Sardegna di mano in mano (1700-1720) di Cristiano Sabino a contivizu de Domitilla Mannu (Italiano, Sardo)
Su richiesta di Domitilla Mannu pubblichiamo questa relazione di un esponente A Manca Pro s’Indipendentzia de sa Sardigna, di un professore manualista di Filosofia (non ci risultano opere scritte né di Filosofia né di Storia). Non ne condividiamo né l’analisi storica né le conclusioni, a parte il discorso sulla riduzione delle zone militari nell’isola. I sardisti dal primo dopoguerra si sono divisi in mille rivoli tra fazioni moderate e fazioni estremiste. Avremmo voluto un discorso documentato e non una forma di comizio. Lo consideriamo un cahier de doleance in cui ognuno risponde per sé senza coinvolgere l’impostazione culturale del blog. Angelino Tedde
Custa relata de su prof. Cristianu Sabino est parte de sos atos de sa Cunferèntzia, titulada ” Sa Sardigna dae manu in manu” ammanizada,in Tàtari, cun s’amparu de s’assessoradu a sa cultura de sa Regione, dae s’Assòtziu Culturale ” Pro no ismentigare” su 27 de maju de su 2011, pro afestare ” Sa die de sa Sardigna. Sa parte in sardu est istada bortada, cun su contivizu de s’Assòtziu.
Il mio intervento tratta del destino della Sardegna, che pare sia quello di passare di mano in mano, senza un suo percorso autonomo, autodeterminato e sovrano, infatti si parla sempre di una storia aggettivata, una storia in cui si parla di Sardegna romana, Sardegna bizantina, Sardegna aragonese, Sardegna spagnola, Sardegna austriaca, Sardegna piemontese, Sardegna italiana; ma mai di una Sardegna sarda, sembra una maledizione, un crudo destino del nostro popolo. Io, come filosofo della storia, vedo la realtà da una prospettiva diversa di quella di uno storico e mi rifaccio a quanto diceva il filosofo Benedetto Croce, che “Ogni storia è sempre storia contemporanea”, questo significa che noi nella storia cerchiamo sempre noi stessi, quando andiamo a cercare una storia nel passato cerchiamo sempre il nostro presente, non cerchiamo mai un passato staccato da noi. Per questo, se nel corso di questa mia breve relazione, vi sembrerà di aver già sentito parlare delle cose di cui sto trattando e di una straordinaria somiglianza con la Sardegna di oggi, credo sia il frutto di un “errore della mente” perché oggi la Sardegna, appunto, vive una sua totale libertà, vive una sua totale sovranità, vive una sua totale identità. Le classi dirigenti sarde sono totalmente autonome nelle loro decisioni, e quindi finalmente il nostro è un popolo libero. Ma se ancora i conti non vi tornano, se non credete che il popolo sardo sia in effetti libero e sovrano, allora chiedetevi perché e interrogatevi sulle ragioni storiche che ci hanno portato a questo.
Per capire meglio l’epoca storica a cui facciamo riferimento (1700/1720) dobbiamo fare un passo indietro e vedere gli antefatti. Nel 1294 Papa Bonifacio VIII aveva istituto il regno di Sardegna e Corsica e scritto una “licentia invadendi”, cioè una licenza di invadere, chiamando il Re d’Aragona Giacomo II a prendere possesso dell’isola. Ma la Sardegna non era una landa disabitata. Vi avevano interessi commerciali i pisani, i Doria e i Malaspina e soprattutto vi abitavano i sardi riuniti sotto l’istituzione del Giudicato d’Arborea, che aveva cercato di unificare tutta l’isola sotto un’unica bandiera, assumendo, così, il ruolo di baluardo di difesa dell’intera isola. Mentre la Corsica veniva conquistata nel 1299 dai genovesi, che vi insediavano un duro regime coloniale destinato a durare fino al Settecento, gli aragonesi ingaggiavano una lunga guerra di conquista contro i sardi destinata a durare, a vicende alterne, fino al 17 agosto 1420, quando Alfonso II di Sardegna, ovvero d’Aragona, detto il Magnanimo, risolse il problema acquistando per 100.000 fiorini d’oro le prerogative sovrane dell’ultimo Re di Arborea Guglielmo I, visconte di Narbona, sconfitto, precedentemente, nella battaglia di Sanluri del 1409. Il Regno d’Aragona si annetteva così la corona sarda a discapito della libertà dei sardi e dopo pochi anni, con l’unificazione del regno di Spagna, la Sardegna diventava spagnola.
Per l’argomento che toccherò riporterò la tesi di uno storico sardo, forse il più conosciuto, Francesco Cesare Casula. Nel suo ultimo libro “L’Italia, il grande inganno” afferma che lo Stato Italiano nasce in una tenda d’assedio, vicino a Cagliari, tra nemici pisani e arborensi, il 19 giugno 1324. Qui nasce lo stato che poi diventerà piano piano Regno di Sardegna, e poi monarchia sabauda, Repubblica Italiana, volendo dimostrare che la Sardegna sia la culla dell’Italia.
Passerò ora alla fine del Seicento che corrisponde alla fine del “siglo de oro”, cioè del secolo d’oro del dominio Spagnolo, quando la Sardegna faceva parte, a tutti gli effetti, della Corona Spagnola. Infatti, la Sardegna non era una colonia spagnola, ma un’entità statale distinta in seno alla Corona, al pari dei regni di Aragona, di Castiglia, al pari delle altre corone spagnole. Questo perché c’era stata la concessione di Bonifacio VIII (licentia invadendi), come già detto. Per questo motivo la Sardegna era un regno a sé e come tale era sede di un Parlamento, che era una periodica assemblea rappresentativa dei tre ordini sociali, o stamenti, costituiti da feudatari, ecclesiastici e cittadini delle città regie, in questo simile ai tre ordini degli Stati Generali presenti in Francia fino alla Rivoluzione Francese.
Stiamo parlando di un parlamento cetuale, cioè di una rappresentanza dei ceti aristocratici e nobiliari, e di cittadini, che pur senza potere deliberativo o consultivo, ma solo proponente, cooperavano con il monarca al governo dello stato ed all’attività legislativa, dandogli consigli, assensi e aiuti finanziari tramite un sussidio chiamato donativo. I donativi erano le finanze che il Parlamento erogava al sovrano per avere protezione e per altri servizi, o anche per contribuire a guerre, matrimoni regali, ecc. un po’ come la “finanziaria” di oggi . Quindi tecnicamente, anche se la storiografia ha sempre, giustamente, sostenuto la condizione della Sardegna come coloniale sotto la Corona spagnola, bisogna stare bene attenti perchè allora la condizione della Sardegna non era coloniale, giacché faceva parte a tutti gli effetti della Corona di Spagna.
