Introduzione ai grandi testi della Lingua Etrusca di Massimo Pittau
Ritengo opportuno esporre e spiegare quali siano state le circostanze favorevoli che mi hanno spinto e convinto a tentare l’impresa, certamente molto ardua, della interpretazione e traduzione dei testi più lunghi e anche più difficili della lingua etrusca.
1ª) Fin da ragazzo, familiari, amici e compagni hanno riconosciuto in me una particolare caratteristica che mi sono portato dietro per tutta la vita: la “perseveranza” o – chiamamola pure – la “caparbietà”: non arrendersi di fronte alle difficoltà, non stancarsi di provare, fare innumerevoli tentativi per risolvere un problema. Da ragazzo e da adolescente accettavo la sfida coi compagni a risolvere problemi che qualcuno aveva già risolto: «Se ce l’hai fatta lui – dicevo – ce la farò anche io, sia pure in un tempo più lungo». Questa mia caratteristica mi è servita parecchio nella mia educazione scolastica, soprattutto nella mia preparazione linguistica: studiando il latino e il greco mi ero imposto di non ricorrere mai ai noti libri di “traduzioni interlineari” degli autori classici, che invece erano e sono di uso generale fra gli studenti, e con questo mi dovetti imbarcare nella dura fatica di tradurre i testi classici, vocabolo per vocabolo, frase per frase.
La conseguente acquisita capacità di “interpretazione” e di “traduzione” mi è in seguito servita parecchio, ad es. per fare la traduzione, con commento filologico e critico, di una delle più importanti e difficili opere di Aristotele, la Poetica (Palermo 1972, Editore Palumbo).
E mi è servita parecchio anche da militare nell’ultima guerra mondiale, quando, anche in virtù dei miei studi di linguistica già intrapresi, sono stato impiegato pure nell’attività di decifrazione di messaggi criptati.
2ª) Io adopero il computer ormai da vent’anni e inoltre con discreta padronanza e pertanto posso affermare che questo strumento da un lato mi ha consentito di velocizzare enormemente il mio studio e la mia ricerca, dall’altro e soprattutto di procedere continuamente e con facilità alla comparazione dei vocaboli studiati, delle loro radici e dei loro morfemi, operazione che ovviamente mi ha consentito di effettuare non poche scoperte ermeneutiche. Tengo però a precisare che il computer non effettua mai “scoperte”, ma solamente mette il ricercatore in grado di effettuarle.
3ª) Decidendo di analizzare e comparare in maniera unitaria e sistematica l’intero materiale lessicale dei 13 più lunghi testi etruschi, in pratica ho lavorato su una somma globale di più di 1.000 lessemi. Che è una somma molto notevole, se si considera che l’uomo di cultura moderno, quando parla o scrive, fa uso di meno di un migliaio di vocaboli appunto (però ne conosce moltissimi di più quando ascolta o legge). Ebbene il continuo ricorso al metodo fondamentale della “verifica comparativa interna” di più di 1.000 lessemi mi ha consentito di effettuare su di essi non poche scoperte ermeneutiche o interpretative.
4ª) Ritengo di aver avuto una preparazione linguistica di prim’ordine, dato che ho seguito lezioni di Matteo Bartoli in glottologia e di Augusto Rostagni in Lingua e letteratura latina e in filologia classica per la mia laurea in Lettere Classiche nell’Università di Torino (1943), lezioni di Gian Domenico Serra in glottologia per la mia laurea in filosofia antica nell’Università di Cagliari (1945) e, in un corso di specializzazione nell’Università di Firenze negli anni 1948-1949, lezioni di Carlo Battisti, Giacomo Devoto ed Emidio De Felice in glottologia, di Bruno Migliorini in storia della lingua italiana e di Giorgio Pasquali in filologia classica. Infine sono stato per 10 anni in corrispondenza con Max Leopold Wagner, Maestro della Linguistica Sarda e uno dei più autorevoli studiosi delle lingue romanze, il quale mi cita numerose volte e con stima nel suo importante Dizionario Etimologico Sardo (1960-1964).
