternamente chininizzate e che per risolvere il problema, era necessario una profilassi tellurica antianofelica radicale eseguita in modo razionale e scientifico .

Anche la Chiesa era chiamata in prima persona a svolgere opera di propaganda nei confronti del popolo, affinché le ordi¬nanze comunali in materia antimalarica fossero eseguite e rispettate.

Altro grave problema per la città di Sassari, di cui aveva ugualmente il triste primato per mortalità, era quello della tubercolosi.

Per cercar di porre un freno a questa terribile situazione fu istituito, intorno al 1918, un dispensario antitubercolare, affin¬ché fosse resa più incisiva e razionale la lotta contro questa ter¬ribile malattia, esso si occupava delle visite gratuite agli am¬malati e della distribuzione dei medicinali. La clientela dispen¬sariale era composta prevalentemente da donne e bambini, il fatto stesso che fossero i bambini i più colpiti, era un’ulteriore indicazione della necessità d’intervenire sin dalla prima infanzia, quando l’organismo era più esposto alla prima invasione, e la cura più proficua che non negli adulti. Fra le principali cause che determinavano a Sassari la diffusione della tubercolosi, chiamata anche la “malattia della casa”, c’erano lo stato delle strade, delle piazze, l’insufficienza d’acqua, la mancanza di una elementare cultura igienica antitubercolare .

Anche il tracoma mieteva in città numerose vittime. All’inizio del secolo la sua diffusione era tale, che il Consiglio Provinciale Sanitario suggerì l’istituzione in due diversi punti della città, di pubblici ambulatori gratuiti per i poveri, e di scuole separate per i bambini tracomatosi, ma i risultati non furono quelli sperati, questo soprattutto per i pubblici ambula¬tori, che venivano ben presto aboliti e sostituiti nella loro fun¬zione dalla Regia Clinica Universitaria; invece la scuola per tracomatosi funzionò sempre con successo e passò dalle due classi dell’anno di fondazione (1902) a ben sedici (1920), sud¬divise in due gruppi, di cui uno trovava alloggio nel nuovo caseggiato scolastico di San Donato, uno dei migliori della città a cui era annesso anche un ambulatorio, riservato esclusiva¬mente agli alunni, che venivano così seguiti quotidianamente. L’altro invece a causa della mancanza di edifici appositi era sparso in diversi punti della città.

Impegnate attivamente, nella lotta contro il tracoma, anche un gruppo di signore, di cui era instancabile presidente la nobi¬le marchesa Vincenza di Suni.

Costoro si proponevano l’apertura di nuovi ambulatori pubblici e di un ospedale apposito per tracomatosi, sebbene il comune avesse concesso a questo titolo, un area gratuitamente, l’iniziativa per quanto valida non ebbe seguito .

A questa situazione così difficile dal punto di vista igienico sanitario, si aggiungeva la povertà cronica di quasi tutte le famiglie che abitavano il centro storico. Ogni anno, così impo¬neva la legge, veniva redatto da un’apposita commissione comunale, composta anche dalla presidente delle Dame di Carità, un elenco di poveri.

Per poveri si intendevano tutte quelle famiglie che pur avendo una misera casupola, o per il gran numero dei figli, o perché il capo famiglia era malato, o perché la madre vedova di guerra, non potevano provvedere al proprio sostentamento .

Si può capire come di fronte a disagi così grandi quali la salute o l’impossibilità di trovare quotidianamente il necessario per il proprio sostentamento, o per quello della propria fami¬glia, quello dell’istruzione non fosse particolarmente sentito.

Questo aspetto è giustamente sottolineato in un opuscolo dal titolo “Infanzia Cenciosa e Istruzione Popolare” dove al grido “istruiamo l’infanzia”, “educhiamo i bimbi”, si risponde: “diamo loro il benessere materiale, senza il quale mai si sentirà il biso¬gno di nutrimento intellettuale.

L’uomo non cessa d’essere animale finché i suoi bisogni animali non saranno soddisfatti” .

Ma in effetti le iniziative intraprese dalla scuola del popolo sembrano proprio orientate in questo senso. Il patronato sco¬lastico istituito agli inizi del 900 per gli alunni delle scuole elementari maschili e femminili del comune di Sassari, si proponeva di agevolare la frequenza per mezzo di soccorsi a fanciulli bisognosi e di ricompense ai più diligenti. Poiché gli aiuti consistevano oltre che nella distribuzione di materiale didattico, anche in quello di alimenti, calzature, vestiti, si vide una certa risposta da parte delle classi più povere, che se rima¬nevano impassibili di fronte alle minacce della legge sull’ob¬bligo scolastico, allorché venivano incoraggiate anche con mo¬desti sussidi rispondevano in maniera sollecita .

Con l’avvento della prima guerra mondiale nel 1915-18 e la conseguente mobilitazione dell’esercito, molti locali scolastici furono requisiti e su 63 classi esistenti allora in città solo 19 continuarono normalmente l’attività didattica.

Lo stesso numero degli alunni diminuì notevolmente poiché a causa dell’acuirsi dei problemi economici e, in seguito al conflitto con gli uomini richiamati alle armi, le madri non pote¬vano più privarsi delle braccia dei figli più grandicelli.

Si spiega così come nel 1920, il comune di Sassari avesse un tasso d’analfabetismo del 45% .

A Sassari c’erano pochissime scuole per fanciulli con handi¬cap; ricordiamo quella per tracomatosi, di cui si è già detto, e una “scuola all’aperto” istituita in favore degli alunni poveri deboli e gracili delle scuole primarie inferiori, ubicata in Piazza Duomo, con annesso un tratto di terreno che gli stessi alunni coltivavano sotto la direzione dell’insegnante .

In città, all’inizio del secolo, il problema dell’infanzia abban¬donata era molto sentito. Nel 1901 il comune provvide al mantenimento di 320 illegittimi con una spesa di ben 36.000 lire, tra rate pagate alle balie medicinali e altro. Secondo il regio decreto del 18-3-1866 un terzo della spesa per il mantenimento degli esposti era a carico della Provincia e due terzi a carico del Comune, ma sovente avveniva che il Comune fosse costretto ad anticipare l’intera somma alle nutrici o alle famiglie che si oc¬cupavano dei bambini con grave dispendio per le magre finan¬ze comunali.

Così nel 1904 la giunta, non volendo aumentare il capitolo di spesa si rifiutò d’anticipare la somma con tutti i problemi e disagi che ne derivarono. Tuttavia una soluzione a questo pro¬blema si dovette trovare tanto che intorno al 1906-1907 si giunse ad estendere il soccorso non solo ai bambini di genitori ignoti, ma anche agli abbandonati e ai naturali bisognosi, e a concedere aiuto anche a quelli al di sopra degli 8 anni .

In una relazione del 1903 proprio sul problema “esposti ed infanzia abbandonata” viene caldeggiata l’istituzione nella pro¬vincia di un’Opera che accogliesse i fanciulli abbandonati, dopo il periodo di allattamento, curandone l’educazione e l’istruzione. Tanto più, si precisa che, tale istituzione, sarebbe utile a Sassari dove vi è numerosa popolazione infantile che vive e cresce nelle strade, passa la notte nei porticati, dando di sé lo spettacolo più indecente e compassionevole. Gruppi di monelli si trovano in tutte le vie e piazze, privi d’istruzione, educati solo alla scuola dell’accattonaggio .

Fra le principali cause di mortalità infantile nel Comune di Sassari, particolarmente elevata negli anni del primo conflitto mondiale, quando con gli uomini richiamati alle armi, furono le donne a farsi carico dei pesanti lavori manuali con conseguente debilitamento del fisico che ovviamente si ripercuoteva sui nascituri; abbiamo le malattie gastro-intestinali, frequenti nella stagione calda soprattutto nel primo anno di vita, quando l’or¬ganismo mal sopportava gli errori dietetici, malattie dell’ap¬parato respiratorio, malattie infettive, debolezza organica .

3.2. La situazione tra il 1920 e 1940

Con gli anni 20 più precisamente col 1922 ha inizio per l’Italia e quindi per la Sardegna una nuova fase della sua storia. Finito il caos sociale economico politico che aveva carat¬terizzato il primo dopoguerra, con le sue lunghe ed intermi¬nabili diatribe parlamentari, con le manifestazioni di piazza; la popolazione ormai stanca guarda al nuovo con grande attesa.

Il problema Sardegna d’altronde era stato riproposto all’at¬tenzione nazionale dal comportamento eroico della Brigata Sassari e il nuovo governo non aveva disatteso le speranze di molti, decidendo col RDL del 6 novembre 1924 lo stanzia¬mento di un miliardo per la costruzione di opere pubbliche straordinarie .

Per ciò che riguarda Sassari da un punto di vista strettamente economico, pur conservando un agro rigoglioso, è proprio nel primo dopo guerra che perde definitivamente la sua connota¬zione contadina, accentuandosi quel processo di trasformazione economica che l’aveva caratterizzata già dall’inizio del 900.

Chiaro indicatore di tale mutamento è il censimento del 1921 dove per la prima volta si ha una prevalenza degli addetti all’industria rispetto agli operatori agricoli.

La città che nel 1921 aveva 42.946 ab. passa col 1931 a 53.565 ab. incrementando la popolazione di oltre 10.000 ab. e col 1941 si accresce di poco più do 9.000 ab., chiaro segno dell’incipiente crisi dell’ultimo periodo fascista.

Sotto il profilo urbanistico queste le caratteristiche che la città andava assumendo in epoca fascista.

Si assistette all’espandersi dell’edilizia verso nuovi quartieri nel colle dei Cappuccini sorgevano numerose villette, a Monte Rosello nasceva un ghetto di case popolari; è proprio in epoca fascista che si dà inizio all’edilizia collettiva con lo sviluppo dei quartieri corporativi; un nuovo quartiere si estendeva oltre ai giardini sopra orti e campi.

Il piano regolatore degli anni 30, (nel periodo fra le due guerre furono ben tre quelli studiati ossia PRG Righetti nel 1928; PRG Rossi nel 1930 non adottato; PRG Petrucci nel 1941), teorizza chiaramente una visione classista dello sviluppo urbano. Si tende a dividere la città vecchia dai quartieri di nuova formazione, e questi ultimi fra loro assegnando a ciascu¬no un ruolo ben definito.

“I Cappuccini”, quartiere residenziale per la borghesia, “Porcellana”, zona di espansione per il ceto medio, “Monte Rosello-Baddemanna”, un quartiere rurale, un quartiere popo¬lare-operaio, presso la zona industriale da ubicarsi vicino alla ferrovia in pianura .

La situazione del centro storico, in linea di massima non si discostava dal quadro tracciato per i primi vent’anni del secolo, e nonostante lo sviluppo edilizio di cui si è accennato, la penu¬ria di case rimaneva un problema sentitissimo; quale dato indi¬catore si può considerare il fatto che dal 1921 al 1930 furono costruiti 3.444 vani, ma l’aumento della popolazione fu di 7.329 unità .

Le precarie condizioni igienico sanitarie in cui versava la maggior parte della popolazione, soprattutto quella del centro storico, non aiutava certo a debellare le tre malattie sociali più diffuse ossia la malaria, il tracoma, la tubercolosi anche se non vi è da dimenticare l’alcoolismo diffuso e la prostituzione con le conseguenti malattie.

Negli anni 20-30 la lotta antimalarica era condotta in città come d’altronde nel resto della provincia, soprattutto nei confronti del fattore umano, con la cura del malarico in ambu¬latorio o a domicilio, e sulla profilassi chininica, sulla difesa antianofelica sotto forma di campagna antilarvale.

Intorno agli anni 40 vista l’inefficacia delle soluzioni fino ad allora adottate, si decise l’istituzione di squadre fisse per la lotta antilarvale, che avrebbe dato buoni risultati, se la seconda guerra mondiale non avesse interrotto ogni iniziativa .

Per ciò che riguarda il tracoma non si hanno dati quantitativi circa la sua diffusione, a parte una percentuale del 20% relativa al 1925 riguardante gli alunni delle scuole elementari a Sassari, ma questa doveva essere piuttosto elevata in considerazione del fatto che proprio in questo scorcio del secolo furono istituiti a Sassari due capisaldi della lotta contro la malattia, ossia il Dispensario Antitracomatoso nel 1927, l’Ente Provinciale per la Cura e Profilassi del Tracoma nel 1931.

La mortalità per tubercolosi rimaneva molto elevata, supe¬rando quella di città meridionali quali Foggia, Benevento, Cosenza, Girgenti, ma una soluzione a tale problema era impen¬sabile finché non si fosse trovato rimedio alla situazione di degrado igienico della città, che contribuiva al diffondersi e al persistere della malattia; ma ancora nel 1940 la raccolta e l’al¬lontanamento delle immondizie domestiche e stradali avveniva con metodi a dir poco discutibili.

Infatti il ritiro dei rifiuti si aveva alla porta di casa tanto al piano terra che a quelli superiori, attraverso lo svuotamento della pattumiera entro sacchi impermeabili, con conseguente dispersione e sollevamento di polvere e rifiuti, sia all’aperto che in ambienti chiusi .

Anche l’alcolismo era molto diffuso a Sassari, vi erano contrade dove l’abuso del bere determinava veri e propri focolai di alcolismo rionale, nessun comune della provincia, siamo negli anni 30, raggiungeva percentuali così elevate. Le zone più malfamate sotto questo profilo erano via la Marmora, Sant’Apollinare e Porta Rosello, anche per la presenza di nume¬rosi spacci autorizzati e di cantine private.

I frequentatori abituali erano operai e contadini che nono¬stante il loro basso tenore di vita spendevano buona parte dei loro introiti per bere.

Anche fra le donne era abbastanza diffuso l’uso del bere, soprattutto fra quelle del contado, che non solo ne consuma¬vano quantità rilevanti durante la gravidanza e l’allattamento, ma spesso allevavano i loro bambini con vere e proprie zuppe di vino.

In un’inchiesta condotta su tutte le scuole a partire da quelle elementari del comune di Sassari nel 1925 su un numero com¬plessivo di 3.614 scolari erano astemi solo 639 ossia il 17,6%, bevevano vino 2.975, cioè l’82,3%; e di essi il 63,8% abitual¬mente, il 18,6% occasionalmente. Dall’analisi dei dati si desume che la percentuale di bambini che consumava vino e liquori era molto elevata e superava città quali Venezia e Milano.

Le scuole elementari della città di Sassari erano per la mag¬gior parte inadeguate al loro scopo, anguste, malamente illumi¬nate, senza riscaldamento, acqua potabile e servizi igienici, ri¬calcavano spesso gli ambienti di provenienza degli alunni.