Infatti, Cesare Casula, forte di questo fatto, dice in maniera chiara che è stata sempre colpa dei sardi la loro povertà e della loro incapacità di spiccare il volo per determinare una crescita sociale e civile ed economica. Questo tipo di impostazione, che secondo me riflette un pregiudizio di tipo autocolonialistico, tiene conto solo degli aspetti giuridici del rapporto tra Sardegna e dominatori, che via via si sono avvicendati, e non tiene conto degli aspetti reali, materiali, economici, civili e politici. Siccome il Regno della Sardegna non era una colonia della Spagna ma una unità statale distinta in seno alla Corona, con proprio bilancio e proprio governo, le tristi condizioni socio economiche dell’Isola non si possono imputare semplicisticamente al depauperamento delle risorse locali da parte di Madrid, che dai Parlamenti sardi esigeva soltanto qualche sussidio straordinario per matrimoni reali o guerre generali, ma piuttosto, alla sua scarsa produttività interna. Quindi la tesi di Casula fondamentalmente è chiara: la Sardegna non era una colonia, ma un petalo della Corona di Spagna.
In realtà non sappiamo se dal punto di vista giuridico dobbiamo dare ragione a Casula, sappiamo bene che le cose nei fatti erano ben diverse. La società sarda in epoca spagnola era precipitata notevolmente rispetto all’epoca giudicale, erano state abbandonate le strade giudicali, che erano un fiore all’occhiello, con conseguente crisi delle attività commerciali, aveva subito la decadenza dell’impero spagnolo, una decadenza lunghissima che porterà l’impero a collassare su se stesso fino all’estinzione. La società sarda era completamente statica e rigida, e inceppata, sia in città che in campagna, e soprattutto era una società imbrigliata in un arcaico sistema feudale imposto dall’esterno (dagli Aragonesi), che i Piemontesi cercarono di mantenere artificiosamente fino al 1838. In Sardegna non c’era il Feudalesimo del tipo continentale europeo, c’era un regime economico molto diverso basato su altri presupposti.
E’ importante capire come erano articolate le classi dirigenti sarde a fine del 1600. Vi era il partito, così detto “degli impieghi”, che mirava a far ottenere ai sardi gli impieghi statali ad eccezione della carica di vicerè. Si calcola che nel 1710 la richiesta di impieghi in Sardegna l’avessero fatta almeno 400 nobili, quindi si tratta di nobiltà parassitaria, ciòé una nobiltà che vive aspettando di avere un impiego. Capo del partito “degli impieghi filo-sardo” era il marchese Leonardo Alagon., infatti quando a cinquant’anni dall’annessione scoppiò la rivolta egli capeggiò il dissenso della parte più illuminata delle classi dirigenti sarde contro il potere centrale: la “questione degli impieghi” appunto. Alagon era un nobile di origini aragonesi ormai sardizzato, che ricompattò intorno alla protesta degli impieghi un fronte esplicitamente orientato a ricostruire le libertà giudicali perdute. Il Re Giovanni II comprese il pericolo rappresentato dalla rivolta indipendentista di Alagon, raccolse un potente esercito in aiuto del suo Viceré e sconfisse le truppe sarde insorte. Alagon tentò la fuga, ma venne catturato nel 1477 e recluso a vita nella torre prigione di Valenza.
Le lunghe guerre coloniali, la rivolta di Alagon e soprattutto il pesante sistema feudale imposto dalla corona alla realtà produttiva sarda misero in ginocchio l’economia isolana e fecero dimenticare ogni velleità di cambiamento per molti anni a venire. Il Cinquecento e buona parte del Seicento scorsero stancamente in un’isola depauperata dalle risorse fondamentali e messa in ginocchio da un sistema produttivo e fiscale che impediva ogni miglioramento e che teneva a freno il protagonismo di nuove classi sociali. In questo scenario a fine Seicento, in una Spagna fortemente in crisi, si determinò la crisi Camarassa.
Il 1665 era salito al trono di Spagna Carlo II. Si trattava di un bambino malaticcio e rachitico di appena 4 anni sotto la tutela dell’inabile madre Marianna d’Austria. A causa del suo stato di salute era soprannominato “lo stregato”. Sotto il suo regno si consumava in Sardegna la “crisi Camarassa” che riproponeva, in maniera tragica, la vertenza sugli impieghi e lo scontro interno della classe dirigente sarda. La sera del 20 giugno, su probabile istigazione del viceré Manuel de los Cobos, marchese di Camarassa, fu assassinato a Cagliari Agostino di Castelvì, marchese di Laconi, primavoce dello Stamento feudale del parlamento del 1665.
Laconi, da tempo, conduceva una battaglia antigovernativa per la concessione delle alte cariche istituzionali (viceré, reggente la Cancelleria, arcivescovado di Cagliari e Vescovo di Alghero) in favore dei nobili dell’isola riproponendo, in versione spoliticizzata, le vecchie rivendicazioni di Alagon. Il pacchetto delle richieste stamentarie non era particolarmente radicale: gli Stamenti (il Parlamento sardo medievale), composti di piccola nobiltà affamati di impieghi, chiedevano la conferma di tutti i precedenti privilegi, l’esclusiva di tutti gli uffici sia ecclesiastici che secolari, il diritto delle città di esportare il grano vecchio ancora prima di avere immagazzinato quello nuovo. Si trattava di richieste che oscillavano tra il piano giuridico e quello economico senza mettere in discussione la sudditanza dell’isola al dominio iberico. Ma veniva alla luce lo scontro di prospettive interno alle classi dirigenti sarde: da una parte la componente fedele allo stato centrale, dall’altro un desiderio di autonomia e protagonismo. Lo scontro finì male: Laconi venne ucciso e i suoi partigiani si vendicarono eliminando il Viceré marchese di Camarassa.