5ª) Avevo iniziato nel 1981 col pubblicare l’opera La lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi (Sassari 1981) e nel 1984 l’altra Lessico Etrusco-Latino comparato col Nuragico (Sassari 1984). In queste ho sostenuto la tesi di una parentela o “affinità” fra la lingua etrusca e quella che parlavano i costruttori dei “nuraghi” della Sardegna, cioè quella che i Sardi parlavano prima della conquista romana e della loro latinizzazione linguistica, la lingua “protosarda o paleosarda”, quella che io ho iniziato a chiamare «lingua sardiana». (Di passaggio faccio notare che in un’altra mia recente opera La Lingua Sardiana o dei Protosardi, Cagliari 2001, ho precisato che in questa esistono i relitti di differenti filoni linguistici, uno è quello tirrenico-etrusco).
Qualche anno dopo ho pubblicato una terza opera intitolata Testi Etruschi – tradotti e commentati (Roma 1990), nella quale ho presentato la traduzione di numerose iscrizioni etrusche, tratte dall’opera di Massimo Pallottino, Testimonia Linguae Etruscae (Firenze 1954, I ediz., II ediz. 1968).
Poi ho pubblicato le altre seguenti opere: La Lingua Etrusca – grammatica e lessico (Nùoro 1997); Tabula Cortonensis – Lamine di Pirgi e altri testi etruschi tradotti e commentati (Sassari 2000); Dizionario della Lingua Etrusca (Sassari 2005; nella quale risultano tradotte 1.600 iscrizioni); Toponimi Italiani di origine etrusca, (Sassari 2006); Dizionario Comparativo Latino-Etrusco, (Sassari 2009). Poi ho composto la presente opera I grandi testi della Lingua Etrusca – tradotti e commentati (Sassari 2011). Infine è di prossima pubblicazione un’altra opera che avrà il titolo Lessico italiano di origine etrusca – appellativi e toponimi.
Insomma, sulla lingua etrusca io ho pubblicato, compreso il presente e quello prossimo, ben 10 differenti libri e oltre a questi un centinaio di studi pubblicati in riviste specializzate o di cultura.
Con questi precedenti culturali, facendo riferimento al solo aspetto “quantitativo”, io ritengo di essere il linguista che ha dedicato alla lingua etrusca più tempo (oltre 30 anni) e più scritti (10 libri e un centinaio di articoli) rispetto a qualsiasi altro etruscologo.
E dunque, con un tale bagaglio specialistico sulle spalle (tutto quello indicato nei numeri 1ª, 2ª, 3ª, 4ª, 5ª), niente di strano che alla fine mi sia sentito in grado di affrontare l’avventura culturale e scientifica che risulta nella mia nuova presente opera.
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Quale accoglienza in generale ha avuto la mia citata produzione etruscologica? Evidentemente non mi riferisco alla notorietà che mi è derivata dall’interesse che qualche mio libro ha suscitato in alcuni quotidiani e periodici di carattere nazionale e alle conseguenti numerose interviste radiofoniche e televisive che mi hanno procurato. Intendo riferirmi invece all’accoglienza che le mie pubblicazioni hanno avuto nel mondo degli specialisti, linguisti ed etruscologi.
Ebbene la risposta è duplice: in linea generale c’è stato un “quasi totale silenzio” sull’argomento da parte degli specialisti. La qual cosa mi sembra che si possa spiegare in maniera semplice e certa: per giudicare la mia tesi della affinità – almeno parziale – della lingua degli antichi Protosardi con quella degli Etruschi è necessario conoscere bene sia il Protosardo sia l’Etrusco e finora non si è fatto avanti nessun interlocutore ugualmente esperto nell’una e nell’altra lingua.
D’altra parte non posso negare che in generale le mie opere e le mie tesi non sono state accolte con entusiasmo, ma sono state viste con una certa diffidenza. Però si deve considerare che, per effetto del continuo proliferare dei genialoidi scopritori della “chiave di decifrazione dell’etrusco” (cosa che io non fatto per nulla), è certo ed evidente che linguisti, archeologi, storici e uomini di cultura hanno finito, sino ad ora, col non prendere sul serio nessuna ipotesi o tesi o notizia che compaia ex novo intorno alla lingua etrusca; anzi hanno finito col considerare l’argomento perfino come oggetto di battute umoristiche.