In città vi erano 56 aule suddivise nei seguenti istituti: l’edi¬ficio di S. Donato, uno dei migliori della città non era privo di difetti dovuti soprattutto alla sua ubicazione incassato fra casette oscure, ristrette, sporche. L’aria circostante malsana, la vista ancor peggiore. Le aule, a pianterreno del caseggiato di S. Apollinare, umide ed oscure confinanti con numerose bettole, non si discostavano granché da quelle di via Arborea.

Le scuole di Piazza del Duomo, scarse di luce e umide, quelle del seminarietto sede della direzione didattica non mi¬gliori, le due aule di Piazza D’Armi buone come cantine.

Le scuole di Via Cavour, Corso Umberto, Corso Angioy, poste in vie molto trafficate mancavano di qualsiasi requisito .

La povertà materiale e morale così diffusa, diviene il campo d’azione privilegiato dalla Chiesa d’altronde in epoca fascista il clero è invitato a non occuparsi più di problematiche politiche e a dedicarsi maggiormente all’esercizio del ministero e della catechesi; come dimostra la lettera inviata dal vicario generale al parroco di S. Apollinare, uno dei quartieri più poveri della città, nel quale si dice che per solennizzare l’ingresso nella sua carica di Mons. Mazzotti ci sarà la distribuzione di alimenti ai poveri della parrocchia, nel 1935 nell’elenco dei poveri del comune erano iscritte 2.830 famiglie composte da 12.799 unità appar¬tenenti soprattutto ai quartieri di S. Donato, Duomo, S. Apollinare, Monte Rosello .

Non appena il fascismo assunse il potere apportò delle modifiche in campo assistenziale. Soppresse gli organi creati a questo scopo in epoca giolittiana attribuendogli manchevolezze quali mancanza di coordinamento, dispersione delle risorse, scarsa competenza degli amministratori, specie quelli della Congregazione di Carità.

Con un decreto legge del 30-12-1923 si sostituiva all’espressione “Istituzioni Pubbliche di Beneficenza” quella di “Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza”, nelle quali si contemplavano non solo gli organismi meramente caritativi, ma anche quelli che, con finalità più generali, miravano alla conservazione del benessere morale ed economico della socie¬tà ..

3.3. Le condizioni sociali tra il 1940 e il 1960

La Sardegna fu l’unica regione italiana che non visse la guerra e negli anni 1940-1945 rimase completamente isolata dal resto del continente a causa dell’interruzione delle comuni¬cazioni. Questo non significò che la guerra non avesse avuto seguito nell’Isola, in quanto aveva subito il richiamo dei suoi giovani alle armi, aveva ospitato nei suoi villaggi grandi contin¬genti di truppe.

Con la fine del conflitto la Sardegna iniziava una nuova fase della sua storia e il primo consiglio regionale istituitosi l’8 maggio del 1949, puntava alla ripresa economico-sociale dell’isola .

La città di Sassari all’inizio del conflitto (1941) contava 62.189 abitanti; questo il suo evolversi nei decenni successivi: 1941, 62.189 abitanti; 1951, 70.137 abitanti; 1961, 90.037 abitanti.

L’incremento della popolazione fu sempre costante, ma una battuta d’arresto si ebbe nel 1942 – 1944, durante il corso del secondo conflitto mondiale quando per i disagi alimentari e la mancanza di medicinali la popolazione civile, soprattutto quella infantile e quella adulta della collettività quali cronicai, ospizi, manicomi, fu particolarmente colpita dalla mortalità, che a par¬tire dal 1947 subì una sensibile flessione allineandosi ai quo¬zienti medi regionali e nazionali; tale mortalità sarà tuttavia compensata da un alto quoziente di natalità per cui l’incremento demografico rimarrà in attivo.

La città di Sassari nella seconda metà del 900 ha contribuito scarsamente alla emigrazione di lavoratori verso il continente italiano o verso altri paesi europei, a differenza del resto dell’isola dove nel decennio 1951-1961 fu particolarmente ac¬centuato il movimento migratorio.

La stessa diveniva in quegli anni centro d’attrazione per numerosi lavoratori per l’importanza del porto e dell’agglome¬rato industriale di Porto Torres, per le attività commerciali e di servizi per lo sviluppo turistico della fascia costiera .

L’urbanistica della città di Sassari nel corso del secondo conflitto mondiale non subì danni o distruzioni per cui alla fine della guerra non fu necessaria alcuna ricostruzione.

Questo non significò affatto che il suo aspetto, soprattutto per ciò che riguarda il centro storico, non abbisognasse di alcun intervento.

Di tale stato di cose era perfettamente a conoscenza il sinda¬co della città che in una relazione consuntiva sull’amministra¬zione del comune negli anni 1946-1952 denunciava la situa¬zione con estrema chiarezza.

La crisi degli alloggi determinava, soprattutto nel centro storico, indici di affollamento elevatissimi; in concomitanza col fatto che il maggior incremento demografico si aveva proprio in questi quartieri.

Nel resto della città il movimento edilizio fu caotico, mancò il controllo da parte delle autorità preposte, furono ignorate le indicazioni tipologiche urbanistiche sociali . Nel secondo dopoguerra grazie all’aiuto americano in particolare dell’U.N.R.R.A. ossia United Nations Relief and Rehabilitation Administration; dell’E.C.A. ossia Economic Cooperation Administration; della Rockfeller Fondation si poneva fine al problema della malaria istituendo l’E. R. L. A. A. S., Ente Regionale per la Lotta Anti Anofelica, e si dava inizio ad una campagna antimalarica più razionale e incisiva, che nell’arco di quattro anni avrebbe risolto il problema per sempre .

Anche la tubercolosi veniva pian piano vinta come dimo¬strano i seguenti dati relativi alla città di Sassari :

Tub. Polmonare Tub. Extrapolmonare

1940 14,1 % 7,4 %

1650 4,7 % 1,5 %

1951 4,0 % 0,6 %

Con l’avvento del polo industriale petrolchimico e il lancio del turismo la Sardegna sebbene in mezzo a tante contrad¬dizioni fece enormi progressi avviandosi verso un tenore di vita accettabile e la trasformazione da società prevalentemente agropastorale a società industriale e terziaria.

Il boom economico ebbe i suoi riflessi positivi anche in Sardegna e l’occupazione nei vari settori produttivi migliorò decisamente il tenore di vita dei suoi abitanti.

Sassari come seconda città dell’Isola e grazie alla sua funzio¬ne di centro dei servizi poté risolvere molti degli antichi pro¬blemi e conobbe tempi migliori.

IV

Strutture assistenziali a Sassari

dal 1900 al 1960

4.1. Le strutture pubbliche e private.

Ma quali erano nel 900 le strutture socio-assistenziali di carattere pubblico e privato che andavano incontro ai numerosi problemi della popolazione di Sassari?

Prima di affrontare tale discorso è necessario fare una pre¬messa circa l’atteggiamento dello stato nei confronti dell’assi¬stenza e beneficenza.

Il primo intervento legislativo in materia fu quello del 38-1862 col quale si disponevano controlli statali più intensi sulle istituzioni di beneficenza sino ad allora esistenti, opera esclusiva di privati, ma l’evoluzione storico sociale determinava la neces¬sità d’una maggior incidenza dello stato in campo assistenziale, come dimostra la legge del 17-7-1890; tale concezione si raf¬forzava in epoca giolittiana dove lo stato doveva combattere il pauperismo, non solo per giustizia ed equità, ma perché suo obbligo naturale .

Queste le strutture assistenziali esistenti in città nel primo ventennio del secolo.

Il Regio Orfanotrofio delle Figlie di Maria, fondato nel giorno della Pentecoste del 1832 per iniziativa di Vittorio Pilo-Boyl marchese di Putifigari ed eretto in Ente Morale nel 1835.

Ubicato inizialmente in una casa privata, cominciò a funzionare con 7 orfanelle; nel 1835 il comune concesse all’ente i locali dell’ex convento dei Domenicani.

Secondo benefattore del pio istituto fu il Marchese Don Antonio Ignazio Martinez di Muros il quale alla sua morte, avvenuta nel 1837, lasciava in eredità tutto il suo patrimonio al Regio Orfanotrofio, che di fatto poté goderne i frutti solo dopo il 1845 alla morte della consorte dello stesso, usufruttuaria del patrimonio.

L’educazione e l’istruzione delle orfane era affidata alle Figlie della Carità della provincia di Torino appositamente chiamate per la gestione educativa dell’istituto.

Annesso all’istituto era un educandato per le figlie delle famiglie aristocratiche e borghesi di Sassari.

Le educande potevano frequentare tanto le scuole interne, giardino d’infanzia, scuole elementare, scuola di perfeziona¬mento, lezioni di disegno, pittura, pianoforte, francese, inglese, taglio, ricamo, maglieria, fiori artificiali, metallo, plastica, coreoplastica; quanto quelle esterne .

L’orfanotrofio poteva assistere soprattutto orfane di uno o di entrambi i genitori e quasi sempre provenienti da famiglie rego¬lari sia dell’aristocrazia sia della borghesia di Sassari e provincia e non poteva sicuramente dare asilo ed educazione alla numerosa categoria di bambine orfane, abbandonate, illegittime provenienti dagli strati sociali meno abbienti della città e della provincia.

L’ente morale poté svilupparsi decisamente nel 1912 quando il p. Manzella, allora superiore dei Preti della Missione, cedette agli amministratori la stessa Casa della Missione ampia ariosa e bene ubicata appena alla periferia della città, in tempi successivi sembra per impulso dello stesso Manzella l’ente si dotò di una struttura a parte ma contigua all’orfanotrofio per soccorrere i sordomuti.

Questo istituto originariamente solo sezione femminile e istituito intorno al 1911, dal 1927 divenne autonomo rispetto all’orfanotrofio.

In esso venivano accolti sordomuti poveri della provincia dietro pagamento di una retta.

Vi erano 6 posti gratuiti della Fondazione Passino; ricor¬diamo che questa famiglia e la vedova Mariotti diedero un no¬tevole impulso all’Opera con i rispettivi lasciti di 150.000 e 500.000 Lire.

Gestito dalle Figlie della Carità specializzate in questo inse¬gnamento ammetteva bambini dai 6 ai 12 anni.

Le scuole lì frequentate erano equiparate e seguivano pro¬grammi ministeriali. Per la sezione maschile vi erano corsi di calzoleria, sartoria, pittura e disegno; per quella femminile di ricamo e di taglio .

Per soccorrere i trovatelli della città e dar loro un minimo di istruzione ed un mestiere nel 1858 per opera di eminenti figure del mondo cattolico sassarese, sorgeva l’Ospizio Maschile San Vincenzo de Paoli anch’esso gestito dalle Figlie della Carità chiamatevi appositamente dal fondatore.

Principale promotore, ne fu Carlo Rugiu, seguace delle conferenze di Carità del giovane storico francese Federico Ozanam e operatore a vita di opere caritative assistenziali nella sua stessa città.

Al momento di questa fondazione oltre che dai familiari fu coadiuvato dal prof. mons. Marongiu Delrio, futuro vescovo di Sassari, dall’arcidiacono Deliperi, e dalla signora Marietta Sechi.

L’Ospizio cominciò a funzionare in una casa privata di via Quartiere Vecchio con 14 orfani, in seguito alla sua erezione in Ente Morale, avvenuta nel 1863, il Comune offrì ad esso i locali dell’ex convento dei Cappuccini.

L’istituto, gestito dal 1864 dalle Figlie della Carità e ammi¬nistrato dal Rugiu, accoglieva trovatelli e orfani di povera condizione dell’età compresa fra i 5 e 12 anni, nativi di Sassari e della provincia .

Per rispondere alle esigenze dei bambini di due, tre anni che trascorrevano in mezzo alle immondizie della città la maggior parte del loro tempo, poco curati dalle madri e spesso soggetti ad ogni tipo di malattie, col concorso del municipio, degli amministratori del Regio Orfanotrofio e d’una società di azio¬nisti fu istituito uno dei primi asili di stile aportiano, destinato ad accogliere i fanciulli d’ambo i sessi dai due ai sei anni, appar¬tenenti a famiglie povere.

In esso si offriva loro oltre alla refezione giornaliera educazione fisica, morale, religiosa, intellettuale.

Non se ne conosce la prima ubicazione, ma nel 1866, il consiglio d’amministrazione deliberava di chiedere al comune i locali della Casa dei Religiosi Osservanti Minori che venivano concessi.

Nel 1870 si apriva una succursale dell’asilo nel popoloso quartiere di S. Apollinare, che nel 1892 accoglieva ben 500 bambini poveri.

Entrambi questi asili erano affidati alle Figlie della Carità le quali impartivano i primi rudimenti d’istruzione sull’esempio degli asili aportiani .

Altra struttura ottocentesca ancora in essere nel primo ven¬tennio del secolo, ma per tanti versi poco incisiva fu la comu¬nale Congregazione di Carità istituita in tutti i comuni del Regno a partire dal 1861 e soppressa poi dal Fascismo che la sostituì con L’Ente Comunale di Assistenza.

Tale congregazione distribuiva in particolari ricorrenze ai poveri della città le scarse rendite.

Essa era amministrata da una commissione di cittadini di nomina prefettizia.

Al soccorso degli anziani si era provveduto coll’istituzione del Ricovero Regina Margherita, fondato nel 1870 da un comi¬tato di 35 cittadini.

Esso aveva trovato sede nell’ex convento dei Minori Osservanti di San Pietro di Silki ed era ugualmente ammini¬strato da un consiglio di amministrazione e gestito dalle Figlie della Carità.

Nel 1920, visti i rischi connessi con la presenza di numerose case di tolleranza, nello stesso stabile funzionò per un certo periodo una sezione dedicata alle fanciulle pericolanti..

In favore degli illegittimi fu inaugurato a Sassari nel 1917, il Brefotrofio Provinciale con una sala di ricezione annessa alla clinica Ostetrico-Ginecologica dove trovavano posto nove culle e sette letti per le balie.

Il direttore sanitario dell’epoca prof. Macciotta, denunciava in due memoriali inviati alla Commissione Reale l’inadegua¬tezza della struttura e le sue rimostranze furono accolte tant’è che nel 1928 avveniva il trasferimento del Brefotrofio in un nuovo locale più idoneo dotato di luce, telefono, riscaldamento nella nuova sede di via Roma.

Il personale era costituito da tre suore e 5 infermiere di cui due interne e tre esterne, queste appositamente addestrate, avevano il compito insieme alle balie, della pulizia dei bambini e della loro alimentazione. Tutto il personale era sottoposto a precise norme di carattere igienico e particolarmente curata doveva essere la pulizia personale.

Al momento del ricovero i bambini venivano muniti di medaglietta di riconoscimento, e di ciascuno venivano annotati i dati anagrafici su apposito registro.

Il Brefotrofio oltre ad accogliere i bambini offriva ricovero per 6 mesi alle partorienti nubili che potevano allattare il figlio, coloro che decidevano di tenerlo, avevano diritto ad una pensione mensile fino al compimento del 14° anno di età del bambino.

