Presentata a Ploaghe l’opera di Mauro Maxia Il Condaghe di Salvennor (XII e XIII sec.) di Angelino Tedde
Alla presenza di una quarantina di appassionati di storia e di lingua sarda si è svolta a Ploaghe la presentazione del saggio di Mauro Maxia, edito da Condaghes di Cagliari. Quasi 500 pagine di lavoro ricco di stimoli e strumento di notevole spessore per chi voglia addentrarsi nelle pieghe del tardo medioevo sardo. Il condaghe è costituito da 321 schede in lingua castigliana di cui 4 sono scritte anche in lingua sarda Si tratta di atti di compravendita, donazioni, permute e riconoscimenti di proprietà di fondi e di persone a cura degli abbati dell’abbazia di Salvennor, la cui chiesa si erge in stile romanico-pisano ancora oggi come prezioso bene culturale che i ploaghesi dovrebbero valorizzare maggiormente servendosi di guide turistiche bene informate sulla variegata storia del territorio comunale e dei beni culturali. Dalla biblioteca alla pinacoteca al museo religioso. La presentazione del volume è stata fatta dal prof. Massimo Pittau e dallo stesso curatore. Il primo si è soffermato sull’importante nodo che fu fin dai tempi romani la località di Ploaghe, che se si accetta l’origine bizantina del termine risulterebbe il diminutivo di Paolo, visto che Pietro e Paolo risultavano indubbiamente patroni della futura diocesi della curatoria di Figulinas. La diocesi di Ploaghe fu attiva infatti dall’XI al XV secolo quando fu soppressa e aggregata alla diocesi Turritana. Il prof. Pittau ha messo in chiaro come il centro fosse di primaria importanza nel cuore di quello che con un mutamento del nome divenne Logudoro, invece che Lugudone, tanto in epoca romana oome in epoca cristiana e cristiana bizantina. Mauro Maxia, invece, ha fatto la storia delle precedenti edizioni del condaghe citando soprattutto Di Tucci, Tetti, e infine, Maninchedda che ha preso più di un abbaglio nell’edizione critica curata da lui e da Murtas. Per esempio Maninchedda nella sua edizione ha definito non riesce a riconoscere nella forma antica “patata” (scheda 156) l’oronimo “pattada” che, come sa bene chiunque conosca il sardo logudorese, significa ‘pianoro panoramico’. Evidentemente Maninchedda non ha una buona conoscenza del sardo; per il resto all’uomo politico non manca qualche perspicacia.
L’ approccio di Maxia al condaghe però si differenzia dagli altri perché egli ha privilegiato l’ottica linguistica. Oltre al valore delle quattro schede in lingua sarda egli ha messo in risalto anche le 321 in lingua castigliana che per quanto riguarda la toponomastica sono ricchissime di nomi e di luoghi espressi in lingua sarda. Da ciò l’importanza linguistica del vasto documento che pur tradotto in castigliano non ha perso quella patina linguistica del sardo che andava consolidandosi decisamente come lingua neoromanza (XII e XIII sec,). Il valore del documento è preziosissimo però anche dal punto di vista geografico storico (e ovviamente dal punto di vista onomastico e toponomastico e filologico. Per quanto riguarda la storia e l’economia di quel periodo il documento costituisce uno scrigno di notizie. La stessa cosa può dirsi per la società e la sua organizzazione tra servi e liberi. Basti pensare alle difficoltà del matrimonio della serva Maria Pira della chiesa di Salvennor e Pietro de Flumen di Villa Alba, uomo libero, entrambi vanamente fuggiti e riacciuffatti ad Orria Pithinna. Particolare rilievo assumono i rapporti tra la diocesi e il monastero che portava avanti una politica di vera e propria fagocitazione anche dei beni della diocesi che al momento opportuno cercava di difendere i propri beni per la sua stessa sussistenza. Gli spunti che da questo studio si possono cogliere sono innumerevoli. Maxia con questo lavoro ricco di note, corredato da un indice toponomastico e onomastico contribuisce a far luce su un’ epoca storica piuttosto avara di documenti, ma che grazie a questi lavori di critici, filologi, storici e onomasti aprono spaccati e brecce su un periodo che fu difficile dal punto di vista civile, ecclesiastico e delle relazioni umane, ma non per questo meno vivace e interessante se si pensa alla diffusione a pelle di zigrino dei beni dei monaci.
Peccato che un maggior numero di ploaghesi e di forestieri non abbia colto l’importanza di questa comunicazione degna di essere accolta da una popolazione più numerosa di diplomati e dottori di cui il centro pure si vanta. Auguriamoci che la sferzante definizione dei sardi da parte degli spagnoli non continui a perseguitarci inesorabilmente: sardos pocos y locos y malunidos; i sardi pochi, tardi di comprendonio e disuniti. Svegliati Sardegna se non vorrai precipitare in un mare di crassa ignoranza visto che gli studiosi eccellenti ce li hai. Dobbiamo fare di tutto per impedire che i giovani crescano a base di frastuoni, alcol e droga all’interno delle troppo rumorose discoteche maleodoranti dei peggiori miasmi fisici e intellettuali inquinandosi il corpo e l’anima. Dove stanno le solerti operatrici sociali e socio-culturali quando nei centri piccoli e grandi si celebrano eventi di cultura, di storia e di civiltà? Forse ci stiamo adagiando sulle rendite pubbliche , lasciando andare alla deriva i nostri giovani allo stesso modo con cui a volte le sia pur modeste rendite parrocchiali non rendono più attivi i parroci e i parrocchiani al fine di una nuova evangelizzazione, per impedire l’imbarbarimento bolso e vacuo dei giovani? Sorgete ploaghesi e guardate agli esempi preclari dei vostri antenati! Le stesse considerazioni si possono fare per il vicino centro di Chiaramonti dove alla presentazione ddel Villaggio do Orria Pithinna da parte di un équipe di archeologi e storici erano presenti a malapena 20 forestieri e 20 indigeni. Logudoro e Anglona, battete un colpo per informarvi sulle vostre radici, se ci siete!