Un promemoria per Fiorenzo Toso di Mauro Maxia
“I Sardi e i Corsi sono destinati per la vicinanza, per inclinazione e per gli interessi reciproci a vivere in perfetta corrispondenza”
Pasquale Paoli (Murato di Nebbio, 4.1.1794)
Soltanto ieri ho notato sulla rete Internet un articolo di Fiorenzo Toso (Attualità e destino delle eteroglossie in Sardegna) apparso diversi mesi fa su una rivista specialistica (Bollettino di Studi Sardi, IV- 2011) e, forse per questo motivo, poco nota e ancor meno diffusa tra i non addetti ai lavori. Purtroppo ho scorto con un certo ritardo questo articolo in cui, tra l’altro, si propongono letture del mio pensiero in cui non mi riconosco. Mi chiedevo, a questo proposito, se non sia preferibile, su determinati argomenti di interesse più vasto rispetto a quello dei soli specialisti, pubblicare su riviste che possano raggiungere una più larga platea di lettori, specie su un tema stimolante come può essere quello delle eteroglossie presenti nella nostra isola.
Non entro nel merito dei perché, a livello generale, la situazione linguistica della Sardegna sia quella che possiamo osservare in questo momento storico e non sia un’altra che avrebbe potuto essere. Si tratta di una questione che non si può liquidare in poche battute e per la quale occorrerebbero studi specifici e riflessioni appropriate. Toso propone una sua lettura del fenomeno. Personalmente penso di avere dimostrato attraverso diversi libri che l’immagine di una Sardegna statica e stereotipata risponda più a una visione di tipo romantico (La Sardegna del mito) che alla realtà. La Sardegna, su un piano storico oggettivo, è sempre stata una terra aperta agli influssi esterni e questo aspetto vale anche per il discorso propriamente linguistico, come dimostra la presenza di alloglossie ed eteroglossie in numero persino superiore rispetto ad altre regioni dello stato italiano che, pure, non rappresentano delle isole come nel nostro caso.
Diverso è il caso costituito dall’arretratezza di certi quadri subregionali, il quale andrà spiegato con altri strumenti di indagine. Riguardo a questo fenomeno sono solito proporre una similitudine costituita dal muschio che qui da noi trasforma in massi apparentemente millenari persino le pietre cavate da pochi anni. Non so se questa immagine sia appropriata, però è un fatto che persino un archeologo scambiò per un manufatto “nuragico” una mangiatoia che qualcuno aveva scavato in un masso di trachite solo una trentina di anni prima. In effetti e ad onor del vero, quella mangiatoia, sistemata in un luogo ombroso e ammantata di muschi e licheni, collocata come è tuttora a breve distanza da un nuraghe, avrebbe potuto ingannare chiunque.
Sulla permeabilità linguistica della Sardegna vorrei fare notare che solo per un caso, forse, la nostra isola non ha fatto in tempo ad assorbire un influsso provenzale o forse francese che si sarebbe potuto verificare se, diversamente da come sono andate le cose, Guglielmo III di Narbona non avesse rinunciato al regno che aveva ereditato in Sardegna, lasciando campo libero al dominio e all’influsso linguistico catalano, e successivamente a quello castigliano, che oggi possiamo osservare.
Quindi si deve parlare di una Sardegna aperta, che ha sempre accolto un po’ tutti ed è forse per questo che è generalmente definita terra ospitale e che ha sviluppato un forse senso di tolleranza e accettazione anche verso le espressioni linguistiche di gruppi umani che vi si sono stanziati, non sempre con intenzioni fraterne, provenienti da ciascuno dei quattro punti cardinali.
