L’opinione dello studioso sardo Mauro Maxia sulla lingua sarda nel dibattito sulla “Nuova” tra A. Mastino e G. Angioni
Il nostro collaboratore e amico e studioso Mauro Maxia ha inviato questa lettera al direttore del giornale locale sulla lingua sarda, ignorandolo, ma che noi pubblichiamo perché venga letto da un maggior numero di lettori internauti.
“Al Direttore de La Nuova Sardegna
Egregio Direttore,
vorrei intervenire nella discussione sulla lingua sarda apertasi sul giornale a seguito delle opinioni espresse da Attilio Mastino e Giulio Angioni. Le sarei grato se potesse pubblicare il seguente intervento.
Quando si parla di lingue minoritarie è sempre utile partire dal pensiero di Gramsci, che osservava acutamente che quando si pone il problema della lingua si pone un problema politico. Perciò appare un po’ stucchevole parlare dello strumento, cioè della lingua, piuttosto che del fine che è e resta politico. Chi si batte per la lingua si batte, anche quando non ne ha piena contezza, per un’idea di Sardegna più che per la lingua in sé. Affermare il diritto a usare la lingua sarda equivale ad affermare il diritto a governare l’Isola servendosi di strumenti che, come la lingua, sono una parte costitutiva dell’identità sarda. La lingua, in effetti, non è che una faccia della più vasta e articolata questione rappresentata dalla dipendenza della Sardegna. Da questo punto di vista, il movimento linguistico rappresenta forse la componente più avvertita di un più vasto flusso di idee che ha origine negli anni ’70 del secolo scorso e che da allora mostra una continua crescita sia in termini di consapevolezza sia in termini numerici. Altre componenti del movimento, attratte dai valori fondanti dell’identità sarda, sono impegnate, per esempio, nella valorizzazione dei beni culturali oppure nei gruppi folkloristici che rendono la Sardegna così ricca in termini di partecipazione. In tutti questi casi si tratta quasi sempre di giovani. Dal movimento di idee partito alcune decine di anni fa dalla “riscoperta delle radici” e caratterizzatosi come opposizione alla globalizzazione viene, in effetti, una richiesta di democrazia, che sul piano linguistico si traduce in una spinta ad opporre, o anche ad affiancare in termini di bilinguismo, la lingua tradizionale alla lingua ufficiale. Chi non considera questo fenomeno, ma anche chi non condivide le stesse aspirazioni oppure propugna altri modelli di governo, è portato a schierarsi su posizioni che spesso appaiono conservatrici, talvolta perfino reazionarie. Al movimento linguistico non si può non riconoscere di essere portatore di una istanza e di una proposta. Ed è questa la novità che attrae un numero crescente di giovani sempre più lontani da una politica tradizionale che appare incomprensibile, governata come è da meccanismi di pura autoconservazione, chiusa rispetto al nuovo e ai giovani. Alla ricerca di un modello valido per tutti il movimento linguistico ha sperimentato soluzioni che non sempre trovano un accordo unanime. Ed è qui che hanno buon gioco quelli che da sempre puntano a dividerlo anche con argomentazioni che mostrano sempre più chiaramente una strumentalità di fondo. Mi riferisco ai reiterati tentativi di opporre l’inglese al sardo, come se l’uno dovesse escludere l’altro anziché integrarsi opportunamente nell’ambito di una moderna didattica improntata al confronto piuttosto che all’esclusione. Mi riferisco anche all’idea che ci sarebbero cose più importanti del sardo, in modo particolare la questione dell’occupazione. Ma costoro non sono neanche sfiorati dall’idea che anche la lingua e la cultura sarda rappresentano occasioni di lavoro per una platea di giovani qualificati che possono trovare un’occupazione nell’insegnamento o nella valorizzazione dei beni culturali, compresi quelli immateriali che tanta parte hanno nella tradizione isolana. Nell’armamentario degli oppositori della lingua sarda non manca chi parla di “sardo di plastica” ignorando che proprio l’italiano è una lingua artificiale che non corrisponde ad alcuna località pur avendo alla base l’antico fiorentino, che oggi è però molto diverso dall’italiano scritto e parlato. Altri sono scesi in campo per attuare la vecchia tattica del divide et impera al fine di suscitare frizioni tra sardofoni e corsofoni. Ma senza ottenere risultati perché i galluresi e sassaresi hanno mangiato la foglia, sapendo bene che le uniche tutele per la loro lingua vengono dalla Regione Sardegna, mentre la legge statale (la 482/1999) ignora del tutto il gallurese e il corso. Chi ha altri modelli avanzi altre proposte. Ma nessuno può permettersi di criminalizzare il movimento linguistico parlando di “assassini della lingua” o di “cattivi maestri”. Le responsabilità della crisi del sardo, come è noto, sono da addebitare in massima parte alla miopia della nostra classe politica e a una scuola che ancora oggi discrimina il sardo se è vero che quest’anno in certi istituti oltre l’80% delle famiglie ha richiesto l’insegnamento del sardo ma non riesce ad ottenerlo per mancanza di personale formato. Si può e si deve discutere di tutto. La soluzione, però, non è quella di etichettare negativamente i portatori di proposte quanto quella di continuare a discutere alla ricerca del maggior numero di consensi. Non si deve dimenticare che la lingua italiana si è formata su antichi modelli letterari e le sono occorsi parecchi secoli per affermarsi nelle forme attuali. Per ragioni in parte analoghe lo strumento adottato dalla Regione Sardegna si basa su una varietà che ha espresso dei validi modelli letterari lungo l’arco di almeno tre secoli. Ma nessuno
ha detto che questo modello non possa essere perfezionato o che non si possano scegliere altri modelli. Due sono, comunque, gli aspetti di maggiore rilievo della questione: 1) che ciascuno continui a parlare e trasmettere la propria parlata locale conservando l’odierna ricchezza in termini di varietà linguistiche ; 2) che la lingua di riferimento abbia un modello comune e condiviso, in modo da favorire l’unione e non la frammentazione, né più né meno di quanto avviene per l’italiano. Il confronto, quindi, dovrebbe focalizzarsi su questi aspetti e rifuggire da posizioni partigiane.