Madrid temeva che questi avvenimenti delittuosi potessero innescare una rivolta popolare antispagnola e decise di nascondere il vero movente degli omicidi. Le carte ufficiali additarono la responsabilità degli omicidi alla tresca amorosa della moglie del marchese di Laconi con l’aitante e giovane cugino e tutto venne insabbiato, comprese le rivendicazioni di cui si era fatto portavoce il Laconi. Le classi dirigenti sarde confermavano la loro tendenza alla rinuncia delle proprie istanze davanti alla necessità dello scontro con il potere centrale e l’incapacità di assumersi in pieno le proprie responsabilità e porsi così a tutti gli effetti come classe dirigente nazionale. La crisi Camarassa terminava così con una restaurazione in senso centralistico, senza neppure l’accenno di uno scontro. La reggenza veniva assunta dal governatore di Cagliari, Bernardino Cervallon e le rivendicazioni stamentarie si erano totalmente arenate. Su questo interviene Bruno Anatra che riassume sinteticamente l’inettitudine al cambiamento delle classi dirigenti sarde:
« In un tale frangente i ceti solo sotto profilo retorico-formale (se non meramente strumentale) si richiamarono alla generalità degli interessi regionali, nei fatti non pervengono nemmeno a ipotizzare la gestione diretta dei propri. Quando si giunse allo scontro e una volta delineatasi la repressione questo complesso fronte si dileguò come neve al sole. Del resto era la stessa maggioranza cetuale che riconduceva continuamente le proprie posizioni entro le forme tradizionali e vigenti della legalità politica. Non metteva in discussione, nemmeno dopo essersi posta al di fuori della legalità, il lealismo dinastico»
La crisi Camarassa, invece di sfociare in una occasione di protagonismo per le classi dirigenti sarde (come avveniva in Catalogna), determinava la decadenza del ceto baronale sardo e segnalava il fatto che l’isola era in effetti sprovvista di una guida autonoma; triste realtà che nel giro di pochi anni sarebbe stata confermata dall’assoluta passività della classe dirigente sarda all’epoca delle continue cessioni dell’isola tra uno stato ed un’altro, tra una guerra e un’altra. I dirigenti sardi non aspiravano in effetti a recuperare uno spazio contrattuale con il centro, bensì a lenire la fame ossessiva di impieghi.
Sono gli anni della controriforma, sono gli anni della religiosità popolare, sono gli anni della crisi della Spagna, siamo negli anni in cui viene bloccata completamente l’economia della Sardegna anche attraverso provvedimenti di cui non ho tempo di parlare.
Arriviamo al 1700, quando muore Carlo II, “il gracile”, come veniva chiamato, senza figli, un re bambino, che viveva all’ombra di sua madre, e degli intrighi di corte, muore a 39 anni e lascia come suo unico erede l’adolescente Filippo di Borbone, duca d’Angiò, nipote diretto di sua sorella Maria Teresa d’Austria, sposata con Luigi XIV di Francia. Si veniva a creare così un asse inedito tra Spagna e Francia, da sempre nemiche giurate. Le altre potenze europee non potevano tollerare un’eventuale unione di Spagna e Francia sotto un unico Re, cosa che avrebbe creato un notevole disequilibrio negli assetti diplomatici del vecchio continente. Inghilterra, Austria e Olanda contestarono il testamento e appoggiarono le pretese di Carlo d’Asburgo, arciduca d’Austria, figlio dell’imperatore Leopoldo I, un tempo sposato con un’altra sorella di Carlo II. L’incoronazione di Filippo di Borbone, nel 1701, fu praticamente una dichiarazione di guerra, la guerra di successione. Una guerra che sancirà la fine della sovranità spagnola e che stabilirà, nel nostro piccolo, il passaggio di mano in mano, prima agli Austriaci (13 agosto 1708-22 agosto 1717) poi agli Spagnoli ( 29 agosto 1717 – 2 agosto 1718); poi di nuovo agli Austriaci, con il Trattato di Londra (2 agosto 1718), nel quale gli Alleati stabilirono di restituire la Sardegna all’imperatore Carlo VI d’Austria, che poi la cederà a Vittorio Amedeo II, principe di Piemonte e duca di Savoia. Così il 4 agosto 1720 Vittorio Amedeo II diventerà re di Sardegna.
Analizziamo più dettagliatamente i fatti: la Sardegna visse poco la guerra perché gli alleati, cioè gli antispagnoli e antifrancesi, crearono un blocco navale, per impedire che il nemico si potesse impossessare di un’isola di grande importanza strategica come punto di partenza per elaborare nuovi attacchi. Anche i catalani si impegnarono a dare un appoggio a Carlo d’Asburgo perché pensavano di avere maggiore libertà, ma alla fine si giunse ad un compromesso, la pace di Utrecht (1713) e Rastadt (1714).
Gli alleati vincevano ma non sfondavano. Oltretutto il fine delle potenze alleate non era quello di mettere in ginocchio il colosso spagnolo, ma di impedire che si formasse un asse con la Francia. Si arrivò così alle paci di Utrecht e Rastadt che riconoscevano a Filippo V la sovranità di Spagna e delle Indie in cambio della cessione del Regno di Sicilia ai duchi di Savoia e di Gibilterra agli inglesi. Filippo V era pertanto riconosciuto sovrano di Spagna, ma con l’obbligo di rinunciare alla Francia e alle sue pretese espansionistiche in Europa. Carlo VI avrebbe ottenuto la Sardegna, il Regno di Napoli, il Ducato di Milano e i Paesi Bassi ex-spagnoli. Il Duca di Savoia, schieratosi all’ultimo minuto con gli alleati, avrebbe ottenuto la Sicilia e quindi il titolo di Re. Le paci di Utrecht e Rastadt sancivano il passaggio definitivo della Sardegna agli austriaci e quindi la fuoriuscita del regno sardo dalla corona spagnola. Ma le cose per la nostra isola erano destinate a cambiare nel volgere di poco tempo.