In caso di malattia, quelli al di sotto dei 3 anni erano riam¬messi al Brefotrofio. Per i bambini, che non venivano ricono¬sciuti dalla madre, si cercava una favorevole sistemazione presso famiglie, generalmente delle campagne, prive di figli che potes¬sero amorevolmente curarsi di loro .

La città nel corso del primo novecento cercò anche di venire incontro a coloro che avevano bisogno di acquistare a prezzo minimo i primi generi alimentari, istituendo nel 1905 le cosid¬dette Cucine Economiche. .

Altra struttura medico-assistenziale fu l’Ente Provinciale Antitubercolare, istituito nel 1922 allo scopo di promuovere e agevolare tutte le istituzioni tendenti a combattere la tubercolosi e nel caso sostituirsi ad esse nella esecuzione di provvedimenti urgenti.

Inviava a sue spese i tubercolotici della provincia nella colonia marina di Alghero, aperta tutto l’anno con caseggiato sulla spiaggia di Cuguttu, per la cura marina ed elioterapica.

La colonia campestre profilattica “Principe di Piemonte” istituita nel 1922 con un fondo iniziale di 180.000 lire, poi aumentato dalle offerte di privati cittadini, con cui si poté acquistare nelle vicinanze della città un pezzo di terra con una palazzina, per il ricovero di bambini d’ambo i sessi gracili e predisposti alla tubercolosi che venivano sottoposti a cure ricostituenti.

Eretto in Ente Morale era affidato alle suore Domenicane e una maestra comunale impartiva l’istruzione elementare. Era dotato di una scuola all’aperto.

Il dispensario antimalarico istituito nel 1923, funzionava provvisoriamente in una casa privata dove si visitavano gratui¬tamente gli ammalati. Si provvedeva alla distribuzione di pillole di chinino, iniezioni e altri medicinali contro la malattia.

Il dispensario antitracomatoso, detto anche “Istituto di Santa Lucia”, fondato nel 1927 e affidato alle Figlie della Carità; era sussidiato dall’Ente Provinciale per la Cura e Profilassi del Tracoma, come d’altronde anche la colonia antitracomatosa funzionante presso l’Istituto per Cronici Derelitti, istituito il 15-7-1931, che si proponeva d’istituire e sovvenzionare ambulatori antitracomatosi, integrandoli con servizi a domicilio, di pro¬muovere asili e scuole per tracomatosi, di svolgere intensa azione profilattica .

Nel 1933 nasceva a Sassari la Federazione Provinciale per la Lotta Contro le Malattie Sociali che aveva il compito di unifi¬care, coordinare e disciplinare il funzionamento dell’Ente Provinciale Antimalarico, dell’Ente Provinciale Antitubercolare, dell’Ente Provinciale per la Cura e Profilassi del Tracoma .

In favore delle madri nubili abbiamo l’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia istituita nel 1934, proteggeva e assisteva le gestanti, le madri bisognose, i fanciulli abbandonati, collocandoli presso istituti di educazione, famiglie, asili.

Strettamente collegati con questa, il Refettorio Materno, funzionante presso il Brefotrofio Provinciale, al quale erano ammesse nel periodo dell’allattamento le madri indicate dal Comitato di Patronato Maternità ed Infanzia; il Consultorio per Lattanti presso la Clinica Pediatrica con distribuzione di farine alimentari, pastine, zucchero, medicinali.

Le cattedre ambulanti di assistenza materna e infantile che distribuivano nei comuni della provincia alimenti e medicinali alle madri e ai bambini.

Di stampo meramente fascista la Casa di Assistenza Fascista, inaugurata nel 1927, con un primo fondo di £.3.000 elargito da Benito Mussolini.

Lo scopo dell’istituzione era quello di soccorrere gli iscritti al fascio, in caso di assoluta e accertata necessità, di lunga malattia, di lutto familiare. Fra le altre organizzazioni di carat¬tere fascista ricordiamo l’Ente Opere Assistenziali del Partito, che durante il periodo invernale gestiva a Sassari e Provincia refettori popolari, offriva assistenza medica e in casi straordi¬nari, sussidi in denaro, distribuiva viveri e indumenti, organiz¬zava manifestazioni quali la “befana fascista”, gestiva colonie marine, montane, elioterapiche in favore dei bambini poveri e bisognosi di cure; L’Opera Nazionale Balilla, frequentata da ambosessi da 6 a 18 anni, che curava la formazione fisica, morale, civile dei giovani .

Da quanto detto risulta chiaro che la città agli inizi del nove¬cento se si eccettuano il Regio Orfanotrofio e l’Ospizio San Vincenzo aveva ben poche strutture assistenziali dal momento che alcune di quelle fondate nell’Ottocento non sempre erano rispondenti alle nuove esigenze.

Da tutto ciò nasceva la preoccupazione sia del Rugiu con le sue conferenze maschili di Carità sia delle stesse Dame della Carità per trovare soluzioni che rispondessero ai bisogni del forte pauperismo cittadino. Il Manzella e con lui i suoi confra¬telli vincenziani resisi conto della situazione di povertà stimola¬rono le migliori donne dell’aristocrazia e della borghesia sassa¬rese alla creazione di strutture assistenziali capaci di rispondere ai bisogni. Non c’è da meravigliarsi pertanto se nel corso del sessantennio considerato per iniziativa delle Dame della Carità si rafforzarono le strutture assistenziali esistenti quali l’Orfano¬trofio, l’Ospizio San Vincenzo e si fondarono le seguenti opere: il Rifugio Gesù Bambino per le Bambine Abbandonate nel 1908, la Casa Divina Provvidenza per i Cronici Derelitti nel 1910, l’Istituto dei Sordomuti nel 1911, l’Istituto dei Ciechi nel 1912, la Casa dei Santi Angeli nel 1927, numerosi asili nel corso del sessantennio nonché le visite dei poveri a domicilio, le visite ai carcerati, l’assistenza alle ex prostitute e la costante presenza in tutte le strutture ospedaliere che man mano anche per iniziativa pubblica furono istituite.

La famiglia vincenziana costituita dai preti della Missione, dalle Figlie della Carità e soprattutto dal secolare braccio dei signori delle conferenze di Carità e dalle Dame di Carità diede¬ro un forte impulso alla creazione di una vera e propria rete assistenziale nella città di Sassari.

La breve cronistoria della Casa Divina Provvidenza costitui¬sce semplicemente lo studio di un modello di fondazione che a seconda dei momenti e delle esigenze sociali ha dato risposta ai bisogni della città. In questo istituto nato per ospitare vecchi cronici derelitti furono accolti infatti in tempi diversi vecchi, vecchie, handicappati, orfani, orfane, pensionate comuni ma anche illustri così da costituire per un certo periodo, ma soprat¬tutto dal 1930 al 1960, una quasi comunità villaggio i cui abitanti vissero in un contesto seppure non identico ad una famiglia armoniosa tuttavia a qualcosa di simile ad un paese in cui sono presenti molteplici figure parentelari e amicali di riferimento.

V

Un’asilo per le anziane ammalate

5.1. La Fondazione, 1910-1930

La Casa Divina Provvidenza per i Cronici Derelitti di Sassari, meglio nota con la denominazione “I Cronici”, iniziò la propria attività sociale nel 1910 per opera delle Dame della Carità alla cui compagnia come abbiamo già detto aderivano in qualità di socie effettive o onorarie le più impegnate donne dell’aristo¬crazia e della borghesia sassarese, assistite spiritualmente e stimolate all’operosità caritativa dal noto prete della missione Giovanni Battista Manzella.

Ecco quanto si legge in una relazione del 1929 stilata dall’allora Presidente della Casa, Maria Zirolia Pittalis, consorte di uno dei più attivi esponenti del movimento cattolico sassarese dell’epoca avv. Giovanni Zirolia .

“Già da tempo le Signore della Conferenza della Carità di Sassari nelle visite domiciliari ai poveri della città avevano constatato con dolore l’abbandono in cui in molti casi venivano lasciati i più disgraziati che erano colpiti da malattie incurabili, senza il necessario, senza assistenza alcuna. Tra gli altri una di quelle infelici fu trovata carbonizzata nella stamberga in cui si era rifugiata perché il fuoco del braciere cui si riscaldava si era appiccicato alle sue vesti” .

Mancava in Sassari un ricovero per questi anziani che erano ridotti in così tristi condizioni; le stesse Dame perciò con deliberazione 3 settembre 1906 tentarono in un primo tempo un’assistenza domiciliare, ma ben presto si accorsero quanto fosse di scarsa utilità, per cui la Presidente delle Dame di quegli anni, Signora Teresa Bellieni, caldeggiò la creazione di una casa di ricovero per quei vecchi ammalati cronici. .

Dell’opera parlò il Manzella in occasione dei festeggiamenti del cinquantesimo della compagnia delle Dame, celebrato nel giugno del 1909.

La mancanza del registro dei verbali dell’assemblea delle Dame non ci permette di seguire lo sviluppo dell’iniziativa proclamata dalle Dame nel corso dei festeggiamenti soprattutto per il periodo che va dal giugno del 1909 fino al settembre del 1910 e soltanto grazie al rinvenimento degli appunti stilati dalla Zirolia o da qualche sua collaboratrice sul registro dei verbali delle Dame è possibile tracciare il percorso dell’iniziativa a partire appunto dal 10 settembre 1909 in cui si annotano le prime 100 Lire offerte dalla famiglia Quesada per l’erigenda casa dei Cronici.

Incominciarono con la elargizione di speciali offerte per l’Opera dei Cronici fin dal 1910 e a prendere sotto speciale cura e assistenza i cronici stessi, come si è detto, nel loro domicilio; ma non tardò a presentarsi il caso in cui si imponeva come condizione indispensabile il ricovero .

L’opera ebbe inizio il 14 Settembre del 1910 allorché si prese in locazione in Sassari un’abitazione assai modesta in Via Diego Pinna, 5 per ricoverarvi una vecchia donna abbandonata di nome Giovanna Farina; qualche mese più tardi si presero in affitto alcuni locali siti in Via Delle Conce, 59 costituiti da cinque camere e servizi.

Quivi furono accolte le donne vecchie e abbandonate che rappresentavano i casi più pietosi della città: due donne setti¬manalmente, designate a turno dalla Presidente, dovevano prov¬vedere all’assistenza e direzione; per l’occorrenza furono assun¬te due infermiere .

Le spese dell’iniziativa erano a carico delle Dame che si quotavano generosamente e pensavano ad ingrandire l’opera, dato il numero delle vecchie inferme e abbandonate presenti nella città.

Al 31 Dicembre del 1910 le ricoverate avevano raggiunto il numero di sette .

Con fruttuose sottoscrizioni promosse dalle Dame, si potero¬no acquistare alcuni lotti di area fabbricabile in Via Santa Elisabetta già nel 1911; ma le operazioni immobiliari più rispondenti alle esigenze della Casa si effettuarono l’anno successivo: nel Dicembre del 1912, infatti, fu acquistata, per nove mila lire, un’abitazione di un piano sopraelevato nel rione, allora periferico, di Sant’Agostino, confinante con area destinata all’edilizia popolare .

Due anni dopo, esattamente nel maggio del 1914, attraverso un atto di permuta col Comune di Sassari (si cedevano le aree di Sant’Elisabetta), e il contemporaneo acquisto di un altro lotto attiguo alla Casa, la nascente istituzione si trovò con un’area fabbricabile di circa 1200 metri quadrati in cui soltanto duecento edificati e circa mille edificabili.

Nel 1915 l’opera andò gradualmente sviluppandosi per l’incremento delle donne vecchie ed ammalate assistite, nonché per le offerte che continuavano a pervenire, tanto che si sentì l’esigenza di costituire organi collegiali di gestione della Casa diversi da quelli della compagnia delle Dame..

Le Dame furono organizzate in assemblea che provvide a nominare un Consiglio di Amministrazione e Previdenza; allo stesso tempo, si incominciò a pensare di incaricare un tecnico perché provvedesse alla progettazione dell’ampliamento della Casa acquistata. .

Nel 1916, predisposto il progetto, si affrontarono le prime spese per il muro di recinzione e per la costruzione della cucina, lavanderia, dispensa ed altri locali che, al momento opportuno, sarebbero diventati i saloni di degenza delle amma¬late .

Nel 1918 giunsero le prime tre Figlie della Carità : suor Adelaide Aresi di Treviglio, quarantasettenne, suor Anna Marongiu di Sassari, trentaquattrenne, suor Maria Besati di San Pietro Mobetto, ventiquattrenne: tutte e tre abbastanza preparate per dare alla Casa un suo ritmo e un suo stile.

D’altra parte il suo sviluppo fu così rapido che nel 1922 si sentì la necessità di distinguere meglio l’organo amministrativo della Casa da quello delle Dame della Compagnia di Carità con la nomina di cinque consigliere tra le quali furono designate una presidente, una vice presidente e una cassiera.

Nella seduta del 10 Febbraio 1922, il Consiglio di Amministrazione, elesse come presidente la Signora Maria Pittalis Zirolia quale vice presidente la nobildonna Teresa Marghinotti di Suni.

Con la costituzione del primo vero e proprio consiglio di amministrazione, sia pure sprovvisto di qualsiasi riconoscimento giuridico, quello che poi sarebbe stato eretto in ente morale, cominciò a funzionare regolarmente, favorito dalle autorità degli enti pubblici e privati e particolarmente del Comune di Sassari , dalla Provincia, dal Ministero dell’Interno, dagli istituti di credito , dagli stessi Reali .

Per un certo tempo fu problematica la definitiva ubicazione dell’iniziativa, alla quale, insieme agli acquisti di aree già menzionate erano pervenute altre aree e particolarmente quella di viale Italia.

Dato l’eccessivo costo da affrontare per ricominciare da capo l’edificazione degli stabili, su parere dei tecnici, si deliberò di restare nel rione di Sant’Agostino che appariva in posizione ideale:

“La località pertanto è in un sito quasi appartato della città, salubre e arieggiato, fiancheggiato dal viale che conclude a San Pietro e quasi di fronte all’infermeria del Presidio.

Il Consiglio Edilizio ed il Consiglio Provinciale Sanitario ne hanno approvato il progetto tanto più in quanto sono esclusi dal ricovero gli ammalati di malattie infettive” .

Le ricoverate sono ben vestite, hanno sole ed aria, quelle che si possono alzare dal letto spesso si intrattengono nel piccolo cortile tra il verde dei pampini e dei rami.

L’assistenza medica era assicurata dall’Ufficiale Sanitario del Comune, Dr. Giommaria Sotgia, che prestava servizio gratuita¬mente alle ricoverate fin dalla fondazione” .

