Monache cappuccine di Sassari. Prelati, nobili e semplici cittadini benefattori del monastero di Giancarlo Zichi
Nell’autobiografia di Suor Maria Isabel Candida, una delle cinque madri fondatrici del monastero delle cappuccine di Sassari, il cui manoscritto è custodito presso l’archivio storico delle religiose, edito nel 2007 da Marina Romero Frias, è tramandata la notizia che l’inquisitore generale Don Alonso de Araújo all’inizio di aprile del 1667 partì per raggiungere la sede di Sassari. Sua volontà era attuare ciò di cui si era proposto da tempo, ossia la fondazione in città di un monastero da destinare alle cappuccine provenienti da Madrid. Superate alcune difficoltà iniziali, dopo qualche anno si presentarono circostanze favorevoli per portare a termine il progetto. In primo luogo il medico Salvatore Della Croce, che aveva riedificato a sue spese l’antica chiesa delle monache benedettine di Pisa, intitolandola a S. Salvatore, l’aveva donata, insieme a case e terre annesse, all’erigendo monastero. Il comune di Sassari, da parte sua, il 10 marzo 1670 ne approvava la fondazione, confermata due mesi dopo dal viceré di Sardegna, Francesco Tuttavilla, duca di S. Germano. Lo stesso inquisitore Don Alonso, morto a Sassari nel 1671, con testamento del 9 agosto di quell’anno lasciava alla nuova istituzione tutti i suoi bei e una notevole somma di monete d’oro. Infine l’arcivescovo Ignazio Royo, già arcivescovo di Sassari, da Albarracín, dove nel frattempo era stato trasferito, con lettera del 31 marzo 1672 raccomandava al cardinale di Aragona il monastero.
I cittadini sassaresi furono sempre generosi nei confronti delle monache sino ai nostri giorni; specialmente quando si andava incontro ad annate scarsissime per cui le monache rimanevano in grande angustia, intervenivano con offerte in natura. Persino nei villaggi della diocesi, ancora nella seconda metà del 1700 venivano raccolte offerte non solo favore delle cappuccine di Sassari, ma anche di quelle di Tempio e di Ozieri.
Il governo piemontese, considerato la facilità con cui le badesse in generale accettavano le novizie, avevano prescritto ai presuli sardi di stabilirne per decreto il loro numero in proporzione dei redditi e delle elemosine. Notizie più precise intorno alle cappuccine di Sassari si possono leggere nel carteggio dell’arcivescovo Viancino col ministro piemontese Bogino. Nel 1766 le monache erano 40 tra coriste e laiche. Altrettante erano le celle e i sedili del coro e del refettorio. Il loro monastero aveva un ottimo impianto tanto che ‹‹può stare al pari in struttura a monisterj d’Italia››. La loro chiesa e sagrestia ‹‹sono riccamente proviste anche in argenteria››. Vivendo semplicemente dalle raccolte delle questue, le cappuccine si trovarono più volte costrette a chiedere sovvenzioni al re Carlo Emanuele III. Il 13 aprile 1769 Viancino scriveva a Bogino precisando che la richiesta di soccorso, presentato dalle religiose direttamente al re, aveva comprovate motivazioni in quanto non si può ‹‹negare essere questi tempi assai critici per esse a motivo del prezzo delle vetovaglie, il quale fà che i benefattori hanno ristretto le loro limosine. Non è però che sia sin ora per grazia di Dio mancato il bisognevole frugale a cui sono avezze››. In special modo – continuava l’arcivescovo – desiderano che si possa giungere a completare ‹‹la grande infermeria››, opera intrapresa nel 1768, grazie ad un lascito della sorella del marchese di Mores, monaca del monastero. Del resto basterebbero qualche centinaio di scudi per portare a termine l’opera ‹‹veramente degna e corrisponde al rimanente del monistero, il quale è forse la miglior fabbrica del regno››. Nel maggio successivo mentre ringraziava il governo, nonostante la scarsità delle annate, della somma offerta alle religiose, ‹‹nulla dimeno Dio non lasciò loro mancare il frugale trattenimento a cui sono apposte››, per cui il soccorso dato dal re verrà utilizzato esclusivamente per il completamento dell’infermeria1344. Il 3 maggio 1769 Bogino comunicò a Viancino che il sovrano aveva dato ordini al vicerè di far pervenire alle religiose, una tantum, la somma di 300 lire di Piemonte. Il re tuttavia desidera – spiegò Bogino – ‹‹che prendano su di ciò le loro misure per non rivenire alla carica; mentre, come già le dissi, il regio erario non sarebbe in caso di soccorrere ai bisogni di codesti monisteri nello stato in cui si sono posti colla moltiplicazione delle religiose”. Tuttavia nel marzo 1770 il re diede l’ordine a Viancino, mediante il ministro, di dare ancora un aiut o in denaro per portare a termine l’infermeria del monastero.