Il 16 agosto 1708 fu nominato viceré asburgico Fernando de Silva. Preso possesso di tutte le chiavi del regno, De Silva impose nuove tasse per mantenere l’esercito, per rifornire di cereali Barcellona ancora non riconquistata dagli spagnoli, per contribuire alle spese matrimoniali del re con la principessa Isabella di Brunswick. Negli anni della dominazione austriaca (1708-1717) le condizioni delle classi popolari e produttive sarde poterono soltanto peggiorare. Gli austriaci introdussero il sistema degli appalti nella riscossione fiscale. Per lo stato era un sistema sbrigativo di incamerare il gettito fiscale, per le ville isolane si trattava invece di un raket legalizzato dato che gli esattori erano vessatori, che ovviamente lucravano enormemente sopra le tasse riscosse. Ma il provvedimento, in assoluto più dannoso per la crescita dell’economia isolana da parte del governo imperiale, che pose in atto un vero e proprio sistema coloniale, fu l’introduzione della gabella del tabacco. La coltivazione del tabacco era stata introdotta dagli spagnoli e aveva arricchito numerosi piccoli produttori privati, in gran parte sardi e soprattutto nei dintorni di Sassari. Nell’agosto del 1714 il viceré Atalaya introdusse la gabella assoggettandola a monopolio di stato. Veniva creata così una regia azienda del Tabacco con cui il governo riservava a sé il diritto di produrre e commerciare tabacco. Tutto veniva centralizzato ad Alghero in un deposito chiamato “estanco” o “stancu”. Una delle poche attività produttive sarde veniva così sottratta ai sardi. Da allora, ancora oggi, il tabacchino viene chiamato in sardo “istangu”.
Subito dopo la firma della pace che chiudeva la prima fase della guerra di Successione, il cinquantenne cardinale Alberoni scrive al papa Clemente XI illustrandogli le motivazioni per cui la Sardegna costituiva un obiettivo militare irrinunciabile e spiegando perché si stava preparando una spedizione per riconquistare l’isola:
«partirà la squadra navale il 17 del corrente mese dal porto di Barcellona e andrà a la conquista dell’isola di Sardegna come la più facile da conservarsi, unico motivo che ha dissuaso quella del regno di Napoli».
La flotta spagnola arriva a Cagliari il 22 agosto 1716. Gli 8000 fanti e i 600 cavalieri sbarcati si attestano a Monte Urpinu e iniziano a cannoneggiare la città. Malgrado i proclami bellicosi del Viceré asburgico Antonio de Rubì, il 29 agosto la città apre le porte agli spagnoli. La Sardegna ridiventava spagnola con un colpo di mano! La Sardegna non era il vero obiettivo della spedizione spagnola, ma solo la base per la riconquista del regno di Napoli e della Sicilia. Per questo motivo l’isola dovette sopportare il peso dell’alloggiamento di truppe spagnole e di un corpo di spedizione che doveva salpare per la Sicilia (20000 uomini) a cui veniva permesso di depredare la popolazione sarda. Gli spagnoli inoltre non si comportarono minimamente da liberatori di una terra che era stata spagnola a tutti gli effetti per centinaia di anni, ma da perfetti occupanti stranieri. Alberoni lasciava inalterata la pressione fiscale introdotta dagli austriaci. Anzi gli spagnoli introdussero nuove tasse come la carta bollata negli atti pubblici e in quelli notarili (fino ad allora completamente sconosciuta ai sardi) e aumentarono il prezzo del sale.
L’atto di forza spagnolo convinse le potenze europee che era necessario aggiustare il quadro geo-politico uscito da Utrecht. Stretta frettolosamente una nuova alleanza militare: Inghilterra, Olanda, Prussia e Austria il 2 agosto del 1718 stabilirono a Londra di restituire il regno di Sardegna all’imperatore Carlo VI d’Austria. Però, al fine di tenere unito il regno di Sicilia con il Napoletano (già possesso degli Asburgo), decisero di scambiare il Regno di Sardegna con quello di Sicilia. In pratica in questa data (2 agosto 1718) gli alleati antispagnoli decidono di assegnare la Sardegna al duca di Savoia Amedeo II. Il trattato di Londra fu firmato malgrado le proteste della Santa Sede che nel lontano 1297 aveva dichiarato inalienabile questo regno da essa istituito e nonostante l’insoddisfazione di Vittorio Amedeo II, che si vedeva assegnare in dote un’isola povera e malarica al posto della ricca Sicilia. La guerra che ne seguì fu disastrosa per la Spagna. Battuta militarmente la Spagna non poteva che firmare il trattato di pace e cedere le due isole mediterranee agli alleati. Il Mediterraneo non era più un lago spagnolo.
Il 4 agosto 1720, a Cagliari, il viceré spagnolo don Gonzalo Chacòn cedeva il regno di Sardegna a don Giuseppe de Medici, principe di Ottajano, plenipotenziario austriaco. Seguirono tre giorni di festa per la riconosciuta sovranità austriaca sull’isola. Dopo la partenza delle truppe spagnole il principe Ottajano faceva a sua volta solenne atto di cessione dell’isola nelle mani del plenipotenziario di Vittorio Amedeo II, il generale Luigi Desportes, signore di Coinsin, il quale consegnò il regno nelle mani di Vittorio Amedeo II, principe di Piemonte e duca di Savoia e ora Re di Sardegna. Un ufficiale della flotta inglese il 16 luglio dello stesso anno portava il primo viceré sabaudo Filippo Guglielmo Pallavicino, barone di Sant Remy, da Palermo a Cagliari. Il barone osservava nel suo diario che «la Sardegna non presenta quasi nessun altro vantaggio per il principe che quello di procurargli il titolo di Re.
SA SARDIGNA DAE MANU IN MANU
(1700 – 1720)
Prof. Cristiano Sabino
Su chi apo a narrer riguardat su distinu de sa Sardigna, chi paret siat cussu de passare dae manu in manu, chentza unu caminu autonomu sou, cherfidu dae a issa e soberanu, difatis si faeddat semper de un’istoria aparalumenada, un’istoria in sa cale si faeddat de Sardigna “romana”, Sardigna “bizantina”. Sardigna “aragonesa”, Sardigna”ispagnola”, Sardigna “austriaca”, Sardigna “piemontesa”, Sardigna “italiana”; ma mai de una Sardigna sarda, paret una malediscione, una mala sorte assignada a su populu nostru. Deo, comente filosofu de istoria, bido sa realtade dae una prospetiva diferente de.i cussa de un’istudiosu de istoria e ando a su chi naraiat su pensadore Benedetto Croce chi “Onzi istoria est semper istoria contemporanea”. Custu significat chi nois in s’istoria chircamus semper a nois matessi, cando andamus a chircare un’istoria de su passadu chircamus semper su tempus nostru presente, non chircamus mai unu passadu distacadu dae a nois. Duncas, si in custa arrejonada mia bos at a parrer de aer già intesu sas cosas chi apo a narrer, pro un’istraordinariu assimizu cun sa Sardigna de oe, creo chi siat ebbia frutu de “errantzia de sa mente”, dadu chi oe sa Sardigna vivet libera in su totu, vivet in su totu soberana, vivet una identidade sua cumpreta. Sas classes dirigentes sardas, in sas detzisiones issoro, sunt autonomas in su totu, e duncas su populu nostru est unu populu liberu. Ma si ancora sos contos non bos torrant, si non creides chi su populu sardu siat deabberu liberu e soberanu, tando dimandadebos proite e preguntadebos subra sos mutivos istoricos chi nos ant batidu a.i custu puntu.