“Le stesse croniche sono tenute con la massima nettezza dalle infermiere che agiscono con la direzione fattiva e collabo¬razione pietosa di tre suore, Figlie della Carità, alle quali se ne aggiunge una quarta, che sebbene addetta alla Conferenza delle Signore per la visita dei poveri a domicilio, estende pure sulla modesta casa dei Cronici la sua opera benefica di morale carità”

La suora dei poveri era la venticinquenne Teresa Penati di Belbisco che col nome di suor Giuseppina presterà servizio nella Casa per circa trent’anni e cioè fino al 1949 allorché verrà trasferita e promossa superiora di altra casa gestita dalle Figlie della Carità.

Il Consiglio di Amministrazione, fin dal primo anno del suo funzionamento, provvide a presentare annualmente all’Assem¬blea Generale il conto consuntivo della gestione , anticipando ciò che il R.D. del 30/12/1923 avrebbe imposto a tutti gli enti di assistenza e beneficenza, riformando la legge 17 Luglio 1890 n.6972 sulle istituzioni pubbliche di assistenza e benefi¬cenza .

D’altra parte si cercava di mettere a frutto la Carità che i privati erogavano quasi quotidianamente alla pia istituzione .

“A parte le elargizioni, le offerte non richieste, i sussidi, il ricavo da feste, da qualche lotteria, si è costituita una assicura¬zione di azioniste (azioni di L.15 l’una) e di patronesse che portano anch’esse un aiuto finanziario e morale come le consigliere; ma più intenso e più cospicuo e si può dire quoti¬diano è il concorso generoso e spontaneo, oltreché delle signore tutte, della cittadinanza nelle forme più semplici e più svariate: negozianti che talvolta provvedono di tela e di biancheria, altri che provvedono pasta e minestra, altri cuoio per le scarpe e perfino i macellai e gli erbivendoli ricordano di mandare qualche cosa alle povere croniche, che non possono produrre e portare in attività altro che le loro benedizioni e la loro riconoscenza che manifestano ai visitatori con commo¬vente sorriso” .

In quello stesso decennio si completò l’intero fabbricato fino al primo piano che guarda viale San Pietro, e con la donazione da parte della Società Edilizia Cattolica Sassarese si ampliò notevolmente l’area a disposizione della fondazione , così che nel 1929 la Zirolia poteva asserire che: “la sede attuale con le nuove costruzioni in corso realizzano amplissimi e arieggiati cameroni con sistema di tecnica moderna, rispondente alle più rigorose norme di igiene. Sicché, a costruzione finita, le povere croniche passeranno tutte o quasi tutte in quei cameroni, esposti quasi a mezzogiorno, mentre gli attuali locali con ampio cortile tra mezzo e con accesso dalla via G. M. Angioy, potranno essere adibiti per alloggi alle suore che ora con spirito di sacri¬ficio, si sono ridotte ad una cameretta, oltre che per le infermiere ed anche per le croniche che avessero bisogno di isolamento” .

Nel marzo del 1928 viene inviata nella Casa come superiora Anastasia Biassoni di Binzago che col nome di suor Pia impri¬merà alla Casa, in cui soggiornerà oltre trent’anni un autentico spirito caritativo vincenziano .

Grazie alla sua origine bresciana alcuni anni dopo con l’ar¬rivo a Sassari dell’attivo francescano arcivescovo Mazzotti l’isti¬tuzione potrà beneficiare della costante cura del presule sassa¬rese.

Nel decennio 1920-1930 furono accolte nella Casa ottanta vecchie inferme, dall’età media di 73 anni, e circa una decina di donne più o meno giovani, dai 18 ai 50 anni, affette da gravi malattie croniche .

La maggior parte risultano ricoverate gratuitamente; una parte per conto dei Comuni di Sassari e della Provincia; soltanto qualche caso di ricovero figura a carico dei familiari .

VI

La Casa Divina Provvidenza

per i Cronici Derelitti

6.1. Lo Statuto dell’Ente Morale

Lo Statuto organico del costituendo ente morale si compone di 32 articoli, ed è tracciato tenendo presenti le norme sulla pubblica assistenza emanate dopo l’unità d’Italia tra il 1862 ed il 1926 .

“La Casa Della Divina Provvidenza per i Cronici Derelitti sorta a Sassari nell’anno 1910 per iniziativa delle Dame della Carità di S. Vincenzo de Paoli, ebbe sollecito e favorevole sviluppo mediante lo zelo e la benemerenza di un Consiglio provvisorio, presieduto successivamente dalla Signora Teresa Bellieni, presidente delle Dame di Carità, e dalla signora Maria Zirolia Pittalis.

Attualmente è dotata di un patrimonio dell’ammontare di circa Lire Duecentosessantamila, costituito con sussidi, lasciti e donazioni. Ha sede propria. E’ stata eretta in ente morale in forza dello stesso Regio Decreto con il quale è stato approvato lo Statuto” .

Come è evidente, in questo articolo si fa cenno all’anno di fondazione, alla fondatrice compagnia delle Dame di Sassari e alle prime presidenti; non si trascura il riferimento al patrimo¬nio, elemento essenziale per l’erezione in ente morale .

Nell’art. 2 sono chiariti gli scopi che l’ente si propone:

“L’istituzione ha lo scopo di provvedere gratuitamente, secondo i propri mezzi, al ricovero, cura, mantenimento ed assistenza dei poveri d’ambo i sessi, affetti da malattie croniche aventi il domicilio di soccorso nel Comune di Sassari od anche di altro Comune della Provincia e che non abbiano parenti tenuti per legge a provvedere alla loro sorte od in grado di farlo” .

Negli articoli 3 e 4 si precisa come l’istituzione possa acco¬gliere anche infermi a pagamento, che comunque non possono essere accolti malati contagiosi e mentali; tutti gli indigenti dovranno essere trattati in modo identico.

Le entrate dell’Ente sono costituite dalle rendite patrimoniali, dalle rette di degenti a pagamento, dalle contribuzioni sociali e da qualunque altro introito od oblazione.(art. 6).

La precedenza per i ricoveri viene data ai vecchi cronici più gravi e più abbandonati .

Il trattamento degli ammalati è precisato nell’art. 9:

“I ricoverati sono istruiti e confortati secondo i principi della nostra religione cattolica, ed assistiti e moralmente indirizzati da un cappellano nominato dal consiglio di amministrazione su proposta delle suore Figlie della Carità.

In effetti, a parte il periodo in cui officiò quotidianamente la messa il canonico già illustre storico della Chiesa mons. Damiano Filia la direzione spirituale e la formazione religiosa delle suore e dei degenti fu affidata ai missionari vincenziani tra i quali è da ricordare il promotore della Casa G.B. Manzella.

I ricoverati sono dimessi dall’istituzione quando cessi per loro la necessità di stare a carico della pubblica beneficenza .

Possono essere licenziati anche per cattiva condotta nei casi e nei modi determinati dal regolamento”.

Lo statuto tratta successivamente dei soci della Casa, preci¬sando (art. 11) la qualità dei soci che si dividono in temporanei e perpetui; i primi sono coloro che contribuiscono con paga¬menti annuali, i secondi sono coloro che versano “una tantum” una somma non inferiore alle 500 Lire.

Le assemblee vengono tenute regolarmente a norma dell’art. 1 del R.D.L. 20 Febbraio 1927 n.257 , e secondo i dettami del Codice Civile.

Ogni socio ha diritto a un solo voto e può delegare altro socio, il quale non può avere più di una delega.

La validità dell’adunanza in prima convocazione è determi¬nata dalla presenza della maggioranza assoluta dei soci o di delegati non inferiore al doppio di quello dei componenti del Consiglio di Amministrazione. (art. 17).

Le assemblee hanno il compito di deliberare sui conti consuntivi, sulle modifiche statutarie e sulle nomine dei membri del Consiglio di Amministrazione di sua competenza, nonché sulla radiazione dei soci. (art. 19).

L’articolo 21 determina l’organo di controllo dell’Ente:

“L’Istituzione è retta da un Consiglio di Amministrazione composto di sette membri compreso il Presidente e il Vice Presidente (oppure la Presidente e la Vice Presidente).

I Consiglieri (o Consigliere) sono nominati in numero di cinque dall’Assemblea delle Dame Consociate, uno dal Podestà e uno dall’Arcivescovo pro tempore della Diocesi di Sassari, scegliendoli fra i soci e le socie.

Il Presidente e il Vice Presidente sono nominati dal Prefetto della Provincia tra i componenti del Consiglio (35).

Tanto il Presidente e il Vice Presidente che i Consiglieri durano in carica quattro anni e possono essere confermati senza interruzione.”

Questo articolo verrà modificato dal R.D. che istituisce l’Ente, nel seguente modo:

“Al 1° comma dell’art. 21 è sostituito il seguente: “L’Istituto è retto da un Consiglio di Amministrazione composto di sette membri, compreso il Presidente e il Vice Presidente, dei quali cinque nominati dall’Assemblea delle “Dame Consociate” , uno dal Podestà e uno dall’Arcivescovo pro tempore della Diocesi di Sassari.” .

Al Presidente del Consiglio di Amministrazione viene conferita la rappresentanza legale dell’Ente, l’esecuzione delle delibere consiliari, nonché la direzione sul personale dello stesso Ente con il potere, per gravi motivi, di licenziarlo (art. 27).

I mandati di pagamento non potranno effettuarsi se non saranno controfirmati dal Presidente e dal Sovrintendente al servizio (art. 28).

Si prevede, inoltre, un regolamento per la determinazione della pianta organica, i modi di nomina, i doveri, i diritti, le attribuzioni e le mansioni del personale. (art. 29).

Per quanto non previsto si fa riferimento alle leggi vigenti in materia.

Lo Statuto venne approvato all’assemblea delle Dame il 3 Aprile 1930 e firmato dalle seguenti Dame :

Maria Zirolia Pittalis Presidente, Osvalda Pischedda Sechi vice Presidente, Costantina Pinna, Peppina Mariannini, Maria De Angioy, Caterina Spada, Rosanna Cugurra, Giovanna Ledà D’Ittiri, Carmela Cossu Rocca, Peppina Spanu, Gemma Viale, Ada Lentini, Delia Righi Bozzo, Giovanna Fiori Nuvoli, Iride Nonnis Altea, Antonietta Sussarello ved. Cardona, Maria Bellieni, Grazietta Falchi, Caterina Quesada .

Con lo Statuto il costituendo Ente Morale ha anche la consi¬stenza patrimoniale in immobili, in mobili, in lasciti. Alla fine del 1929, infatti, la Casa possiede il fabbricato di Via Angioy, 16, costituito da piano terra e primo piano per un totale di sette vani e un cortile di 140 mq.; il valore dell’immobile è calcolato intorno alle sessantamila lire .

Il fabbricato di Viale San Pietro, costituito da scantinato e piano sopraelevato: in totale ventun vani, del valore di circa centomila lire .

A questi fabbricati occorre aggiungere le aree fabbricabili contigue gli immobili, una di mq. 868,50 e l’altra di mq. 1800, del complessivo valore di ventottomila lire.

Da sottolineare che l’area di mq. 1800 è stata donata alla Casa dalla Società Cattolica Edilizia Sassarese .

Altra area la Casa possiede tra viale Italia e viale Sardegna di mq. 4229, dono della Società Anonima Cooperativa Edilizia Sassarese del valore di sessantamila lire. Il valore complessivo degli immobili è di circa duecentoquarantamila lire.

L’elenco dei mobili, si tratta di circa centoquattro voci, è calcolato in circa quindicimila lire.

A ciò occorre aggiungere due lasciti per un totale di duecen¬todiecimila lire annue .

Ai sensi del R.D. n.2841 del 30.12.1923 art. 3 e 25 che imponeva un patrimonio minimo di cinquantamila lire , e che richiedeva l’adeguamento dello Statuto alle indicazioni prefet¬tizie , la Casa aveva le carte in regola per essere eletta in ente morale con regio decreto .

Così avvenne, infatti, il 19.05.1930 .

VII

L’amministrazione di Maria Pittalis Zirolia

1930-1950

7.1. Il primo quadriennio 1930-1934.

Il 29 Luglio 1930, si provvede, a Statuto ormai approvato, ad eleggere il primo Consiglio di Amministrazione del neonato ente morale .

L’assemblea delle socie, tutte gentildonne appartenenti alla migliore aristocrazia e borghesia cattolica sassarese , nomina cinque Consigliere delle sette previste dallo Statuto, le altre due vengono nominate rispettivamente dal Vescovo e dal Sindaco .

Ad elezione e nomina avvenute il Consiglio risulta così composto: Maria Zirolia Pittalis, Donna Caterina Spada, Donna Maria Angioy Galeazzo, Contessa Giovanna Leda D’Ittiri, Maria Bellieni, Costantina Pinna Medda, Antonia Piredda .

In base allo statuto il Prefetto nomina la Zirolia Pittalis quale Presidente: così di quadriennio in quadriennio, per vent’anni consecutivi, terrà le redini dalla Casa la vedova del noto espo¬nente cattolico Sassarese, dotata di forte determinazione, tutta dedita ad opere pie, e capace di sollecitare a favore dell’ente la generosità delle donne cattoliche sassaresi.

In quest’attività fu coadiuvata calorosamente dalle Figlie della Carità e particolarmente dalla bresciana superiora suor Pia che, data la dimensione che la Casa andava assumendo, nel 1931 accolse nuove quattro consorelle nelle persone della quarantunenne suor Cuccu Maria Rosa, ozierese, della quaran¬tanovenne suor Murgia Maria, oristanese, della ventisettenne suor Brambilla Emma, bergamasca, della ventunenne suor Fontana Clementina di Borgataro in provincia di Parma. In tal modo le Figlie della Carità presenti raggiunsero il numero di nove.

Mentre le prime due Figlie della Carità dovettero occuparsi delle donne anziane, le ultime due si occuparono dell’asilo che cominciò a funzionare a beneficio del quartiere popolare delle Concie che andava ingrandendosi nella zona dell’istituto e di altri due reparti che andavano formandosi man mano che veni¬vano accolti per la pressione esercitata dalle autorità comunali e prefettizie di orfani e di orfane. In particolare suor Fontana col nome religioso di suor Caterina si occuperà per quasi un tren¬tennio dell’educazione delle numerose ragazze che passeranno nell’istituto, mentre suor Brambilla col nome religioso di suor Luisa si occuperà degli oltre duecento ragazzi che per periodi più o meno lunghi soggiorneranno nell’istituto.

La prima avvierà le ragazze all’apprendimento di un mestiere artigianale femminile, la seconda si preoccuperà di avviare i ragazzi ad una attività lavorativa o ad un impiego e contempo¬raneamente svolgerà per tanti anni il lavoro di segreteria am¬ministrativa in mancanza di un vero e proprio ufficio ammini¬strativo presso l’ente.