Vorrei entrare, invece, nel merito di alcune valutazioni che Toso fa sulle varietà sardocorse. Nel parlare del gallurese e del sassarese egli dà quasi per scontate certe acquisizioni (Op. cit. p. 124, nota 7) che, tuttavia, soltanto da poco sono maturate o, addirittura, sono ancora in corso di consolidamento grazie a una serie di studi condotti durante gli ultimi quindici anni attraverso ricerche che non si sono limitate al piano linguistico, ma hanno toccato anche quello propriamente onomastico oltre che quello storico e culturale. Si tratta di ricerche che Toso, pur non citandole in questa occasione, conosce bene avendole ricordate spesso nelle sue opere. Ad esempio, se oggi le opinioni sulla genesi del sassarese espresse da Antonio Sanna soltanto una trentina di anni fa (e ancor prima da Max Leopold Wagner) si possono considerare largamente superate è perché non da molti anni sono usciti dei lavori che hanno dimostrato come al linguista bonorvese e al Wagner siano sfuggiti diversi elementi essenziali per un più corretto inquadramento della complessiva questione (cfr. da ultimo M. Maxia, Studi sardo-corsi. Dialettologia e storia della lingua tra le due isole, Olbia, Taphros 2008, pp. 54-63).
Anche nel caso di Castelsardo bisognerebbe prestare maggiore attenzione al fatto che l’etnia corsa, pur essendosi rafforzata agli inizi dell’età moderna, fin dal 1321 era maggioritaria rispetto agli elementi sardo e ligure (M. Maxia, I Corsi in Sardegna, Edizioni Della Torre 2006, pp. 125-132 e Studi sardo-corsi cit., p. 91). Si tratta di un aspetto che non può andare disgiunto dal discorso propriamente linguistico.
Dal punto di vista sincronico per le sue considerazioni Toso si appoggia largamente sui risultati di una ormai nota ricerca sociolinguistica del 2006 che sul piano interpretativo è all’origine di non poche polemiche (cfr., a cura di A. Oppo e Altri, Le lingue dei sardi. Una ricerca sociolinguistica, Cagliari 2006). Il linguista ligure, da parte sua, giudica “puntuali” i dati della ricerca in questione. In realtà, ci troviamo di fronte a un lavoro con diverse lacune che ne inficiano, almeno in parte, le conclusioni e che, purtroppo, risulta inattendibile proprio in relazione alle eteroglossie, con particolare riguardo al gallurese e al sassarese (cfr. M. Maxia, Sos ispecialistas istùdien: sa limba est de chie la faeddat, in “Làcanas”, IX, n. 53,VI 2011). Sulla situazione del sassarese, Toso avrebbe potuto consultare i dati emersi da una più aggiornata inchiesta sociolinguistica presentata alla Conferenza annuale della lingua sarda del 2008 e i cui risultati sono disponibili da un paio d’anni (cfr. M. Maxia, La situazione sociolinguistica della Sardegna settentrionale, in Sa Diversidade de sas Limbas in Europa, Itàlia e Sardigna, Regione Autònoma de Sardigna, Bilartzi 2010, pp. 73-75).
Tra altre considerazioni Toso afferma che “il sardo sta perdendo terreno nello stesso centro urbano di Olbia”. Sarebbe interessante conoscere le fonti da cui Toso trae questa convinzione. Il caso di Olbia, per il vero, è uno di quelli che fanno scuola e andrebbe monitorato con grande attenzione poiché mostra una resistenza del sardo così marcata da rappresentare una controtendenza rispetto a un quadro generale che lo vede in regresso. Nel caso in questione la resistenza del sardo sembrerebbe da attribuire proprio alla presenza del gallurese e alle sue dinamiche di autoconservazione che, oltre che essere degne di studi approfonditi, sono diventate patrimonio anche della componente sardofona di questa città che, giova ribadirlo, risulta maggioritaria rispetto all’elemento corsofono durante un arco di tempo che, sulla base dei dati reperiti, si può fare risalire fino al Trecento (cfr. Maxia, I Corsi in Sardegna cit., pp. 149-150). Di questo fenomeno, che si può osservare anche a Perfugas e lungo la linea di contatto tra Padru e Budoni, ho riferito in una pubblicazione (M. Maxia, Lingua Limba Linga. Indagine sull’uso dei codici linguistici in tre comuni della Sardegna settentrionale, Cagliari, Condaghes 2006, p. 32, nota 28) che, pur citata da Toso nel suo articolo, è stata fraintesa dal momento che egli attribuisce alla mia ricerca la constatazione di un regresso della sardofonia in località in cui si verifica il contatto tra le due varietà. In realtà dalla mia ricerca emerge il contrario. Infatti, nel caso di Perfugas – cioè di una comunità in cui il sardo e il gallurese sono usati dalla popolazione, rispettivamente, urbana e rurale – anche nella popolazione giovanile si osserva una tenuta del sardo più marcata rispetto, per esempio, al non lontano centro di Laerru dove, viceversa, non vi è contatto tra la locale parlata logudorese e il gallurese e non vi è neppure (nell’anno scolastico 2000-01, n.d.a.) alcun ragazzo che usi il sardo come prima lingua. Su questo aspetto si vedano anche i risultati esposti in La situazione sociolinguistica della Sardegna settentrionale cit., pp. 70-71 che Toso non ha preso in esame.