La politica del governo sabaudo verso le congregazioni religiose maschili e femminili mirante a limitare il numero degli aspiranti e delle novizie era appena agli inizi, giacché già nel primo decennio del secolo, di fronte alle impellenti necessità finanziarie della monarchia, era stata ventilata la possibilità di sopprimere alcuni conventi, che divenne realtà con la legge del 29 maggio del 1855 interessando anche i monasteri femminili di Sassari, compreso quello delle cappuccine.
A seguito della la legge 29 maggio 1855, attraverso la quale venivano soppresse le congregazioni religiose, gli impiegati del governo, nonostante la netta opposizione dell’arcivescovo Domenico Varesini, nel luglio di quello stesso anno, infransero la clausura dei tre monasteri femminili di Sassari (Isabelline, Clariane e Cappuccine) per redigere l’inventario di ciò che si trovava nella casa, portando via tutte le carte, libri e documenti riguardanti l’amministrazione dei beni. Varesini, nella relazione ad limina, scrisse che l’azione avvenne «con scandalo di tutta la popolazione e che le Madri Abbadesse rispettive protestarono solennemente contro il violento e sacrilego attentato». Nonostante ciò, il monastero veniva soppresso, i suoi beni incamerati dallo Stato, sebbene veniva permesso alle monache di rimanere nella loro casa ma con la proibizione di accettare nuove vocazioni. Le religiose, dopo diversi mesi cominciarono a percepire dal Governo la pensione, comunque non sufficiente al loro sostentamento. Vent’anni dopo l’arcivescovo Marongiu scrisse alla S. Sede informando che il numero delle cappuccine era rispondente alle esigenze del coro e della vita comunitaria e che, sebbene le entrate fossero enormemente diminuite e le pensioni governative insufficienti, tuttavia, in comune accordo con le religiose, era stata presa la decisione di moderare le spese non solo del vitto ma anche di quelle relative al culto divino. E poiché diverse monache vivevano nell’infermità ed erano molto avanti negli anni, il Marongiu aveva concesso, che venissero accolte alcune giovani, per assisterle, a condizione che, trascorso l’anno di noviziato, potessero emettere i voti semplici per un anno, rimandando la professione solenne a tempi migliori, «in cui la Chiesa avrebbe riacquistato la libertà, e le religiose avrebbero vissuto in monastero serene, senza timore alcuno di essere espulse». Da questo e simili interventi da parte del Marongiu, «forse il più lucido testimone del dramma della Chiesa sarda negli ultimi tre decenni dell’Ottocento» (Turtas), si evince che egli ha posto tutto l’impegno pastorale possibile, perché «le leggi civili oppressive di tutte le Comunità religiose» non offrissero alle monache «motivo di rilassamento». In realtà nonostante l’impegno dell’arcivescovo il declino dei monasteri cittadini di S. Elisabetta e di S. Chiara diviene ormai inarrestabile. Nel settembre del 1879, viene definitivamente chiuso, da parte del Governo, il monastero delle Clarisse, per destinare i locali ad uso scolastico; delle cinque monache superstiti due sono distribuite nel monastero delle cappuccine e tre in quello delle isabelline. Per giunta, a partire dal 1882 l’arcivescovo Marongiu è costretto ad ammettere che «il numero delle religiose dei due monasteri superstiti diminuiva di giorno in giorno; che le religiose erano quasi tutte avanti negli anni e per lo più ammalate, tanto che a mala pena potevano assicurare il servizio del coro; né vi poteva essere «in hac temporum iniquitate», speranza alcuna che il numero potesse crescere, per l’interdizione da parte del Governo a ricevere altre novizie. Soprattutto il monastero di S. Elisabetta subisce un calo pauroso, causato dalla scomparsa, in un breve lasso di tempo, di un numero elevatissimo di monache, al punto che nel 1897 esse sono appena quattro. Fino a quel momento rimane costante, invece, il numero delle cappuccine, sebbene continuano a comprendere molte inferme e avanti negli anni. A questi disagi si dovrà aggiungere il divieto, da parte del Governo, di questuare, per cui vengono meno anche queste entrate, quantunque modeste, né i fedeli, fa notare sempre il Marongiu, fatte alcune eccezioni, hanno la consuetudine di recarsi direttamente presso il monastero per fare beneficenza. Nel frattempo il monastero di S. Elisabetta viene consegnato