La Zirolia Pittalis del resto faceva parte del primo nucleo delle fondatrici dell’opera ed era Presidente del Consiglio di Amministrazione creato dalle Dame della Carità fin dal 1922 ; la stessa, infatti, figurava intestataria di tutti gli im¬mobili acquistati o donati alla nascente opera pia.

L’attività di questi primi quattro anni di Presidenza della Zirolia Pittalis furono davvero proficui e significativi per l’ente: furono intestati ad esso tutti i beni di cui figurava intestataria la Pittalis, tra quelli precedentemente elencati per l’elezione dell’opera in Ente Morale ; in particolare furono accolte le donazioni sia della laica Società Edilizia Sassarese, sia della cattolica Società Edilizia : due consistenti fondi che sicura¬mente concorsero a far decollare la Casa, anche se la Società Edilizia Sassarese più tardi pretese ed ottenne una congrua somma per permettere all’istituto di poter usare l’area con minori condizionamenti .

Si acquistò un’abitazione in via Sardegna, 14 adiacente alla Casa, furono ampliate la cucina e le dipendenze e portati a termine lavori di completamento già iniziati .

Si trovò anche un tecnico generoso nell’ing. Salvatore Oggiano, più volte citato nei vari atti, che fino alla morte si occuperà continuativamente dello sviluppo edilizio dell’istituto, per il quale progettò ampi locali in via Porcellana, nell’area della Società Edilizia, che però non furono realizzati a causa degli alti costi, per cui se ne decise lo sviluppo nell’attuale ubicazione vendendo a lotti l’area fabbricabile posta appunto tra via Porcellana e viale Italia .

Nel corso di questi quattro anni si accrebbe, con l’aumento dei ricoverati, anche la presenza di un’altra Figlia della Carità nella persona della diciannovenne ossese suor Giovanna Scarpa che col nome di suor Giovanna sarebbe rimasta ininterrotta¬mente nell’istituto ad assistere le vecchie ammalate e le portatrici di handicap per oltre sessant’anni.

Alla fine del 1934 il personale accolto nella Casa, compreso quello religioso e infermieristico, era salito a oltre cento persone e il bilancio che nel 1930 era di 15.000 lire, figura con entrate per 89.000 circa, con un’uscita di oltre 117.000 ed un disavanzo di oltre 34.000 .

In quattro anni la Casa era diventata per Sassari e provincia un punto di riferimento per anziani che trascorrevano gli ultimi anni della loro vita cristianamente e civilmente assistiti; basti citare un dato: nel 1934 ne furono ricoverati 48 a fronte di 28 decessi .

La maggior parte di essi erano sprovvisti di qualsiasi assi¬stenza e lo stesso Comune di Sassari iniziò a chiedere acco¬glienze senza provvedere a pagare le rette di mantenimento .

Le suore da cinque erano passate a dieci e da sole provvede¬vano all’assistenza delle vecchie, delle ragazze, dei ragazzi, dei bambini dell’asilo ed inoltre a sbrigare le pratiche di ordinaria amministrazione. , Una di loro poi provvedeva insieme alle Dame all’assistenza ai poveri a domicilio e un’altra svolgeva assistenza catechistica alle carcerate di San Sebastiano.

L’istituto, sorto per ospitare soltanto vecchie ammalate, si era trasformato in una grande famiglia in cui accanto alle “nonne”, in un cortile che si apriva tra i vari reparti correvano bambini e bambine al momento della ricreazione.

Alle sei del mattino allorché veniva celebrata la messa, la campana chiamava a raccolta in una quasi simbolica parrocchia, gli ospiti grandi e piccoli della fiorente casa di accoglienza, tutti provenienti da ogni genere di povertà di cui il territorio comu¬nale e provinciale di Sassari nel periodo del cosiddetto consenso al regime fascista non difettava le dieci suore coordi¬nate dalla militaresca e rude suor Biassoni vigilavano affinché tutto si svolgesse nel migliore dei modi.

Le quasi trecento Dame azioniste rappresentanti il fior fiore della nobiltà e della borghesia sassarese vedevano con piacere il rapido sviluppo dell’iniziativa.

Il vecchio ed insonne p. Manzella mentre andava realiz¬zando altre attività assistenziali incoraggiava le Dame ad incre¬mentare la loro attività.

Con la recinzione di tutte le pertinenze della Casa per quasi quattromila metri quadrati e con la deliberazione di favorirne lo sviluppo in quella zona della città si chiuse positivamente il primo quadriennio della prima presidenza di Maria Zirolia Pittalis che priva di figli aveva trovato il suo più impegnativo ruolo.

7.2. Il secondo quadriennio 1935-1938

Nel secondo quadriennio della Presidenza Zirolia Pittalis, il Consiglio di Amministrazione fu riconfermato per intero, e con Osvalda Pischedda viene portata a sette, più la segretaria, certa Colomba Porcu .

Sebbene alle riunioni partecipino la Superiora suor Biassoni e suor Brambilla, non se ne fa menzione.

Le deliberazioni sono prese in modo legale e formale tacendo sull’apporto di decisioni e di idee che le rappresentanti del personale religioso potevano dare .

Anche questi furono quattro anni di continua crescita im¬mobiliare, economica, ed ospedaliera dell’ente.

Nel 1935, infatti, si perfezionò la transazione con la Società Edilizia Sassarese ; nei tre anni successivi si acquistò la casa Biddau in Via Sardegna ed un terreno in Castelsardo , allo scopo di costruirvi nel tempo un locale di appoggio per gli ospiti della Casa bisognosi di trascorrere un periodo al mare; inoltre in quello stesso anno pervenne una donazione di due ettari nel Comune di Sorso ; l’ente fu beneficato anche dal lascito di cinquemila lire di certa Marras .

Furono ampliati all’interno dell’area alcuni locali destinati a scuola elementare per le orfane di età scolare e per laboratorio per quelle che avevano adempiuto agli obblighi scolastici e che non erano impegnate sotto la guida delle suore all’assistenza e alle pulizie della Casa. .

Già al termine del 1935 sono presenti 70 anziani d’ambo i sessi, 45 tra bambine e bambini tracomatosi, mentre 70 bambini esterni frequentano insieme agli interni l’asilo .

Al 31 Dicembre 1938 il bilancio figura quasi raddoppiato rispetto alla fine del primo quadriennio, e sembra avviato verso il risanamento con la graduale riduzione del passivo.

Si effettuano avvicendamenti tra le suore, infatti, nel giugno del ’36 arrivano la ventottenne sassarese Francesca Sechi e la ventiseienne carlofortina Rosa Porricino che col nome di suor Gabriella governerà (e tuttora governa) la cucina della Casa per quasi sessant’anni.

Nel ’37 arriva la trentenne guspinese suor Luigia Murgia e l’osilese ventisettenne suor Antonina Deriu; nel ’38 arriva la berchiddese ventinovenne suor Aini Maria Grazia.

In quello stesso quadriennio partono suor Adelaide Aresi, suor Anna Marongiu, la quale sarà impegnata nella fondazione dell’Istituto dei Ciechi della stessa città di Sassari, parte anche suor Maria Besati, suor Maria Murgia, suor Francesca Sechi e suor Luigia Murgia.

Da sottolineare che nell’ampio cortile e nel vasto orto che separava la camera mortuaria dagli stabili abitati, nel locale a suo tempo acquistato in via Sardegna, con la chiusura della parte terminale della strada e in quegli stessi locali a piano terra avevano preso residenza i primi anziani, mentre nei locali del primo piano erano comparse signore anziane pensionanti tra le quali maestre e professoresse, nonché docenti universitarie ancora attive.

Sarà questo il primo inizio di pensionato per anziane signo¬rine prive o lontane dalle famiglie di origine.

Tra le più illustri sono da ricordare l’insegnante, maestra Murgia, madre del noto filosofo Antonio Pigliaru, la prof. ssa Ginevra Zanetti, la futura consigliera regionale Eufemia Sechi e la ex presidente dell’azione cattolica sassarese Elisa Bortolu.

Per i ragazzi e le ragazze accanto alle “nonne” erano comparsi i “nonni ortolani” nonché illustri “mamme” che spesso interverranno presso le suore in loro favore fornendo consigli soprattutto per l’educazione dei ragazzi e delle ragazze.

Il cortile, quasi trasformato in piazza, andava animandosi sempre di più e la cappella, nei giorni festivi, a malapena riusciva a contenere gli ospiti.

7.3. Il terzo quadriennio 1939-1942

Al rinnovo delle cariche sociali esce di scena Osvalda Pischedda e subentra Maria Peppina Talu, per il resto il Consiglio resta immutato .

Continua l’ampliamento della Casa e soprattutto viene incrementato il numero degli assistiti.

L’istituto è diventato un rifugio non solo per vecchi, ma anche per ammalati provenienti da tutte le parti dell’Isola.

Cominciano a configurarsi i sei reparti che nell’immediato dopoguerra ne segneranno il completamento: reparto vecchi d’ambo i sessi; tracomatosi: bambini e bambine; reparto lattanti; reparto pensionati; reparto ricoverati per conto di enti previ¬denziali .

La Casa iniziava ad assumere dimensioni impreviste; ecco alcune scarse annotazioni della Zirolia circa l’andamento del quadriennio:

“Le cifre del bilancio che avete udite, vi hanno dato una chiara situazione della Casa della Divina Provvidenza, per cui nulla posso aggiungere giacché le mie parole sarebbero ancora più fredde.

Ad ogni modo dobbiamo riconoscere che in questi quattro anni, duri per tutti, ma maggiormente per un istituto come il nostro privo di risorse ; è vero, abbiamo dovuto rinunciare a qualche vagheggiato progetto; si è potuto però, ringraziando la Provvidenza, fare fronte alle spese non indifferenti con l’aiuto del sussidio del Ministero degli Interni e del Buon Governo della nostra ottima Superiora suor Pia Biassoni e rispettive suore .

Giustamente Sassari è giudicata una città benefica in tutti i campi, ma specialmente per le sue molte opere di beneficenza; alcuni dicono che sono troppe, ma le opere non sono mai troppe, almeno a me pare così” .

La gentildonna fa anche un “confronto tra il Cottolengo di Torino e la nostra Casa Divina Provvidenza” e su ciò, visto l’orientamento che andava assumendo l’opera, non c’era da darle torto.

Fin dalla fondazione, l’attività della Casa si era rivolta soprat¬tutto alle vecchie inferme e abbandonate oltre che alle donne affette da paralisi o da altre gravi infermità.

Dal 1932, l’attività si era sviluppata ulteriormente grazie alla presenza più cospicua delle Figlie della Carità .

La prima orfana era stata accolta il 30 Maggio 1932, e nel corso dell’anno fu seguita da altre nove .

Il 31 Luglio dello stesso anno, era stato ricoverato il primo bambino di tre anni , qualche anno più tardi erano stati accolti i primi vecchi .

Nel decennio 1932-1942 nella Casa avevano fatto ingresso circa 647 bisognosi di cui 441 tra vecchie e vecchi e 206 tra ragazzi e ragazze .

Al 31 Dicembre 1942 il bilancio è contrassegnato da 264.166 lire in entrata, 262.544 lire in uscita, con un primo attivo di oltre duemila lire; ci sono passivi pregressi di circa 80.000 lire che vengono coperti da un prestito senza interessi da parte della Zirolia e di un’altra amministratrice .

I reparti che andavano configurandosi erano i seguenti: quello geriatrico femminile, sistemato nel fabbricato di Viale San Pietro; quello geriatrico maschile sistemato in Via Sardegna; quello dei ragazzi, sistemato nei locali che davano in Via Sant’Anna; quello delle ragazze, ubicato a piano terra di Via San Pietro e, infine, quello delle pensionanti abbienti, siste¬mato nei piani superiori della Casa in Via Sardegna.

In mezzo ai fabbricati come si è già detto era sistemato un cortile che diventava punto d’incontro con la cappella, per questo piccolo mondo di diseredati.

Ai margini, più vicino al reparto dei vecchi, era ubicato l’orto dove alcuni di essi potevano trovare il gusto del ritorno ai campi che avevano lasciato nei loro paesi.

Nel cortile riservato agli anziani era presente anche sia pure in dimensioni modeste una piccola falegnameria artigiana gestita gelosamente da qualche anziano che si rendeva utile per le piccole manutenzioni di cui porte e finestre frequentemente necessitavano.

Per i trasporti delle derrate alimentari e di altri carichi era comparso il carretto trainato da un’asinello e gestito da un anziano.

Tra le suore erano arrivate la quarantunenne algherese suor Quadu Fanny, la ventisettenne cagliaritana suor Erdas Anna e la quarantaduenne sassarese suor Maccioccu Maria.

7.4. Il quarto quadriennio 1943-1946

Per l’Italia, per la Sardegna e per Sassari in particolare, furono anni di crisi economica, politica e sociale.

La guerra coi suoi lutti, la miseria economica, la disgrega¬zione familiare fecero della Casa un rifugio per vecchi e vec¬chie come del resto lo era già per orfani d’ambo i sessi, che il Comune di Sassari e quelli della provincia vi spedivano, per ammalati cronici incurabili di tutte le età, ma anche per defi¬cienti fisici e mentali; furono gli anni in cui la definizione di Cottolengo fu davvero appropriata .

Nelle ore di più intenso movimento nel cortile, durante le cerimonie religiose nella cappella, si realizzava il momento comunitario e quasi familiare di vecchi e vecchie provati dagli anni , di handicappati di tutte le età , di bambini e bambine prive di genitori o perché orfani o perché separati o illegittimi, di madri nubili, di premurose Figlie di Carità che dirigevano questa articolata comunità che la società civile aveva emargi¬nato .

Si continuava a costruire e a ristrutturare la Casa; si cercava di far quadrare i bilanci con prestiti gratuiti da parte delle Dame : non mancavano le offerte di anonimi cittadini e nel periodo bellico, aiuti e prodotti americani .

Il bilancio, con l’inflazione, si gonfiò a dismisura: si parte dai 353.330 del 1943, ai 448.185 del 1944 per arrivare ai 918.121 del 1945 e ai 2.331.155 del 1946 .

“La nostra Casa come tutti gli istituti poveri, ha superato molte difficoltà, ma la Divina Provvidenza (…) ci è venuta incontro con l’aiuto dell’UNRA e di diversi sussidi ottenuti dal Ministero per l’interessamento del Ministro Segni”, sollecitato dalla consorte e consigliera della Casa, donna Laura Segni.

Il Consiglio di Amministrazione, infatti, rinnovandosi , mentre aveva riconfermato la Zirolia Pittalis come presidente, aveva eletto, tra le Dame: Maria Bellieni, Carmela Marras, Peppina Talu, Maria Avitabile; come segretaria Casula Rina e come cassiera Giovanna Fiori Nuvoli; di nomina arcivescovile Laura Segni Carta consorte del Ministro Segni e di nomina del sindaco, Caterina Spada .