Dunque, in sincronia il gallurese sembra rappresentare, curiosamente, un fattore di tenuta del sardo nelle località in cui si verifica il contatto tra le due varietà linguistiche anche se, in tempi dilatati, il primo tenderebbe a prevalere sul secondo. D’altra parte l’isola linguistica logudorese di Luras costituisce, sempre in sincronia, un esempio eloquente del fenomeno. Ma credo anche di avere dato prova, attraverso una serie di dati storici, che in passato si sono verificati dei casi in cui il gallurese ha ceduto di fronte al logudorese, per esempio a Osilo, Nulvi e Ozieri (I Corsi in Sardegna cit, pp. 197-204; 207-216). Si deve riconoscere, allora, che accanto a una certa tendenza di carattere generale esistono casi di resistenza di diverso grado e, addirittura, casi di recupero del logudorese in contesti urbani e periurbani di Sassari che, almeno in teoria, spetterebbero al dominio corsofono. Vi sono persino dei casi, per esempio a Perfugas, che vedono il ritorno all’uso del sardo nella generazione compresa tra i 20 e i 35 anni che, pure, è stata quasi interamente educata in italiano. Di questo fenomeno inedito ho già riferito in La situazione sociolinguistica della Sardegna settentrionale cit. e mi riprometto di analizzarlo con strumenti scientifici che diano esattamente conto delle relative motivazioni e dei profili quantitativi anche al fine di misurarne l’incidenza sulla complessiva utenza locale.
Toso si mostra poco attento quando, definendomi “sostenitore nell’ambiente della militanza linguistica sarda” mi attribuisce la “singolare ipotesi di una ‘tutela’ del gallurese da praticarsi attraverso la negazione del suo carattere alloglotto…valorizzando tutto ciò che lo accomuna al sardo”. Lo studioso ligure dovrebbe sapere che, oltre a sostenere le ragioni del sardo, sono anche tra i maggiori sostenitori delle ragioni delle varietà di origine corsa (cfr. La situazione sociolinguistica della Sardegna settentrionale cit., p. 77) come, del resto, dimostrano decine di libri e saggi pubblicati su questo argomento in circa venti anni di studio. Si tratta di semplice coerenza con le mie origini che, oltre che sarde, sono anche corse. Se vigesse il sistema matrilineare il mio cognome sarebbe Cossu, per l’appunto.
Lo spirito, stavolta realmente di militante, che Toso sfoggia nella difesa del tabarchino (varietà che apprezzo molto e che addito come esempio virtuoso ai sardofoni) gli fa sfuggire che nell’occasione da lui citata si stava semplicemente parlando di come accedere alle risorse della legge 482 e che a nessuno è stato mai chiesto di rinnegare alcunché. Ai galluresi – e lo so per certo perché si tratta di una posizione espressa pubblicamente dalla Consulta Gallurese in occasione di un convegno tenutosi ad Arzachena il 25 novembre 2011 e al quale ho partecipato come relatore invitato dalla medesima Consulta – interessa, ancora prima dell’insegnamento della loro varietà linguistica a scuola, avere accesso ai fondi della legge in questione.