Oltre a ciò non posso tralasciare di segnalare che la diffidenza per le mie tesi è stata ed è particolarmente forte da parte degli etruscologi italiani; e la ragione di ciò è presto detta: io li ho criticati con insistenza per il fatto che, quasi tutti semplicemente “archeologi”, in effetti si sono impadroniti dell’”amministrazione” della lingua etrusca, sia col controllo accurato dell’assegnazione delle cattedre universitarie di Etruscologia, sia con la pubblicazione di libri e di riviste, sia infine con l’organizzazione dei convegni e congressi specialistici. E questo essi fanno in virtù del loro grande potere politico ed economico, dato che, come “custodi” dell’immenso patrimonio archeologico e artistico dell’Italia, ricevono grandi fondi da parte dello Stato, delle Regioni, delle Province, delle Comunità Montane e dei Comuni italiani. Io invece ho fatto osservare e ho sottolineato che fra l’”archeologia” e la “linguistica” esiste un oceano di differenze nell’oggetto di ricerca e nei metodi di studio, ragion per cui il conseguente livello dell’insegnamento della lingua etrusca che essi impartiscono nelle cattedre universitarie di Etruscologia è veramente basso, condotto su manualetti veramente miserini. Inoltre li ho accusati esplicitamente di aver “bloccato” per mezzo secolo gli studi sulla lingua etrusca, succubi del grave pregiudizio – mai approfondito – che essa non possa essere confrontata e comparata con nessun’altra…
Anche altri linguisti hanno criticato questo grave stato di cose, ad es. Ambros Joseph Pfiffig, Vladimir I. Georgiev, Marcello Durante, Francisco Adrados, Riccardo Ambrosini, ecc., e il risultato è stato che dagli etruscologi-archeologi noi siamo stati “boiccotati” nelle case editrici, non siamo mai stati accolti nelle loro riviste, non siamo stati mai chiamati a tenere relazioni nei loro convegni e congressi ….
D’altra parte è bene che si sappia che non sono mancati pure alti riconoscimenti per le mie opere: Ambros Ioseph Pfiffig, uno più fecondi e acuti studiosi della lingua etrusca, mi scrisse da Geras (Austria) il 31 maggio 1990: «Illustre professor Pittau! Mi è giunto qual’omaggio dell’Autore e dell’Editore il di Lei eccellente libro ‘Testi Etruschi tradotti e commentati’, un’opera, che sfogliando, mi pare di valore speciale, sia essendo basata sul manuale già classico del Pallottino, sia applicando sistematicamente il metodo combinatorio nel senso da Lei spiegato e definito.- Oserei dire che ‘Testi Eruschi tradotti e commentati’ sia un ricco commentario per l’uso quotidiano di TLE [= Pallottino M., Testimonia Linguae Etruscae, Firenze 1954, I ediz., II ediz. 1968].- La ringrazio sinceramente di quest’omaggio, il cui acquisto raccomanderò nei Corsi di Etruscologia ormai regolari nell’Università di Vienna.- Gradisca i miei ottimi auguri e saluti: [firmato]».
Nella nota rivista spagnola EMERITA (LXXIII 1, enero-junio 2005, pag. 45, l’autorevole linguista Francisco R. Adrados ha iniziato un suo importante studio sulla lingua etrusca parlando di me in questo modo: «Mala suerte ha tenido el etrusco cuando algunos lingüistas hemos querido incorporarlo al cuadro de las lenguas indoeuropeas. Massimo Pittau ha explicado muy claramente el veto que la escuela arquelógica italiana, siguiendo M. Pallottino, ha impuesto a cualquier intento de comparar el etrusco con otras lenguas. Siguiendo a Dionisio de Halicarnaso, esta escuela decretò el aislamiento dell etrusco». Poi mi cita altre tre volte con tutta deferenza, mostrando di approvare le mie tesi.