Pro cumprender mezus su periudu istoricu a su cale nos riferimus (1700-1720) devimus torrare indasegus e abbaidare a su chi est capitadu innanti. In su 1294 su Paba Bonifacio VIII, aiat istituidu su regnu de Sardigna e Corsica e iscritu una “licentia invadendi”, est a narrer chi at dadu sa libertade de s’apoderare de sa terra, giamende su re de Aragona Giacomo II a leare possessu de s’Isula. Ma sa Sardigna non fit una terra ispopulada. Bi teniant interessos cummerciales sos pisanos, sos Doria e.i sos Malaspina e pius de totu bi abitaiant sos sardos aunidos suta su Zuigadu de Arborea, chi aiat chircadu de aunire tota s’Isula suta una bandela sola, leendesi, gai, su ruolu de defendidore de tota s’Isula.
Sende chi sa Corsica beniat sutamissa in su 1299 dae sos genovesos, chi ant dadu cumintzu a unu regime autoritariu e colonizadore destinadu a durare fintzas a su Setighentos, sos Aragonesos atacaiant una gherra longa de cunchista contr’a sos sardos, chi est durada, tra binchinde e perdinde, fintzas a su 17 de austu 1420, cando Alfonso II de Sardigna, o de Aragona, giamadu su Magnaninu, at agabbadu sa cundierra comporende pro 100 miza fiorinos de oro sos diritos soberanos de s’ultimu re de Arborea Guglielmo I, visconte de Narbona, chi fit istadu iscunfitu in sa bataglia de Seddori (Sanluri) de su 1409.
Su Regnu de Aragona, gai, si leaiat sa corona sarda a iscapitu de sa libertade de sos sardos e pustis de pagos annos, cun s’unificatzione de su regnu de Ispagna sa Sardigna diventaiat ispagnola.
Pro s’arrejonu chi apo a fagher leo in cussideru su chi sustenet un’istoricu sardu, forsis su pius connotu, Frantziscu Tzesare Casula. In s’ultimu liberu sou “L’Italia, il grande inganno” iscriet chi s’Istadu Italianu naschet in una tenda militare, afaca a Cagliari, in mesu a inimigos pisanos e de Arborea, su 19 de lampadas 1324. Inoghe naschet s’istadu chi pustis at a diventare, a pianu a pianu, Regnu de Sardigna, Monarchia Sabauda e Repubrica Italiana, cherinde dare proas chi sa Sardigna siet su bantzigu de s’Italia.
Passo como a dare una mirada a su periudu de sa fine de su 1600, chi currispondet a su “siglo de oro”, est a narrer a su seculu de oro de su dominiu ispagnolu, cando sa Sardigna faghiat parte, in dogni sensu, de sa Corona Ispagnola. Difatis sa Sardigna non fit una colonia ispagnola, ma un’entidade istatale distinta in sinu a sa Corona, gai comente fint sos regnos de Aragona, de Castiglia, e ateras coronas ispagnolas. Custu proite bi fit istada, comente apo già nadu, sa “licentia invadendi” de Bonifacio VIII. Pro custu mutivu sa Sardigna fit unu regnu cun una tzerta autonomia e teniat unu Parlamentu sou, chi fit un’assembrea periodica, rapresentativa de sos tres ordines sotziales, nados “stamenti”, frommados dae feudatarios, ecresiasticos e tzitadinos de sas tzitades regias, assimizantes in custu a sos tres ordines de sos Istados Generales frantzesos, chi bi sunt durados fintzas a cando est iscopiada sa Rivolutzione frantzesa.
Semus chistionende de Parlamentu tzetuale, est a narrer de una rapresentantzia de sas classes aristocraticas, nobiles e de sos tzitadinos, chi mancari no aerant podere de detzider o de cussizare, ma solu de fagher propostas, cullaboraiant cun su re in su guvernare s’istadu e in su de fagher sas leges, dendeli cussizos, acunsentinde a su chi disponiat isse e cun cuntributos finantziarios, giamados “donativi”. Sos donativos fint cuntributos chi su Parlamentu daiat a su re pro tenner protetzione e pro ateros servitzios, o puru pro leare parte a gherras, isposorios de regnantes, e gai sighinde, unu pagu comente sa finantziaria de oe. Duncas, tennicamente, mancari s’istoriografia, cun rejone, epat semper sustennidu sa cunditzione de sa Sardigna, suta sa Corona ispagnola, comente coloniale, bisonzat de istare atentos proite tando sa cunditzione de sa Sardigna non fit coloniale, dadu chi faghiat parte in dogni sensu de sa Corona de Ispagna.
Difatis, Tzesare Casula, seguru de.i custu fatu, narat in modu giaru chi est istada semper curpa de sos sardos, de sa poberesa issoro e de s’incapatzidade issoro de pesare su bolu pro detzidere una creschida sotziale, tzivile e economica. Custu tipu de arrejonamentu, chi segundu me manifestat unu modu de pensare de caratere autocolonialisticu, tenet contu solu de sos particulares giuridicos de sa relatzione tra sa Sardigna e.i sos dominadores chi, dae borta in borta, s’ant dadu su cambiu e non tenet contu de sa realtade materiale, economica, tzivile e pulitica. Sigomente su Regnu de Sardigna non fit una colonia de s’Ispagna, ma un’entidade istatale distinta in sinu a sa Corona, cun bilanciu e guvernu sou, pro sas malas cunditziones sotziales e economicas de s’Isula e pro s’impoberimentu sou non si podet betare neghe a Madrid, ma pius a prestu a su pagu rendimentu de su teritoriu, ca Madrid dae sos Parlamentos sardos pretendiat solu calchi cuntributu istraordinariu pro isposorios reales e pro gherras. Duncas, sa tesi de Casula, in sustantzia est giara: sa Sardigna non fit una colonia, ma una foza de sa Corona de Ispagna.