Vi è chi propone di usare lo strumento rappresentato dalla lingua italiana per il fatto che essa ormai è usata da tutti, sebbene con livelli di competenza spesso del tutto insufficienti. Addirittura vi è chi parla di assumere a modello l’italiano regionale di Sardegna, una lingua figlia di un’educazione linguistica scellerata che sta determinando l’abbandono del sardo a favore di uno strumento linguistico povero e ancor meno valido di quello che si vorrebbe sostituire. E in questa ottica Angioni richiama l’idea che tutte le lingue sono destinate a morire e a essere sostituite. Non vi è dubbio che questa sia una realtà ineluttabile, del resto testimoniata anche dalla scomparsa del latino che proprio in Sardegna sostituì la lingua dei Sardi antichi. Chi propone questa riflessione, però, non considera che anche l’italiano è destinato a scomparire e i segni del suo declino appaiono sempre più chiari attraverso il massiccio e incontrastato acquisto di termini inglesi. Il rettore Mastino si sofferma sulla ricchezza linguistica del territorio di riferimento e ricorda la tradizione della sua università riguardo all’insegnamento della lingua sarda. Questo era vero in un passato non lontano, quando insieme al sardo si insegnava e si parlavano anche il gallurese e altre varietà. Ma adesso? La difesa della propria lingua e della propria cultura è una manifestazione di aspirazioni democratiche di una parte della popolazione, in gran parte giovanile, che non accetta più modelli, slogan e direttive calati dall’alto attraverso il monolinguismo di stato. La verità è che nella stessa minoranza antisardo che si annida nei salotti buoni vi è una parte che è contraria persino al bilinguismo. Sono frange veterocolonialiste ormai anacronistiche che non s’accorgono che è in atto un new deal culturale e che persino la Galbani ha bandito un concorso nazionale che premia chi sa parlare in “dialetto”. Gli attacchi virulenti contro chi lavora per cambiare una situazione anacronistica mostrano una debolezza di fondo e il fiato corto di chi basa la propria visione della Sardegna su una idea dipendentista che ricorda la celebre “unione perfetta” del 1847. Una idea che appare sempre più debole perché è percepita come semplice conservazione dello statu quo e che non propone nulla di realmente innovativo. Sostenere, come fa Angioni, che le lingue minoritarie stiano arretrando ovunque equivale a una conoscenza superficiale della complessiva realtà di casa nostra dove il gallurese e il tabarkino sono parlati da quasi tutta la popolazione di riferimento, raggiungendo picchi del 90%. Chi è realmente interessato a trovare soluzioni (e l’inchiesta sociolinguistica del 2006 dice che lo sarebbero circa tre sardi su quattro) dovrebbe incanalare il dibattito su forme di reale confronto democratico accettando le scelte maggiormente condivise che ne scaturiscono.”
Mauro Maxia studioso di lingue minoritarie
Commenti
Caro Mauro condivido totalmente le tue considerazioni anche se certe volte scherzo un pò sulla nostra smania di dividerci e di colpirci senza misericordia. La lingua sarda fa parte della nostra identità e va inserita nei circuiti scolastici di ogni ordine e grado. Non è certo plausibile che oggi ci siano molti insegnanti di ogni ordine e grado che oltre a non conoscere la storia della Sardegna né ignorano la lingua e la funzione politica ad essa collegata. Se alle origini della classe studentesca sarda troviamo la smania delle classi dirigenti castigliane di Sassari e di Cagliari ad inserire i loro figli a conclusione degli studi nei ranghi burocratici dell’Impero spagnolo, oggi dobbiamo puntare al recupero della nostra lingua madre e perché no alla nostra completa autonomia politica nel contesto delle nazioni! Spero che i giovani vedano avverarsi questo sogno!
Angelino
Novembre 27th, 2013