Da alcuni appunti di una relazione fatta alle socie prima del rinnovo delle cariche, a conclusione del quadriennio in esame, emergono i seguenti dati: la Casa ospita 98 vecchi di cui 38 uomini, 60 donne; 114 tra bambini, ragazzi e ragazze di varie età di cui 57 maschi e 57 femmine; tra costoro sono compresi “una trentina di deficienti, paralitici, scemi in condizioni pietose ed impressionanti”.

Nella Casa sono ospitati anche sei lattanti; cinque ammalati cronici per conto I.N.A.M. e I.N.A.I.L. .

“Le Signore si meraviglieranno che nella Casa dei Cronici, sorta per la protezione dei vecchi, si trovino fanciulli e anche bambini di pochi mesi. Da prima il Consiglio era contrario e restio a cambiare indirizzo all’Istituto, ma è stato costretto dalle Autorità che non potendosi rivolgere ad altre Case per il rico¬vero di derelitti di ogni età, si videro e si vedono ogni giorno costrette a collocarli nella Casa Divina Provvidenza ormai diventata un piccolo ‘Cottolengo’ .

Nella Casa inoltre, erano ospitati circa 22 pensionate anziane “rimaste senza famiglie e in non buone condizioni finanziarie”.

La retta delle pensionanti benestanti costituivano un modesto introito per l’istituto.

La media annua dei decessi degli anziani era di 40 unità.

“Le entrate sono costituite dalle rette che pagano i Comuni, l’ECA, poche famiglie e pensionati: quest’anno dette rette hanno portato un’entrata di 1.043.000 lire.

Si è avuto sussidio dal commissario di lire 100.000 e uno dell’UNRA di lire 70.000. La beneficenza cittadina ha dato lire 50.000 e le quote sociali ammontano a lire 8.000.

Un grande aiuto si è avuto dal Ministero con vari sussidi per un complesso di 883.000 lire; in totale le entrate sono di circa due milioni e centodiecimila lire.

La cifra parrebbe enorme, sbalorditiva: ma tutti sappiamo della vita e dobbiamo ricordare che si deve provvedere ai biso¬gni di 300 persone.”

Nonostante queste entrate le spese erano ingenti; solo per il pane si erano spese 573.000 lire, per la legna 200 mila, per sapone 184 mila, per la pasta 200 mila; circa un milione e 157 mila per quattro voci del bilancio.

“Ma in una casa come la nostra non è mai sufficiente la biancheria ed uno dei bisogni più urgenti è appunto l’acquisto di lenzuola, camicie ecc… ma in questo momento non è possi¬bile per comprare una qualsiasi quantità di mussola.

Altra necessità è la costruzione di un refettorio per le vecchie che consumano i pasti nei dormitori, ed è anche urgente far sorgere un reparto separato per i deficienti che presentamente vivono in contatto con i vecchi.

Per tanti motivi questo si dovrebbe evitare, ma ci si è costretti per allontanare i deficienti dai giovani”.

Da sottolineare, infine, che nell’asilo venivano assistiti quoti¬dianamente circa 160 bambini tracomatosi (tra interni ed esterni).

Una piccola e variegata comunità con mille bisogni e necessità che sopperiva alle carenze delle istituzioni cittadine.

La guerra non solo aveva messo a dura prova l’istituto per sovvenire alle necessità degli gli ospiti che già vi dimoravano ma lo aveva enormemente popolato accrescendone i bisogni.

A questo proposito è significativo l’episodio narrato da suor Porricino: “poiché a causa della mancanza di scarpe per i ragazzi e per le ragazze non si poteva farli camminare scalzi, suor Brambilla arrivò al punto di far trasformare da un fale¬gname alcuni tavoli della mensa in zoccoli per gli orfani e le orfane. Il calpestio dei ragazzi riempì la Casa di un incredibile frastuono”.

Come al solito non manca l’avvicendamento delle suore nel ’44 arriva infatti la codrongianese trentaseienne suor Chessa Vittoria che col nome di suor Maria coordinerà con vero spirito di abnegazione l’immensa lingeria; nel ’45 arriva la cinquanta¬novenne pozzomaggiorese suor Dettori Maria Antonia; nel ’46 la ventiseienne laconese suor Serra Giovanna che col nome di suor Vincenza animerà fino al 1965 l’asilo infantile frequentato dai bambini interni e da quelli esterni, nello stesso anno giunge¬rà all’istituto la ventottenne domusnovese suor Desogus Annunziata; partono invece nel ’44 suor Quadu Fanny, nel ’47 suor Erdas Anna e suor Dettori Maria Antonia.

Il numero delle suore raggiunge le 12 unità e per quanto non in buono stato di salute l’anziana suor Pia Biassoni, coadiu¬vata da suor Brambilla, porta avanti la complessa gestione dell’ormai variegata comunità.

L’assistenza religiosa quotidiana è assicurata dall’ormai anziano mons. Damiano Filia mentre la formazione religiosa dei minori e dei giovani nonché l’assistenza ai vecchi è assicu¬rata dai preti della missione.

Una stanza nello stabile originario della casa che dà su via Sant’Anna funge da ambulatorio per tracomatosi e un’infer¬miera comunale provvede periodicamente alla medicazione dei bambini interni e di quelli esterni.

L’insegnamento delle classi della scuola elementare è tenuto dall’orunese maestra Maria Murgia e dalla perfughese maestra Maria Athene.

I bambini e le bambine con handicap fisici o mentali non gravi vivono insieme a quelli normali curati con attenzione dalle due suore addette alla cura e all’educazione dei minori: suor Fontana per le ragazze e suor Brambilla per i ragazzi.

La convivenza dei minori handicappati coi minori normali non sempre era ben vista da alcune Dame della Carità, ma la superiora suor Pia, proveniente da una dura esperienza tra i minatori dell’iglesiente, non si scandalizzava e assicurava le Dame sulla buona educazione di tutti sia “dei marcioni de la carera sia dei deficienti” che tanto “suor Fontana che suor Brambilla trattano maternamente”.

Si trattava di una pedagogia un pò rude, ma inconsapevol¬mente all’avanguardia.

Non mancavano poi, in parlatorio, prima dei colloqui coi loro figli i rimproveri da parte delle due suore educatrici alle madri esercitanti il “mestiere” invitate drasticamente a ripulirsi il “rossetto di richiamo” perché i figli non intuissero la loro “professione”.

7.5. Il quinto quadriennio 1947-1950

Per l’ultimo quadriennio della presidenza Zirolia Pittalis vengono elette la stessa Zirolia Pittalis, Carmela Marras, Maria Bellieni, Peppina Talu e Maria Avitabile tra le ventisette donne presenti o rappresentate da delega dell’assemblea convocata nel gennaio del 1947 .

Da notare, tra le altre, le signore più in vista del mondo poli¬tico, economico e culturale della città: partecipa Laura Segni e Rosina Cugurra, Maria Ippoliti e Clelia Cocco, Pasqua Pirino e Maria Murtula.

Durante questi anni, preoccupazione costante dell’ammini¬strazione fu quella di portare il bilancio della Casa a pareg¬gio e di migliorarne l’organizzazione e il funzionamento .

Le entrate del 1949, infatti, raggiungono i 9.592.713, le uscite 9.569.874; come si nota con un attivo leggermente superiore al passivo .

Lo stesso andamento lo si riscontra nell’esercizio finanziario del 1950 .

Furono anni, quelli del dopoguerra, in cui anche gli enti locali dovettero prendere atto di quanto fosse utile per la città la Casa Divina Provvidenza.

Nel quadriennio 1947-50 furono ospitati contemporanea¬mente nella Casa 60 ragazzi, 120 ragazze, 50 vecchi, 150 vec¬chie .

A questi si aggiunsero una trentina di handicappati e circa trenta pensionati abbienti tra cui alcune figure di spicco del movimento femminile cattolico sassarese.

Continuava a funzionare anche l’asilo per i bambini esterni del popoloso rione delle Conce e oltre a questo, nel 1949, furo¬no predisposti i locali per una sezione staccata della scuola ele¬mentare all’interno dell’istituto, frequentata dai ragazzi d’ambo i sessi, costretti fino a quel periodo a frequentare la sezione dei tracomatosi della scuola di San Giuseppe, ad oltre un chilome¬tro dall’istituto.

Grazie agli aiuti americani, ministeriali e degli enti locali migliorò anche il cibo e il vestiario per tutti.

Essendo cresciute molte delle prime ragazze entrate nell’isti¬tuto negli anni trenta si era andato sviluppando notevolmente il laboratorio di maglieria e ricamo dove le giovani apprendevano un mestiere e cominciavano ad essere produttive sotto la calo¬rosa guida dell’emiliana suor Caterina. Altre, dopo il consueto tirocinio, venivano assunte come infermiere presso le strutture sanitarie della città. Altre, previa scrupolosa indagine sulla buona condotta dei pretendenti da parte delle suore, potevano convolare a nozze.

I ragazzi, invece, divenuti adolescenti o ritornavano in famiglia, quando ancora potevano averla o venivano collocati in strutture educative artigianali così da potersi avviare ad un sicu¬ro avvenire.

Per i più volenterosi, grazie alle buone conoscenze delle Dame, si aprivano opportunità di studi e di impieghi.

Anche in questo quadriennio si avvicendano le Figlie della Carità: arrivano la quarantasettenne pattadese suor Era Giovanna che fino al ’55 svolgerà con dedizione la mansione di suora dei poveri; la trentaduenne ossese suor Gavina Branca che con nome di suor Francesca coadiuverà le due suore educatrici fino al 1961; la quarantasettenne bulteina Pirotto Maria Francesca che resterà nell’istituto fino al 1965; la quaranta¬treenne isilese suor Dotzo Bonaria che resterà nell’istituto fino al 1959, l’ozierese quarantottenne suor Langiu Giovanna e infi¬ne arriverà nel 1950 la sessantottenne trevigiana suor Dorigo Redenta che, ad un’anno dalla morte dell’ormai ultraottantenne superiora suor Pia Biassoni, (1951), ricoprirà l’incarico di supe¬riora fino alla morte avvenuta nel 1964.

Molte delle Dame fondatrici avevano lasciato il posto a quelle nuove Damine della Carità che per dar prova della loro dedizione ai poveri avevano fondato l’Istituto dei santi Angeli, affidato alle suore fondate dal tempiese don Vico, imitatore del Manzella, in cui venivano accolti i bambini che arrivavano dal brefotrofio provinciale e che restavano in quell’istituto fino all’età scolare allorquando molti venivano trasferiti nella Casa della Divina Provvidenza.

Nel ’48 i ragazzi e le ragazze, durante i mesi di luglio e ago¬sto, cominciarono a vivere all’aria aperta presso gli oliveti appar¬tenenti alla zona di Pian d’Anna, rientrando all’istituto soltanto la sera.

Dal 1949 ebbero inizio per i minori e per gli adolescenti di entrambi i sessi le colonie estive ad Alghero: i ragazzi partivano da Sassari il 20 luglio e rientravano in istituto ai primi di set¬tembre; trascorrevano le giornate presso la spiaggia del Lazzareto in regione San Giovanni e per l’alloggio notturno erano accolti presso le scuole elementari della città catalana.

Suor Brambilla e suor Fontana pensavano con fermezza materna a governare la marea di ragazzi e ragazze che nelle ore apposite potevano fare i bagni dal momento che il Lazzareto era ubicato sulla spiaggia a qualche metro dalla riva del mare.

Nonostante la molteplicità delle persone presenti nella strut¬tura assistenziale e le possibilità d’incontro tra gli ospiti per via del cortile a cui si affacciavano i reparti, nella Casa tutto si svol¬geva nel massimo ordine salvo i continui contrasti anche tra le suore per le monellerie imputate quasi sempre ai ragazzi ener¬gicamente difesi, talvolta anche a torto, dalla bergamasca suor Brambilla, chiamata dai più piccoli “mamma Gigia”.

Molte Dame e spesso anche i preti della Missione solleci¬tavano il ritorno ai fini originari della Casa e non vedevano di buon grado la persistente promiscuità tuttavia le due suore educatrici, promosse ormai al ruolo materno, difesero strenua¬mente la presenza degli orfani per i quali non si presentavano soluzioni familiari di nessun genere se non la sistemazione in strutture di avviamento al lavoro e in impieghi.

VIII

L’amministrazione di Laura Carta Segni

1951-1968

8.1. Il primo quadriennio 1951-1954

Nel Gennaio del 1951, all’assemblea generale per il rinnovo delle cariche sociali, prima di procedere alla votazione, la Zirolia Pittalis comunica le sue irrevocabili dimissioni che l’as¬semblea accoglie conferendole la nomina di Presidente onora¬ria dell’ente a cui la stessa eroga un lascito di cinquantamila lire.

Con lei si dimettono anche le storiche fondatrici Maria Bellieni e Peppina Talu .

Vengono elette amministratrici Maria Avitabile, Carmela Marras, Costanza Pieroni, Delia Porcu Clemente e Annina Sassu Pirino . Il Consiglio viene completato dalle nomine vescovile e comunale .

Il Prefetto nomina Presidente Donna Laura Segni Carta , consorte del noto esponente politico sassarese Antonio Segni, di nomina vescovile.

L’esercizio finanziario dell’ultimo anno della Presidenza Zirolia Pittalis aveva subito una contrazione passando da circa novemilioni e mezzo del 1949 a ottomilioni del 1950 , ciò era dovuto sicuramente ad una momentanea crisi dell’opera, ma anche al fatto che si era alleggeriti di debiti graziosi dovuti per i disavanzi degli anni più critici della Casa .

Con la Segni Carta, già nel 1952, il bilancio passa a 12.649.725 entrate e quasi a pari uscite .

L’azione della nuova Presidente non si ferma però all’ordi¬naria amministrazione della Casa, ma si esplica con l’amplia¬mento edilizio della stessa dovuta a svariate esigenze :

“Ritenuto che i locali di questo Istituto dei Cronici Derelitti si dimostrano sempre più insufficienti ad ospitare i numerosi infelici che chiedono di essere ricoverati; che questa Amministrazione ha perciò stabilito di ampliare i locali stessi e limitando per ora l’ampliamento a tre ambienti e cioè uno a pianterreno e due sovrastanti, in modo da potervi collocare a pianterreno un asilo infantile per accogliervi i bambini poveri del rione, sul primo piano le ricoverate vecchie e idiote e paralitiche e nell’ultimo piano per accogliervi i bambini di età inferiore ai tre anni provenienti dal Brefotrofio, che ha fatto allestire dall’ing. Ferdinando Tassi il relativo progetto il quale risulta regolarmente compilato e prevede una spesa di lire 4.200.000 “

Per il finanziamento si pensa di ricorrere ai benefici della Legge Regionale 09.03.1950 n°12 e L.R. 08.05.1951 n°5.