In realtade no ischimus si, dae su puntu de vista giuridicu, devimus dare rejone a Casula, ischimus de siguru chi in sos fatos sas cosas fint divescias meda. Sa sotziedade sarda, in epoca ispagnola, fit peorada meda in cunfrontu a su tempus de sos zuigados. Fint istadas abbandonadas sas istradas de.i cussu periudu, chi fint su bantidu de sa Sardigna, faghinde intrare in crisi s’atividade cummerciale, at devidu suportare sa decadentzia de s’imperu ispagnolu, una decadentzia longa meda chi ch’at giutu s’imperu a derruer e a iscumparrere. Sa sotziedade sarda fit frimma in su totu, chentza briu, arrimada siat in tzitade che in campagna, e pius de totu imbrigliada in unu antigu sistema feudale impostu dae fora (dae sos Aragonesos), chi sos Piemontesos ant chircadu de mantenner cun intzidios de onzi zenia fintzas a su 1838. In Sardigna non che fit su Feudalesimu, comente cussu chi bi fit in su restu de s’Europa, ca aiat unu regime divesciu meda fundadu subra de ateros printzipios.
Est importante de cumprender comente fint organizadas sas classes dirigentes sardas a sa fine de su 1600. Bi fit su partidu de sos “impiegos” chi miraiat a fagher otenner a sos sardos sos ingarrigos de s’Istadu, francu cussu de viserè. Narant chi in su 1710 nessi 400 nobiles aiant fatu dimanda pro tenner ingarrigos de istadu. Duncas si tratat de nobiles chi cherent viver chentza leare matana, e passant su tempus aisetende de lis dare s’impiegu. Su chi ghiaiat su partidu de sos “impiegos” fit su marchese Leonardo Alagon, difatis cando, a chimbant’annos dae sa sutamissione, iscopiesit sa rivolutzione, isse s’est postu a cab’innanti de sos pius istruidos de sos dirigentes sardos contra a su podere centrale: sa “chistione de sos impiegos”. Alagon fit nobile de erentzia aragonesa oramai diventadu sardu chi est resessidu a unire, pro sa cundierra de sos impiegos, una fortza comune detzisa a torrare a frommare sas libertades zuigales chi fint istadas perdidas. Su re Giovanni II cumprendeit su perigulu de sa rivolutzione de Alagon, frommeit un’esercitu potente pro azuare su viserè sou e gai at binchidu sas trupas de sos sardos. Alagon tenteit de si.che fuire, ma benzeit tentu in su 1477 e impresonadu a vida in sa presone de Valenza.
Sas gherras coloniales longas, sa rivolutzione de Alagon e pius de totu su pesosu sistema feudale impostu dae sa Corona aragonesa a sa realtade produtiva sarda, at postu a benujos a terra s’economia isulana e ant fatu ismentigare ogni disizu de cambiamentu pro medas annos. Su Chimbighentos e bona parte de su Seschentos sunt passados a trazu lenu, in un’Isula ispozada de sas resursas fundamentales e posta a runzones a terra dae su modu de produire e dae sas tassas chi non lassaiant mezorare e frenaiant s’atividade de sas classes sociales noas. In custa situascione, a sa fine de su Seschentos, in una Ispagna in dificurtade manna si est manifestada sa “crisi Camarassa”.
In su 1665 fit diventadu re de Ispagna Carlo II. Si trataiat de unu pitzinnu malaidonzu, rachiticu, de bator annos ebbia, chi fit suta sa tutela de sa mama Marianna d’Austria chi fit isvalida. Pro sa debilesa de sa carena sua fit apparalumenadu “s’istregadu”. Suta su regnu sou s’est vivida sa “crisi Camarassa, chi at torradu a ponner in pee, in modu tragicu, sa cundierra de “sos impiegos” e.i su cuntrastu tra sos dirigentes sardos. Su sero de su 20 de lampadas, forsis pro impuntza de su viserè Manuele de los Cobos, marchese de Camarassa, est istadu assassinadu in Cagliari Agostino de Castelvì, marchese de Laconi, primma boghe de su “Istamentu” feudale de su Parlamentu de su 1665.
Laconi, dae meda, fit faghinde una gherra contra a su guvernu pro otenner sos ingarrigos altos de s’istadu (viserè, responsabile de sa Cancelleria, archipiscamu de Cagliari e piscamu de Alghero) a proe de sos nobiles de s’isula torrende a dimandare, a in foras de sa pulitica, sas antigas pretesas de Alagon. Sas richiestas istamentarias non pretendiant cambiamentos mannos : sos Istamentos (su Parlamentu sardu de su medioevo), frommadu dae nobiles minores abbramidos de impiegos, pretendiant sa cunfrimma de totu sos mandos chi teniant innanti, de esser assignados solu a issos totu sos ufitzios, siat sos ecresiasticos che sos seculares; su diritu de sa tzitade de che bogare su trigu betzu innanti de aer incunzadu su nou. Si trataiat de dimandas chi andaiant dae s’aspetu giuridicu a cussu economicu chentza ponner in discussione sa sutammissione de s’isula a su dominiu ibericu. Ma essiat a pizu su cuntrastu de prospetivas tra sas classes dirigentes sardas: dae un’ala sos chi fint fideles a s’istadu centrale, dae s’atera sos chi teniant disizu de autonomia e de protagonismu. Ma sa cundierra est finida male. Laconi est istadu assassinadu e.i sos chi fint a s’ala sua si sunt vindicados leendeche dae caminu su Viserè marchese de Camarassa.