definitivamente al Comune. Al momento solamente quello delle cappuccine riuscirà ad evitare la soppressione. All’inizio del secolo successivo nella relazione del visitatore apostolico fra’ Tommaso Maria Boggiani viene indicato che le cappuccine erano in numero di 15. Nel frattempo il Comune fece istanze presso il Governo per ottenere il monastero delle Cappuccine; l’edificio venne ceduto, per cui venne ordinata l’espulsione delle monache, alcune delle quali vennero inviate al ricovero. Solamente suor Maria Efisia Berlinguer, zia dell’assessore comunale, ottenne di rimanere nel monastero, e così la dispersione non fu completa. Nel 1901 morì quest’ultima e il Comune lasciò che tutto procedesse come prima. Rimaneva allora, delle 5 riconosciute dallo Stato, Suor Maria Angelica Mastìo, Abbadessa. Il 2 dicembre 1911 morì anche questa religiosa, ed il Comune, nel marzo 1912, indirizzando una lettera alla Madre Suor Maria Maddalena Monagheddu, intimò alle monache di lasciare il monastero. Dovettero obbedire. A quel punto intervennero le nobili Raffaella Salis, Annetta Segni, Fanny Cugia Deliperi, che desiderarono preparare alle religiose un nuovo edificio, ma le somme raccolte non furono sufficienti. Finalmente la marchesa Cavalletti Giordano offrì la somma necessaria per l’acquisto di una casa, poco distante dal monastero, appartenente arcivescovo Cleto Cassani. Le cappuccine vi si trasferirono il 1 agosto del 1913. Sempre per generosità della marchesa Cavalletti alla casa venne aggiunta una piccola cappella. Nel 1932 mons. Arcangelo Mazzotti, appena un anno dopo il suo ingresso a Sassari, iniziò le pratiche per ottenere l’antico monastero. Le sollecite cure dell’arcivescovo, che si interessò con grande impegno per risolvere l’annoso problema, giunsero a buon fine e il monastero, dopo importanti restauri, che rispettarono in parte le stesse linee architettoniche antiche, nel 1936 accolse nuovamente le monache. L’intervento di mons. Mazzotti restituì alle religiose serenità e la ripresa della vita regolare monastica; nuove vocazioni ristabilirono la normale esistenza. Le relazioni ad limina di quel periodo attestano ufficialmente che il monastero ha goduto di un nuovo clima e crebbe il numero delle religiose che nel 1956 erano già 37. Dal rientro delle cappuccine alla loro casa di origine sono trascorsi quasi ottant’anni. Esse hanno ripreso nella sua interezza l’assidua contemplazione di Dio, nel silenzio e nella solitudine, la lode continua, l’impegno di aderire a Cristo Crocifisso con amore e spirito di annientamento. Per questi motivi mons. Mazzotti era solito dire che le cappuccine rappresentavano per Sassari un autentico ”parafulmine”. Inoltre hanno sempre coltivato rapporti fraterni con semplicità e spontaneità con tutti coloro che le avvicinavano; dando sincera testimonianza di vita povera ed austera, tale da essere segno profetico per la società moderna; alimentando intensamente la dimensione ecclesiale della loro vocazione insieme alla sollecitudine per i poveri e per i deboli della città di Sassari. Secondo lo spirito francescano la loro povertà era sempre fondata sulla Provvidenza del Padre Celeste che “nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo” e che è sempre intervenuta al momento opportuno. La contemplazione e la solitudine del monastero, però, non le ha rese mai estranee alla vita del mondo, ma hanno partecipate, attraverso la ruota del monastero e il telefono, alle gioie e alle speranze, alle tristezze e agli affanni delle famiglie o attraverso la lettura del giornale. Hanno aperto prontamente il cuore ad ogni sollecitudine di carità per qualunque realtà più bisognosa dello sguardo amorevole del Signore. In questi ultimi decenni la scarsità di vocazione alla vita claustrale ha fatto si che il numero delle religiose si riducesse di anno in anno, mentre aumentavano quelle inferme e già avanti negli anni. Per questi motivi i Superiori hanno destinato le monache superstiti in altri monasteri. Così Madre Arcangela è partita per il monastero delle cappuccine di Cagliari, suor Teresina e suor Josepha rispettivamente per quello di Brescia e di Oristano. L’augurio è che le cappuccine possano ritornare presto a Sassari e che la comunità sia formata da professe giovani in modo da rivitalizzare la vita fraterna del monastero.
Giancarlo Zichi