Come con tutta deferenza mi cita Francisco Villar, nella sua nota e importante opera, Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa (trad. ital. Bologna 2008, Il Mulino, pag. 495).
E Riccardo Ambrosini, professore di Linguistica nell’Università di Pisa, nonché Presidente della «Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti», nella quale mi aveva chiamato per fare due conferenze, una sulla Tabula Cortonensis e l’altra sul mio Dizionario della Lingua Etrusca, in data 18.11.2005, mi ha scritto da San Lorenzo di Moriano: «Carissimo Pittau, ho appena ricevuto il Tuo stupendo Dizionario della Lingua Etrusca e mi sono affrettato a leggerne alcune pagine che attraevano la mia immediata curiosità. Non posso non congratularmi con Te per la sapiente disposizione del materiale e per la prudenza di alcune proposte, che ben sottolinei nella chiarissima introduzione. (….) Complimenti vivissimi e, scusami una sentita invidia per questo Tuo magnifico lavoro, e, insieme con questi, i ringraziamenti più vivi e i saluti più cordiali. Tuo [firmato]».
Un mese dopo (1.12.2005) mi ha ancora scritto: «Qui la tua conferenza è stata molto apprezzata dagli echi cittadini. Rileggendo il tuo bellissimo dizionario, ho notato che, ecc.».
Il giorno 20 agosto del corrente anno 2011 in una grande rappresentazione pubblica – con recita – che si è tenuta a Populonia, del Liber della Mummia di Zagabria, è stato tenuto presente e seguito esplicitamente il testo quale è stato letto e ricostruito dal sottoscritto.
Infine è un fatto che da circa vent’anni io sono solito tenere relazioni sulla lingua etrusca nel «Sodalizio Linguistico Milanese», che è uno dei più prestigiosi centri linguistici d’Europa e di cui sono membro appunto da una ventina d’anni, e che tali mie conferenze sono regolarmente pubblicate, di volta in volta, negli Annali del Sodalizio stesso.
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Espongo infine i criteri fondamentali ai quali mi sono ispirato e attenuto nell’effettuare la “interpretazione” e la “traduzione” dei 13 testi etruschi studiati.
In linea generale ritengo importante premettere e precisare che in fatto di “traduzione” dei vocaboli etruschi – come del resto di quelli di una qualsiasi altra lingua antica – la glottologia o linguistica storica distingue e non può non distinguere tra i risultati conseguiti quelli certi, quelli probabili e quelli ipotetici (TETC pag. 20). Ciò detto, è assolutamente necessario farsi consapevoli che in linea generale i risultati formulati e proposti dalla linguistica storica, riguardo a un qualsiasi dominio linguistico, nella immensa maggioranza dei casi sono semplicemente probabili, più o meno probabili, mentre quelli certi sono proporzionalmente assai meno numerosi. La ragione di ciò sta nel fatto che la linguistica storica non ha alcun vero e proprio strumento di accertamento o di controllo o di verifica, come sarebbe uno strumento uguale o almeno simile a quello di cui invece fanno uso le scienze della natura: l’esperimento e la sua ripetizione effettuati quanto e come si voglia. La linguistica storica – ma del resto anche tutte le discipline di carattere e di interesse storico – non possono far ripetere gli eventi passati e tanto meno sottoporli a verifica od a controllo e tanto meno ad esperimento. Ed è questa l’esatta ragione per la quale il sentenziare della linguistica storica assai raramente è caratterizzato dalla nota della certezza, mentre nella immensa maggioranza dei casi è caratterizzato dalla sola nota della probabilità o – si può anche chiamare – della verosimiglianza, della maggiore o minore probabilità o verosimiglianza, secondo i singoli casi.
Del tutto convinto, come dichiaro di essere, di questo principio metodologico relativo alla nostra disciplina, si sappia che anche in questa mia presente opera io faccio larghissimo uso dell’avverbio “probabilmente”, anteposto alle interpretazioni o traduzioni proposte da me oppure anche da altri linguisti.