La spesa, prevista in 20 milioni, fu ammessa ad un contri¬buto regionale di 10 milioni , con l’offerta di 3 milioni da parte di un benefattore anonimo, quasi sicuramente la stessa Presidente, fu varato e realizzato entro il 1954 l’ampliamento dell’Istituto .

In tal modo i ricoverati poterono essere accolti in locali più idonei: nei tre piani che si affacciano in Via San Pietro di fronte a Sant’Agostino e all’Infermeria Presidiaria.

Il bilancio consuntivo del 1954 si chiuse in pareggio con 14.187.091.

Le migliorate condizioni sociali ed economiche dell’Italia e dell’Isola; lo sviluppo dei poli industriali; la graduale e defini¬tiva scomparsa delle malattie endemiche quali la malaria e il tracoma ridussero a poco a poco la richiesta di ricovero di minori.

D’altra parte anche gli adolescenti, ragazzi e ragazze, avviati in famiglia o al lavoro cominciarono gradualmente a decrescere .Cominciarono a diminuire anche le richieste di ricovero per gli anziani, mentre tese ad incrementarsi la presenza delle anziane. Stazionario, invece il numero dei portatori di handi¬cap.

8.2. Il secondo quadriennio 1955-1958

Al rinnovo delle cariche sociali furono riconfermate le stesse amministratrici e donna Laura Segni Carta Presidente .

Anche questi quattro anni furono contrassegnati dall’au¬mento del bilancio, dalle iniziative di ampliamento della Casa e da ulteriori iniziative per le attività dell’istituto .

Col 1955 si ha un bilancio di 19 milioni e ottocentomila , nel 1956 si sfiorano i 20 milioni , nel ’57 si raggiungono i 22 milioni .

Nel Luglio del ’56 il Consiglio di Amministrazione: “Considerato che in questa città non esiste un istituzione che raccolga ed ospiti tanti vecchi abbienti che per essere rimasti privi di famiglia hanno necessità di essere convenientemente alloggiati, assistiti e mantenuti mediante il pagamento di un’adeguata retta mensile; che l’amministrazione di questo pio Istituto per considerazioni del notevole passaggio di forestieri specialmente nel periodo primaverile-estivo per le manifesta¬zioni folkloristiche culturali;” delibera unanimemente di far costruire un edificio nell’area non ancora identificata l'”Albergo Pensionato San Vincenzo” .

Da rilevare che, come si è già detto, in effetti, funzionava un reparto pensionati abbienti, ma in locali inadeguati.

Il progetto, predisposto dall’ing. F. Tassi, fu approvato; il costo preventivo per la realizzazione fu previsto in circa 52 milioni.

Si pensò, anche in questo caso, di chiedere un mutuo a tasso agevolato alla Regione Autonoma della Sardegna, che con L.R. 23/11/1950 n°63 prevedeva finanziamenti per tali scopi. Poiché con essa la Casa avrebbe potuto avere un finanziamento di 30 milioni, per i rimanenti 22 milioni si pensò di farvi fronte con altre risorse .

Nello stesso anno si pensò di realizzare il 2° lotto della sopraelevazione dei reparti per vecchie ed handicappati, anche questo con contributi regionali; per la parte eccedente si sa¬rebbe provveduto con offerte di benefattori che volevano con¬servare l’anonimato, come era avvenuto per il secondo lotto .

Le necessità finanziarie spinsero l’amministrazione ad impe¬gnarsi a gestire due corsi ministeriali per cotoniere .

L’Istituto era un cantiere di lavoro in tutti i sensi per miglio¬rare la qualità di vita dei vecchi e delle vecchie, degli orfani e delle orfane, degli handicappati e dei pensionati anziani, in tutto quasi trecento persone, a cui assicurare lo svolgimento di una vita normale .

In questi quattro anni si apre il dibattito fra amministratrici e personale religioso sulla miglior qualificazione dell’Istituto.

La situazione socio-economica è cambiata e l’Italia, Sardegna compresa, va incontro agli anni del boom economico.

I ragazzi di un tempo si avviano all’età adolescenziale e la Casa comincia a non essere il luogo più adatto sia per gli orfani che per le orfane.

Si comincia a porre il problema delle finalità dell’Ente che è quello dell’assistenza agli anziani. In particolare si avverte l’esi¬genza di dimettere tanto i ragazzi come le ragazze ormai adole¬scenti .

La morte di suor Pia Biassoni e l’arrivo della veneta suor Redenta , con esperienza ospedaliera, rende il problema più pressante.

La superiora veneta sembra approvare col suo operato l’orientamento di una parte delle Dame di ritornare alle origini dell’ente e cioè fare dell’istituto un ricovero per gli anziani. In effetti nel corso di questo quadriennio tutto sembra concorrere alla realizzazione di questo progetto, sia gli adolescenti come le ragazze cominciano a lasciare l’istituto senza che altre o altri vi subentrino, al loro posto invece cominciano ad arrivare più anziane.

Si avverte nella Casa un certo disagio anche tra il personale infermieristico poco qualificato e spesso volontaristico .

Non mancano le offerte in danaro da parte dei cittadini ab¬bienti, lasciti e legati, tra questi ultimi da ricordare quello dello storico ecclesiastico sardo mons. Damiano Filia : con esso l’area e i fabbricati della Casa si accrescono ulteriormente .

Arrivano i fondi regionali, si completano le sopraelevazioni, mentre si dà inizio al “Pensionato Albergo San Vincenzo”

Questa costruzione viene realizzata nell’area dell’orto dove era situata la camera mortuaria e notevolmente distanziata dal complesso delle altre costruzioni quasi fosse un’opera a parte.

Si dà inizio altresì a non sostituire i posti degli anziani de¬funti con l’accettazione di altri.

Col 1958 la cubatura edificata viene notevolmente accre¬sciuta e l’opera assume dimensioni nuove.

Ciò che contraddistingue questi quattro anni è il notevole apporto finanziario regionale, sia a mezzo di contributi sia a mezzo di mutui. La Regione dimostra la sua sensibilità per l’opera, grazie anche al prestigio della presidente, consorte del più volte Ministro e Presidente del Consiglio Antonio Segni.

8.3. Il terzo quadriennio 1959-1962

Anche il terzo quadriennio della presidenza Segni Carta fu contraddistinto dalla crescita immobiliare dell’ente morale , dall’ampliamento e ristrutturazione dei locali e dall’accresci¬mento del bilancio dovuto in parte all’inflazione e in parte a maggiori entrate.

Le operazioni immobiliari più valide furono sicuramente l’ampliamento della Casa su progetto dell’ing. F. Tassi, con la ristrutturazione della palazzina Filia che si affaccia in Via Angioy; l’acquisto di circa due ettari nel Comune di Alghero, in zona vicina al mare per la costruzione della Casa estiva per i ragazzi e per gli anziani .

L’area fu acquistata dall’ETFAS per L.2.500.000 “lungo il litorale Alghero-Fertilia”.

L’acquisto fu quasi d’obbligo in quanto l’area sita nelle vici¬nanze di Alghero, per la quale era stato predisposto il progetto, non aveva potuto essere edificata per “insuperabili difficoltà di ordine tecnico sul terreno di fondazione”.

La clausola dell’atto d’acquisto esigeva una compensazione con “uno o più appezzamenti di terreno di eguale importo e valore d’acquisto, a reperirsi entro sei mesi dalla stipulazione della stessa scrittura ovvero con altri terreni che saranno indicati e dichiarati idonei dallo stesso ente nel periodo di altri sei mesi”.

L’Istituto era peraltro autorizzato ad immettersi in possesso del fondo sopradescritto e ad iniziare immediatamente i lavori per la costruzione dell’opera.

Nello stesso anno fu venduta l’area di Castelsardo in zona “Sa Sonaiola” all’Istituto Mater Purissima di Sassari .

Sia per l’ampliamento dell’istituto in Sassari, sia per la costruzione della Casa al mare si provvide con fondi regio¬nali .

Altro punto qualificante dell’amministrazione Segni Carta, fu l’assegnazione di un compenso mensile alle suore, in tutto undici, per complessive lire un milione e duecentomila lordo al mese.

Nel corso di questo quadriennio si dà energico inizio alle dimissioni dei ragazzi e delle ragazze ormai adolescenti per i quali la Casa non poteva offrire più una formazione adeguata alla loro età.

D’altra parte la stessa suor Dorigo, superiora della Casa, pre¬meva sull’amministrazione perché in essa fossero rispettati i fini originari che erano quelli dell’assistenza ai vecchi cronici dere¬litti.

Dello stesso parere non era suor Brambilla, che si oppose finché poté, alle dimissioni dei ragazzi .

Donna Laura, dal 1962, sempre più impegnata fuori Sassari per gli impegni politici del marito, lasciava la risoluzione del problema al personale religioso .

Nel quadriennio lasciarono l’Istituto ragazzi, ragazze e andò prevalendo l’impostazione ospedaliera nella quale suor Dorigo aveva trascorso tanti anni della sua attività religiosa.

8.4. Il quarto quadriennio 1963-1966

Con il quarto quadriennio di Presidenza di Donna Laura Segni Carta continua l’ampliamento immobiliare della Casa , e continuano le donazioni e i lasciti dei privati.

Con Donna Laura amministrarono l’ente morale, le gentil¬donne sassaresi Giulia Giganti, Maria Bartoli, Bibiana Castiglia, Annina Pirino.

Dati gli impegni politici del consorte, prima presidente del Consiglio e successivamente presidente della Repubblica, spesso il consiglio fu presieduto dalla Vice Presidente Giganti, ma la presidenza dell’ente fu della Segni. Gli atti del resto lo docu¬mentano .

Ai sensi della legge 27.07.62 n°1073 fu finanziata con quindici milioni la costruzione più idonea dell’asilo infantile; con altra legge regionale il primo lotto di Via Sant’Anna per le anziane autosufficienti mentre per le altre si era provveduto con la ristrutturazione dei vecchi locali di viale San Pietro; si portò a termine anche l’acquisto e la costruzione con fondi regionali della Casa di Alghero.

Si costruì per il legato Filia un’altare nella chiesa parroc¬chiale di Illorai.

Cospicue furono tra il ’63 e il ’66 le donazioni ricevute dall’ente: il lascito di Biddoccu nel ’63; appartamento e giardino indipendente di Via Pasubio, 13; lascito Coradduzza con immobili siti in Via Infermeria, Via Monache Cappuccine, Via Turritana, Via Torre Tonda, terreno a Serra Secca; lascito Casu Podina a Cargeghe; e infine l’ingente lascito Luigi Cugurra costituito da numerosi immobili, terreni e titoli di credito.

Questo lascito, sulla storia dell’Ente, dopo le prime donazioni fu su sicuramente il più vasto e multiforme .

Fu venduto uno stabile ad Alghero, lasciato da Maria Spirito. Si aumentò il modesto compenso al personale religioso, pas¬sando da lire 15.000 a lire 20.000 mensili .

Furono sistemate con regolare stipendio anche ragazze che ormai svolgevano la funzione di ausiliarie o di cuoche nell’isti¬tuto.

A conclusione del quadriennio i dati sul personale religioso e sui ricoverati completano il quadro.

Agli inizi del quadriennio, esattamente nel ’63, defunta suor Dorigo, superiora della Casa fu nominata superiora suor Brambilla, che dal 1931 era presente nell’istituto sia come suora educatrice dei ragazzi sia come vera e propria segretaria di fatto del consiglio di amministrazione, appena coadiuvata per la contabilità dall’anziana maestra Ninetta Marras di nomina vescovile nel consiglio di amministrazione.

Anche in questo quadriennio giunsero in istituto la sessantot¬tenne ozierese suor Polo Stefania, la sessantunenne ploaghese suor Dore Giovanna, la quarantanovenne laconese suor Palmas Eugenia inoltre la quarantasettenne suor Atzori Mariangela di Aritzo, la quarantenne guspinese suor Scanu Lucia e l’anziana genovese ottantaquattrenne suor Cuniberti Maria mentre lascia¬no l’istituto suor Serra Giovanna, suor Pirotto Maria Francesca, suor Cherchi Maria Sebastiana. L’età media delle stesse Figlie della Carità si è notevolmente elevata e talvolta la Casa sembra trasformarsi, almeno per alcune suore anziane sia pure incari¬cate di modeste mansioni, in una casa di riposo.

Per il quadriennio 68-71 fu riconfermata presidente donna Laura ma nell’ottobre del 1968 la stessa si dimise definitiva¬mente da ogni incarico ed entrarono a far parte del consiglio di amministrazione Alba Castiglia, Giulia Giganti, Maria Bartoli Avitabile, Annina Pirino Sassu, tra queste fu eletta presidente Alba Castiglia.

Con la presidenza Castiglia ebbe inizio in modo deciso e senza ripensamenti la definitiva trasformazione dell’ente in una vera e propria “Casa di riposo per anziani”, puntigliosamente amministrata da donne laiche, intente a tutto razionalizzare e “normalizzare”.

I tempi erano cambiati e le Dame della Carità erano morte da tempo o invecchiate.

Alle figlie della Carità fu tolto ogni ufficio amministrativo e contabile e qualsiasi gestione di fondi e dello stesso personale.

Nel ’69 lasciò la Casa suor Brambilla che dal 1931 aveva svolto egregiamente la funzione di economa, segretaria e fidu¬ciaria dei vari consigli di amministrazione che si erano succe¬duti, lasciando un’attivo consistente.

Partita lei, la presidente e le amministratrici si fecero carico di ogni minuta amministrazione e decisione.

La stessa superiora delle suore non fu più invitata a parteci¬pare ai consigli di amministrazione.

Alle Figlie della Carità, quali figure professionali infermie¬ristiche, fu affidata la responsabilità puramente esecutiva dei vari reparti.

Si può ben affermare che da quell’anno con l’inizio di numerose assunzioni di personale, generalmente ausiliario, ma anche amministrativo, la casa cominciò a cambiare finalità e utenza.

La casa Divina Provvidenza per cronici e derelitti si trasfor¬mò in una Casa di riposo per anziani autosufficienti e inabili con pagamento di rette da parte degli stessi o delle famiglie.

Lasciarono l’istituto tutti i ragazzi e le ragazze. Lo stesso pensionato per abbienti si è trasformato in un reparto della Casa di riposo.

Il cortile piazzetta, con tutte le ristrutturazioni promosse, si è trasformato in posteggio per macchine e il luminoso orto è scomparso con l’edificazione di una ingombrante costruzione che per alcuni anni funzionò da asilo.

Era finita un’epoca e stava per iniziarne un’altra della quale si coglierà l’occasione di parlarne in un’eventuale altro studio.