Madrid timiat chi custos delitos aerant potidu pesare una rebellia populare contra a s’Ispagna e at detzisu de tenner cuadu su mutivu beru de.i cussas mortes. Sos pabilos ufitziales ant betadu sa neghe de sas mortes a s’amigantzia de sa muzere de su marchese de Laconi cun su fradile, bellu giovanu e pitzinnu, e totu est istadu ammuntadu, puru sas pretesas de sos diritos chi Laconi aiat sustennidu. Sas classes dirigentes sardas cunfrimmaiant sa disponibilidade a rinuntziare a sas pretesas issoro addananti de sa netzessidade de si ponner contra a su podere centrale e s’incapatzidade de si leare in su totu sas responsabilidades issoro e a si proponner, a totu sos efetos, comente classe dirigente natzionale. Sa crisi Camarassa finiat gai cun su torrare a ponner in pee su centralismu chi bi fit innanti, chentza fagher perun’iscontriu. Su cumandu beniat leadu dae su guvernadore de Cagliari, Bernardino Cervallon e.i sas pretesas istamentarias si sunt frimmas in su totu. Subra de.i custu Bruno Anatra narat, in curtzu, s’incapatzidade a cambiare chi teniant sas classes dirigentes sardas:
« In un tale frangente i ceti solo sotto profilo retorico-formale (se non meramente strumentale) si richiamarono alla generalità degli interessi regionali, nei fatti non pervengono nemmeno a ipotizzare la gestione diretta dei propri. Quando si giunse allo scontro e una volta delineatasi la repressione questo complesso fronte si dileguò come neve al sole. Del resto era la stessa maggioranza cetuale che riconduceva continuamente le proprie posizioni entro le forme tradizionali e vigenti della legalità politica. Non metteva in discussione, nemmeno dopo essersi posta al di fuori della legalità, il lealismo dinastico»
Sa crisi Camarassa, in logu de creare ocasione de protagonismu pro sas classes dirigentes sardas (comente sutzediat in Catalogna), faghiat ruer sa classe baronale sarda e poniat in evidentzia su fatu chi s’isula fit ispruvista de pessones chi la podiant ghiare cun autonomia; trista realtade chi in su giru de pagos annos tiat benner cunfrimmada dae s’indiferentzia de sa classe dirigente sarda sende chi s’isula passaiat dae un’istadu a s’ateru, dae una gherra a s’atera. Sos dirigentes sardos, in pratiga, non punnaiant a s’apoderare de su ruolu de cuntratadores cun su podere centrale ma, pius a prestu, a si catzare su famene de impiegos chi fit s’idea fissa issoro.
Sunt sos annos de sa “controriforma”, sunt sos annos de sa religiosidade populare, sunt sos annos de sa crisi de s’Ispagna, semus in sos annos in sos cales benit frimma in su totu s’economia de sa Sardigna fintzas cun pruvidimentos de sos cales no apo su tempus de nde faeddare.
Andamus a su 1700. In su 1700 morit Carlo II, “su diligu”, comente beniat giamadu, fit chentza fizos, unu re pitzinnu, chi viviat suta sa ghia de sa mama, e de sos intrallatzos de corte, morit a 39 annos e lassat comente unicu erede, su giovaneddu Filippo di Borbone, duca d’Angiò, nebode de sa sorre Maria Teresa de Austria, isposada cun Luigi XIV de Frantza. In cussu modu si beniat a frommare un’acordu nou tra s’Ispagna e.i sa Frantza, dae semper inimigas. Sas ateras potentzias europeas non podiant baliare sa possibilidade chi Ispagna e Frantza si poderent aunire suta a su matessi Re, cosa chi aiat potidu ponner in perigulu sos assentamentos dipromaticos de s’antigu continente. Inghilterra, Austria e Olanda ant cuntestadu su testamentu e ant sustennidu sas pretesas de Carlo d’Asburgo, archiduca de Austria, fizu de s’imperadore Leopoldo I, chi fit istadu isposadu cun un’atera sorre de Carlo II. Cando est istadu incoronadu Filippo di Borbone in su 1701, in pratiga est istadu comente chi si siat declarada una gherra, sa gherra de sutzessione. Una gherra chi cungruiat sa soberania ispagnola e chi, pro su chi pertocaiat a nois, daiat cumintzu a.i cuss’era chi at bidu sa Sardigna andare dae manu in manu, innanti a sos Austriacos (13 de austu 1708 – 22 de austu 1017), pustis a sos Ispagnolos (29 de austu 1717 – 2 de austu 1718), posca dae nou a sos Austriacos, cun su Tratadu de Londra (2 de austu 1718), in su cale sos Alleados ant detzisu de torrare sa Sardigna a s’Imperadore Carlo VI de Austria, chi poi l’at tzedida a Vittorio Amedeo II, printzipe de Piemonte e duca de Savoia. E gai su 4 de austu de su 1720 Vittorio Amedeo II est diventadu re de Sardigna.
Abbaidamus sos aspetos particulares de.i custos fatos: sa Sardigna at vividu pagu sa gherra proite sos Alleados, est a narrer sos chi fint contr’a sos ispagnolos e contr’a sos frantzesos, ant aparadu sas naves, pro impidire a s’inimigu de s’apoderare de un’isula de importantzia istrategica manna comente puntu de partentzia pro ateros atacos. Puru sos catalanos si sunt impignados a dare un’azudu a Carlo d’Asburgo proite creiant de tenner pius libertade, ma a urtimu sunt arrividos a un’acordu, sa paghe di Utrecht (1713) e Rastadt (1714).
Cun custos acordos ant reconotu a Filippo V sa soberania subra s’Ispagna e subra sas Indias, pro tzedere, in cambiu, su Regnu de Sicilia a sos ducas de Savoia e regnu de Gibilterra a sos ingresos. Peristantu Filippo V beniat riconnotu soberanu de s’Ispagna ma beniat obrigadu a renuntziare a sa Frantza e a sos disizos de isterrer su dominiu in s’Europa. Carlo VI at otennidu sa Sardigna, su Regnu de Napoli, su Ducadu de Milanu e “i Paesi Bassi” chi innanti fint de s’Ispagna. Su Duca de Savoia, chi s’est postu a fiancu de sos Alleados a s’urtimu momentu, at otennidu sa Sicilia e su titulu de Re. Sa Sardigna beniat assignada a sos Austriacos e gai su regnu sardu si.che agataiat fora dae sa corona ispagnola. Ma sa situascione pro s’isula nostra fit distinadas a cambiare in su giru de pagu tempus.