Una soluzione, ricordata proprio da Toso e che non è stata certo scoperta da me, è quella stessa che sta alla base del saggio compromesso che ha ispirato la legge regionale n. 26 del 1997. Naturalmente un elementare principio democratico prevede che, accanto ai diritti delle minoranze, siano riconosciuti quelli delle maggioranze. Pure di questo ho parlato con schiettezza, oltre che nei miei libri, anche attraverso interventi sulla stampa quotidiana nei quali ho criticato gli atteggiamenti sciovinisti e prevaricatori di qualche rappresentante delle minoranze in questione. È vero che la nostra normativa regionale in materia linguistica è perfettibile – io stesso ho fornito dei pareri alle autorità galluresi che si sono incaricate di chiederne una parziale revisione – ma non si può certo disconoscerne i pregi, tanto che in molti le riconoscono un impianto normativo più avanzato ed efficace della normativa statale intervenuta due anni dopo. Non a caso questa legge tutela anche le piccole comunità ligurofone di Carloforte e Calasetta secondo lo spirito di coloro che l’hanno promossa, tra i quali, forse immodestamente, mi considero anch’io per il fatto che, pur essendo allora piuttosto giovane, contribuii alla diffusione delle idee e alla raccolta delle firme che sostennero la prima proposta di legge di iniziativa popolare presentata oltre trenta anni fa. Vorrei ricordare anche che tra i politici firmatari della legge che infine ne è scaturita (l.r. n. 26/1997) è proprio un mio compaesano corsofono sensibile all’argomento (il prof. Luca Deiana, n.d.a.). Per una corretta interpretazione del mio pensiero e per una oggettiva valutazione del mio contributo alla complessiva questione si dovrebbe evitare di isolare singole frasi dal discorso generale. A questo scopo sarebbe sufficiente leggere il sunto che si trova nella 4^ di copertina dei miei Studi sardo-corsi, cit.
Lo studioso ligure, infine, si sofferma sulla possibilità che, essendo il corso una lingua “opportunamente tutelata in Francia” le varietà sardocorse potrebbero essere valorizzate “attraverso l’attivazione di canali di collaborazione transfrontaliera con la Corsica”. Intanto bisogna vedere quale sia il livello di effettiva tutela offerto dalla Francia, dal momento che non sono molti in Corsica ad essere soddisfatti del tipo di insegnamento praticato nelle scuole (cfr. J. Chiorboli, Corse et Sardaigne : Les langues non plus ne s’arrêtent pas aux frontières, in http://www.corsenetinfos.fr/in-lingua-corsa/). In ogni caso, si tratta di una soluzione che è ben presente a chi si occupa della questione; infatti non manco mai di ricordare ai corsofoni, magari con un tono un po’ scherzoso, che il loro idioma, dato che è parlato in due diversi stati (Francia e Italia), potrebbe ambire addirittura allo status di lingua internazionale. Di questa opzione si è discusso anche nella seduta della Commissione Cultura della Provincia di Olbia-Tempio tenutasi a Olbia il 26 gennaio 2012, alla quale fui invitato come esperto. Occorre dire, tuttavia, che a chi conosce i meccanismi della politica italiana non sfuggono le oggettive difficoltà che si frapporrebbero nel percorrere questa seconda via. Che il corso sia tutelato in Francia è nelle cose, trattandosi realmente di un gruppo linguistico minoritario in quella situazione. Ma lo stato italiano, per il solo fatto che è uno degli stati più accentratori in tema di politica linguistica, assai difficilmente potrebbe riconoscere lo status di minoranza linguistica al corso e, di riflesso, al gallurese. Così facendo dovrebbe riconoscere le stesse tutele a tutta una serie di prestigiose lingue regionali storiche (siciliano, veneto, piemontese, romanesco, napoletano ecc.) la cui valorizzazione potrebbe arrivare a mettere in dubbio la supremazia dell’italiano, aprendo la stura a una serie di rivendicazioni mai sopite (mi riferisco specialmente alle Venezie) che potrebbero mettere in discussione la tenuta della stessa istituzione statuale.
Si tratta, come si vede, di argomenti complessi e delicati che, come avvertii già quattro anni fa (cfr. La situazione sociolinguistica della Sardegna settentrionale cit., p. 77) richiedono un approccio meditato e pacato al quale tutte le parti coinvolte nella discussione dovrebbero offrire il proprio contributo evitando forzature e fughe in avanti, anzi cercando di individuare con spirito costruttivo le soluzioni più adatte e tenendo d’occhio sia le situazioni generali sia i contesti specifici.