IX

La vita della comunità-villaggio

9.1. Le condizioni generali

Fin da quando l’istituto fu aperto e gestito dalle Figlie della Carità, la vita quotidiana fu regolata da precisi orari: l’orario del riposo e della sveglia, dell’igiene personale e della pulizia dei locali, della visita medica e della medicazione, dell’istruzione e della pratica religiosa, dei momenti ricreativi e delle visite dei parenti o delle Dame o Damine di Carità.

La vita delle anziane e più tardi degli anziani, delle orfane e degli orfani, non veniva regolata dal caso, ma da quello schema di orario che in genere i vincenziani imponevano alle loro case fin dalla loro fondazione nella prima metà del Seicento.

La levata e le prime pulizie personali erano fissate per le sei, alle sette suonava la campana per la messa che veniva solita¬mente celebrata da un missionario vincenziano, fuorché nel periodo in cui officiò la celebrazione l’ormai anziano storico della Chiesa mons. Damiano Filia; alle 7,45 era fissata la cola¬zione, seguivano alle 8,30 le pulizie dei locali, la visita medica, (per tanti anni tale compito fu assolto gratuitamente dal medico comunale), seguivano brevi conversazioni e momenti ricreativi guidati in genere dalla suora del reparto.

Alle 12 si pranzava e quindi fino alle 15.30 seguiva il silen¬zio e il riposo pomeridiano.

Alle 15,30 si svolgevano momenti di istruzione e ricreativi, alle 17 il ricevimento delle Dame e dei parenti, alle 18 la cena e alle 19, recitate le preghiere della sera nello stesso reparto, si dava la buona notte .

Erano, come si può notare gli orari ospedalieri che, a secon¬da delle stagioni presentavano una certa elasticità.

Allorché furono accolti, subito dopo l’erezione in ente mora¬le, i primi bambini e le prime bambine orfane, dai sei ai dodici tredici anni, gli orari, a seconda dei reparti, subivano variazioni fuorché nei momenti della preghiera, dei pasti e del riposo.

Per quanto riguarda gli orfani di entrambi i sessi, i più pic¬coli, (quelli dai tre fino ai sei anni), dal momento che fin dall’erezione in ente morale fu annesso all’istituto un locale per l’asilo per accogliere i bambini del quartiere popolare delle Conce, venivano inseriti insieme agli altri.

Quelli in età scolare venivano accompagnati alle scuole ele¬mentari cittadine di San Giuseppe a piano terra, nel reparto dei bambini “tracomatosi” della città, ciò fino al 1949, allorché si aprì nello stesso istituto una sezione staccata della scuola Elementare di San Giuseppe che andava dalla prima alla quinta.

Per gli scolari, al pomeriggio, si teneva una specie di dopo scuola con compiti, sotto la guida della suora culturalmente più preparata quale era la bergamasca suor Brambilla che oltre alle scuole commerciali di ragioniera aveva conseguito da suora il diploma di maestra d’asilo.

Il sabato pomeriggio e la domenica i minori di entrambi i sessi dedicavano alcune ore allo studio del catechismo e all’ap¬prendimento anche mnemonico di interi passi della Bibbia.

Del resto anche le vecchiette autosufficienti, e, più tardi, gli stessi vecchietti validi, davano un contributo di lavoro, con la celluloide, l’uncinetto ed il ricamo le donne; la coltivazione dell’orto, i lavori di falegnameria e aggiustaggio gli uomini.

Tanti oggetti andavano ad arricchire i doni delle frequenti lotterie domenicali che venivano gestite dalle Dame della Carità per i visitatori, imparentati o no, con gli ospiti della Casa.

La sistemazione urbanistica dell’istituto, fin dalla sua fonda¬zione, includeva un ampio cortile, luogo di incontro per tutti gli ospiti della Casa: vecchi, ragazzi e ragazze, portatori di handi¬cap, pensionanti, essendo i reparti contigui ed essendo lo stesso cortile un passaggio obbligato per tutti,

D’altra parte, per i vecchi autosufficienti, per i ragazzi e per gli stessi pensionati, quasi tutti di elevato ceto sociale, i momenti comunitari d’incontro erano costituiti dalla messa quotidiana, dalle feste religiose più importanti, dalle recite e dai canti, in particolari festività legate al ciclo del tempo alla tradizione vincenziana o alle ricorrenze e anniversari delle suore e delle presidenti.

Per trent’anni quel cortile si trasformò quasi in una piazzetta paesana in cui tutti gli ospiti potevano comunicare e fraterniz¬zare, sotto lo sguardo e il controllo delle Figlie della Carità che non tutte e sempre accettavano di buon grado quella promi¬scuità.

E’ indubbio che le suore sarde erano spesso quelle più rigide sulla separazione dei ragazzi dalle ragazze, dei vecchi dalle vec¬chie e a volte esasperavano la situazione;

Tuttavia questo modo di fare, veniva spesso allentato dalle suore di origine continentale, quali furono quasi tutte le supe¬riore, le suore dei ragazzi e delle ragazze e talvolta le suore degli anziani e delle anziane.

Ciò che destava meraviglia era il normale inserimento dei bambini e delle bambine portatori di handicap (spastici, ritar¬dati mentali con altre varie menomazioni) tra i ragazzi e le ragazze normali.

Senza un’attenzione particolare, all’infuori dei momenti di terapia e cura o di insegnamento individuale di sostegno, data la difficoltà dell’apprendimento, questi ragazzi vivevano a contatto dei loro coetanei sottoposti alle stesse regole, sicuramente più curati dal punto di vista affettivo.

Gli anziani ai “Cronici” avevano trovato chi li curasse venti¬quattro ore su ventiquattro: questo, d’altronde era il motivo fondamentale dell’istituzione della Casa, dal momento che sovente le cronache cittadine segnalavano di anziani abbando¬nati a se stessi e talvolta vittime di incidenti domestici di ogni genere.

Le vecchie, erano sistemate nei piani sopraelevati di viale San Pietro, in enormi cameroni di tipo ospedaliero, dove passavano l’intera giornata.

I servizi igienici erano a stento sufficienti anche se sicura¬mente migliori rispetto a quelli di cui erano soliti usufruire, quando li avevano, nei tuguri da cui provenivano.

Col tempo migliorarono, ma sicuramente negli anni che vanno dalla prima alla seconda guerra mondiale (1915-1945) non ci furono docce, vasche, riscaldamento.

La pulizia della biancheria era affidata ad alcune donne ricoverate in condizioni di lavorare, che usufruivano di lavan¬derie nel sottopiano di fronte al cortile.

Accanto alla lavanderia era situata la lingeria dove la stira¬tura e il rammendo erano effettuati da una suora responsabile e, di tempo in tempo, da ricoverate valide al lavoro.

Le più svariate malattie della vecchiaia, con l’incapacità di continenza liquida e solida, nella quasi unicità dei locali non poteva certamente offrire condizioni igieniche ideali, special¬mente quando i reparti erano al completo.

Lo stesso può dirsi per i reparti dei ragazzi e delle ragazze, affette sovente da tracoma, nefropatia, incontinenza urinaria, malaria e malattie dell’infanzia per i più piccoli, tigna, a volte pidocchi e altre epidemie, specie nel periodo della guerra.

Quando i ragazzi e le ragazze erano ricoverati in numero superiore ai posti letto, erano costretti a dormire, sicuramente tra candide lenzuola riscaldate dalle coperte “americane”, ma in due per letto, e talvolta anche in tre.

Quelli che non riuscivano a contenere l’urina nel sonno erano sistemati in un camerone a parte e, come del resto succe¬deva anche nelle migliori famiglie, quotidianamente inutilmente redarguiti.

Poiché i locali erano abbastanza angusti e sovraffollati, ogni mattina i cameroni dei ragazzi e delle ragazze non emanavano sicuramente effluvi profumati.

Il cambio della biancheria si effettuava, in genere, settima¬nalmente e la biancheria e gli abiti, decorosi, ma nei periodi di guerra rattoppati, erano collettivi per cui a seconda dei periodi un paio di calzoni e una maglietta potevano essere indossati da uno o da un altro ragazzo.

Le scarpe, nei periodi critici, erano costituite da zoccoli, il cui calpestio rallegrava sonoramente l’intero istituto.

Si narra, a questo proposito, che la suora addetta ai ragazzi, suor Brambilla, in mancanza di scarpe fu costretta ad utilizzare la pedana del palco per le recite, per poter procurare un paio di zoccoli ai ragazzi e alle ragazze.

Dal ’50 in poi le cose migliorarono e spesso le scarpe ab¬bondarono a dismisura grazie ad un vicino grossista fornitore.

9.2. L’educazione dei minori.

Per le ragazze che avevano ultimato le scuole fu predisposto un laboratorio di maglieria, la cui produzione e rendita andava a beneficio della Casa .

Per i ragazzi più grandicelli, eseguiti i compiti, nel pome¬riggio, c’era l’apprendistato presso qualche laboratorio di fab¬bro o di falegname.

Non mancavano per tutti i ricoverati le visite settimanali dei parenti.

Qui occorre premettere qualche dato sull’origine dei ricove¬rati: molti anziani di entrambi i sessi provenivano da situazioni di disagio famigliare o di completo abbandono sia che fossero sassaresi sia che provenissero dai centri rurali.

I ragazzi e le ragazze, in parte provenivano da istituti che li avevano accolti dai brefotrofi, in parte venivano da famiglie numerose con genitori sprovvisti di mezzi non solo materiale, altri erano figli di separati, altri ancora erano orfani di uno o di entrambi i genitori.

A causa della precarietà dei mezzi di comunicazione, ma anche dell’indigenza generalizzata, erano rare le visite per i ricoverati provenienti da centri rurali; più frequenti per i ricove¬rati cittadini.

E’ indubbio che gli ospiti della Casa non erano molto ricer¬cati. Il contatto con la città avveniva però frequentemente in occasione delle processioni e dei funerali.

Era d’uso, quasi fino agli anni sessanta, invitare ai funerali gli orfani e le orfane degli istituti cittadini in cambio di un’offerta concordata con l’istituto oppure delle benemerenze che il defunto o la defunta (Dame o Damine di Carità) aveva conse¬guito.

In tal caso i ragazzi e le ragazze, rivestiti con apposite divise, partecipavano ai funerali il cui percorso consueto era: casa del defunto, corso Vittorio Emanuele, chiesa di Sant’Antonio.

L’educazione fisica oltre che ai giochi nel cortile, alla ginnastica scolastica, era affidata alle corse nei campi, alle pas¬seggiate e a partire dal ’49, come si é già detto oltre un mese e mezzo alla colonia marina estiva.

Ad Alghero, presso i locali del Lazzaretto, i ragazzi passa¬vano la giornata alternando il riposo al nuoto, la ripetizione scolastica all’apprendimento del galateo.

Per dormire si rientrava nei locali della scuola elementare ubicata di fronte ai giardini della città catalana.

Terapia e cura per i più fragili, bagni e abbondante alimen¬tazione per tutti. Disciplina e ordine nei limiti del possibile dato il clima rilassato che si respirava.

Gli anziani, invece, restavano nella Casa, fattasi più silenziosa, finché anche per loro, negli anni ’60, sorgerà la “Casa Segni” di Fertilia.

L’educazione religiosa era affidata alle suore e ai missionari vincenziani. Erano presenti nell’istituto varie associazioni per le ragazze particolarmente le Figlie di Maria, mentre è assente, per tutto il periodo fascista qualunque associazione giovanile femminile o maschile, di matrice politica.

I missionari vincenziani curavano la direzione spirituale degli ospiti della Casa e periodicamente svolgevano conversa¬zioni agli anziani e ai ragazzi di entrambi i sessi.

Si effettuavano confessioni periodiche e manifestazioni particolarmente toccanti nelle maggiori festività dell’anno liturgico e particolarmente a Pasqua, a Natale e nelle festività vincenziane.

9.3. Le suore educatrici

Le prime tre figlie della Carità, la superiora suor Aresi, suor Marongiu e suor Benati giunsero alla Casa nel gennaio del 1918, immediatamente dopo la guerra; nel ’19 arrivò suor Besati, la prima quasi cinquantenne le ultime tre rispettivamente di 34, 24, 25 anni, quindi abbastanza giovani per caricarsi l’onere della Casa.

Tutte e quattro andranno via nel ’36, dopo una quindicina d’anni di permanenza nella Casa.

Ad esse va il merito di aver dato all’istituto una gestione regolare, vivendo a stretto contatto con le Dame e col p. Manzella.

Data la scarsa documentazione poco resta su di loro nell’Isti¬tuto.

Nel 1928 parte la Superiora suor Aresi e giunge all’Istituto la Bresciana suor Biassoni, dopo essere stata a Oristano, a Cagliari e ad Iglesias, dove aveva imparato le “parolacce” a contatto coi minatori.

Resterà ai “Cronici” fino alla morte, dando ad esso una forte impronta caritativa e favorendo la formazione delle ventenni suor Brambilla, suor Fontana, suor Scarpa, suor Porricino che saranno per oltre quarant’anni le vere colonne portanti dell’isti¬tuto essendo suor Brambilla la vera e propria segretaria della Casa e la suora dei ragazzi, suor Fontana la “suora delle ragaz¬ze”, suor Porricino la creativa e generosa dispensatrice di cibo a tutti gli ospiti della casa nelle varie epoche, diventando la responsabile della cucina, suor Scarpa la responsabile delle anziane e delle handicappate nonché l’infermiera delle stesse.

Queste quattro suore, all’arrivo nella Casa, avevano rispetti¬vamente 27 anni la bergamasca suor Brambilla, 21 la emiliana suor Fontana, 26 la carlofortina suor Porricino, 19 anni l’ossese suor Scarpa.

Nel 1936 le suore presenti raggiunsero il numero di dodici, e salvo brevi periodi, questo numero si mantenne costante nel tempo.

Dal 1918 al 1967 hanno operato nell’istituto 60 suore delle quali otto continentali e le rimanenti sarde, prevalentemente originarie della provincia di Sassari.

Non si hanno dati sui titoli di studio, tuttavia, a parte poche eccezioni, la quasi totalità era fornita della sola licenza elemen¬tare o al massimo della licenza media.

In genere tutte avevano frequentato un’anno di formazione a Torino e talvolta avevano svolto attività di assistenza in altre Case gestite dalle suore.

Ogni suora svolgeva dei compiti specifici: oltre alla supe¬riora vi era la suora addetta ai ragazzi, un’altra alle ragazze, un’altra agli anziani, un’altra ancora alle anziane, al pensionato, alle portatrici di handicap, all’asilo, alla cucina, ai poveri della città, alla lingeria, alla lavanderia.

La gestione della Casa era affidata fino al 1969, alle suore.

Erano le suore che tenevano la cassa, anche se formalmente era la presidente a riscuotere e il consiglio di amministrazione a deliberare.

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