Su 16 de austu de su 1708 est istadu numenadu viserè asburgicu Fernando de Silva. Apena leadu possessu isse at impostu tassas noas pro mantenner s’esercitu, pro refurnire de laore Barcellona, chi ancora non fit torrada a sos ispagnolos, pro leare parte a sas ispesas pro s’isposaritziu de su re cun sa printzipessa Isabella de Brunswick. In sos annos de su dominiu austriacu (1708 – 1717 ) sas cundisciones de sas classes populare sardas chi produiant ant potidu ebbia peorare. Sos Austriacos ant postu in andera su sistema de sos apaltos pro incasciare sas tassas. Pro s’istadu fit unu sistema ispiciu, pro sas biddas de s’isula imbetzes fit unu “racket” legalizadu, dadu chi sos esatores fint suridos e balanzaiant meda subra sas tassas chi retiraiant. Ma sa detzisione, chi at fatu pius dannu , a sa creschida de s’economia isulana, dae parte de su guvernu imperiale, chi at ammaniadu unu sistema coloniale cun totu sas regulas, est istada cussa de introduire su datziu subra su tebacu. Sa coltura de su tebacu l’aiant incumintzada sos ispagnolos e aiat irrichidu medas produidores privados, pro su pius sardos, e pius de totu de sos intorinos de Tatari.
In austu de su 1714 su viserè Atalaya at introduidu su datziu assugetendelu a su monopoliu de s’istadu. Gai si beniat a frommare un’azienda de su re, produidora de tebacu, cun sa cale su guvernu diventaiat produidore e bendidore de su tebacu. Totu che beniat giutu a s’Alighera e postu in unu depositu giamadu “estanco” o “stancu”. In cussu modu, una de sas pagas atividades chi daiat resa est istada leada dae manos de sos sardos. Dae tando, ancora oe, su logu inue si bendet su tebacu in sardu si giamat “istangu”.
Apenas frimmu s’acordu pro sa paghe, chi serraiat sa primma parte de sa gherra de sutzessione, su cardinale Alberoni iscriet a su paba Clemente XI faghindeli connoscher sos mutivos chi faghiant de sa Sardigna un’obietivu militare a su cale non si podiat renuntziare e ispieghendeli proite si fit ammanitzende un’imbiu militare pro torrare a cunchistare s’isula:
«partirà la squadra navale il 17 del corrente mese dal porto di Barcellona e andrà a la conquista dell’isola di Sardegna come la più facile da conservarsi, unico motivo che ha dissuaso quella del regno di Napoli».
Sa flota ispagnola arrivat a Cagliari su 22 de austu de su 1716. Sos 8.000 sordados de fanteria e 600 cavalieris isbarcados si sunt piatzados in Monte Urpinu e ant cumintzadu a leare a cannonadas sa tzitade. Mancari su Viserè austriacu Antonio de Rubi aerat procramadu intentos de rebellia, su 29 de austu sa tzitade aberit sas giannas a sos ispagnolos. Sa Sardigna, cun unu colpu de manu, torrat a diventare ispagnola. Ma sa cunchista de sa Sardigna non fit s’intentu pretzisu de s’ispeditzione ispagnola, fit solu sa base dae ue partire pro cunchistare dae nou su regnu de Napoli e de sa Sicilia. Pro custu mutivu sa Sardigna at devidu suportare su pesu de s’aposentamentu de sas trupas ispagnolas e de unu grupu de ispeditzione chi si deviat imbarcare pro sa Sicilia (20.000 omines) a sos cales fit cunsentidu de irrobbare a sa populatzione sarda. In cuss’ocasione sos ispagnolos no ant dadu peruna proa de esser sos liberadores de una terra chi fit istada ispagnola, in ogni aspetu, pro chentinaja de annos, ma si sunt cumportados comente ocupadores furisteris. Alberoni at lassadu su pesu de sas tassas comente las aiant postas sos austriacos. Antzis sos ispagnolos ant postu tassas noas, comente sa carta bullada in sos atos pubricos e in sos istrumentos fatos dae su notariu (fintzas a tando non connota dae sos sardos) e ant aumentadu su preju de su sale.
S’atu de apoderiu de sos ispagnolos at cumbinchidu sas potenzias europeas chi fit netzessariu de cambiare su quadru pulitigu-geograficu bessidu dae Utrecht. Fata in presse in presse un’alleantzia militare noa Inghilterra, Olanda, Prussia e Austria, su 2 de austu de su 1718, in Londra, ant istabilidu de torrare su regnu de Sardigna a s’imperadore Carlo VI d’Austria. Però, pro mantenner unidu su regnu de Sicilia cun cussu de Napoli (già de sos Austriacos) ant detzidu de fagher su cambiu de su regnu de sa Sardigna cun cussu de sa Sicilia. In pratiga in cussa data (2 de austu 1718) sos alleados contrarios a s’Ispagna ant detzisu de assignare sa Sardigna a su duca de Savoia Amedeo II. S’acordu fatu a Londra est istadu frimmadu chentza tener contu de sas protestas de sa Sede Papale, chi già in su 1297 aiat dichiaradu chi custu regnu dae issa istituidu non si podiat bender, e mancari Amedeo II no esserat cuntentu, ca si bidiat dare in dode un’isula pobera e piena de malaria, in logu de sa rica Sicilia. Sa gherra chi nd’est bennida a infatu est istada disastrosa pro s’Ispagna. Iscunfita in campu militare s’Ispagna non podiat fagher ateru che frimmare s’acordu de paghe e tzedere sas duas isulas mediterraneas a sos Alleados. Su Mediterraneu non fit pius unu lagu ispagnolu.
Su 4 de austu 1720, a Cagliari, su viserè ispagnolu don Gonzalo Chacòn tzediat su regnu de Sardigna a don Giuseppe de Medici, principe di Ottajano, plenipotentziariu austriacu. Sunt sighidas tres dies de festa pro aer bidu reconnota sa sovranidade austriaca subra s’isula. Pustis de sa partentzia de sas trupas ispagnolas su printzipe Ottajano faghiat, dae parte sua, sulenne cunsigna de s’isula ponindela in manos de su plenipotentziariu de Vittorio Amedeo II, su generale Luigi Desportes, segnore di Coinsin, su cale at dadu su regnu de Sardigna in manos a Vittorio Amedeo II, printzipe de Piemonte e duca de Savoia e dae cussu momentu Re de Sardigna. Un’ufitziale de sa frota inglesa, su 16 de triulas de su matessi annu, atiat su primmu viserè sabaudu Filippo Guglielmo Pallavicino, barone di San Remy, dae Palermo a Cagliari. Su barone annotaiat in su diariu sou: “ La Sardegna non presenta quasi nessun altro vantaggio per il principe che quello di procurargli il titolo di Re”.
Commenti
Per carità, ma questa sarebbe una relazione? A me sembre un copia e incolla da wikipedia….
Agosto 2nd, 2012