D’altra parte, oltre al pochissimo certo ed invece al moltissimo probabile o verosimile che in questa mia opera ho prospettato rispetto ai singoli vocaboli e alle singole frasi etrusche tradotte, preciso bene che ho fatto entrare anche l’ipotetico. Dieci anni fa, a me che avevo già pubblicato la traduzione della Tabula Cortonensis, un mio collega linguista ed etruscologo ebbe modo di obiettare e dichiarare: «Chi tenta di tradurre la Tabula Cortonensis lo fa a suo rischio e pericolo!». Quel mio collega aveva perfetta ragione! Chi traduce lo fa sempre a suo rischio e pericolo; anche quando si mette a tradurre la più semplice delle iscrizioni etrusche o perfino la più semplice frase latina oppure greca. Rischia di sbagliare anche il linguista o il filologo che si metta a tradurre una delle favole di Fedro oppure di Esopo: è sufficiente che intervenga per lui un momento di distrazione ed ecco che egli incappa senza accorgersene in un errore anche grave di interpretazione e di traduzione.
Eppure si ha l’obbligo di rischiare e non soltanto in linguistica storica, ma anche in una qualsiasi altra scienza. Il progresso in tutte le scienze, di qualsiasi carattere e tipo – “esatte”, naturalistiche, storiche, ecc. – è proprio il risultato del rischio che ha corso uno scienziato, anzi dei rischi che hanno corso in generale tutti gli scienziati precedenti. I loro errori, effetto del loro rischiare, in realtà sono dappertutto il prezzo che si paga al progresso delle scienze, di una qualsiasi delle scienze. E questo fatto fa parte persino del pensare della gente comune, che lo esprime col noto proverbio «Chi non risica non rosica». Gli scienziati che non rischiano mai nel loro sentenziare non sono propriamente “scienziati”, ma sono semplici “ripetitori” delle scoperte altrui. Io ho già avuto modo di scrivere che anche in linguistica «è molto meglio una ipotesi azzardata, che non alcuna ipotesi; infatti, da una ipotesi azzardata – che alla fine potrebbe anche risultare errata – prospettata da un linguista, potrà in seguito scaturire una ipotesi migliore e addirittura quella vincente, prospettata da un linguista successivo». Questo – ho detto – è l’esatto e profondo significato della tesi di G. W. F. Hegel della “positività dell’errore” (RIOn, VI, 1, 144).
Fatta questa premessa, dunque, preciso che anche nel mio presente libro entrano non solamente il certo e il probabile, ma entra anche l’ipotetico. E se per indicare il probabile io faccio larghissimo uso dell’avverbio “probabilmente”, per indicare l’ipotetico invece faccio pure largo uso dell’altro avverbio “forse”, preposto alla traduzione di un vocabolo o di una frase etrusca e talvolta anche rafforzato da un punto interrogativo (?).
D’altra parte ovviamente esiste ancora un certo notevole numero di vocaboli etruschi per i quali non siamo ancora in grado di affermare nulla circa il loro effettivo valore semantico o “significato” e circa le loro notazioni morfologiche. Per ciascuno di essi pertanto mi sono limitato a scrivere la frase «vocabolo di significato ignoto». Purtroppo il numero di questi «vocaboli etruschi di significato ignoto» è ancora abbastanza elevato e per risolvere il loro problema debbono ovviamente indirizzarsi gli sforzi ermeneutici congiunti di tutti i cultori della linguistica etrusca.
Riassumo e termino dicendo che nel Lessico e nel suo Commento che ho inserito dopo la traduzione di ciascuno dei 13 testi da me studiati, ho presentato il «significato» di ciascun vocabolo come fino al presente è stato prospettato dagli etruscologi che mi hanno preceduto oppure da me stesso, indicando di volta in volta, in maniera decrescente, il suo essere “significato certo” oppure “significato quasi certo” oppure “significato probabile” o infine “significato compatibile”. Quest’ultimo è praticamente un “significato ipotetico”, il quale però ha la caratteristica di potersi inserire in maniera logicamente compatibile col significato del contesto particolare della frase e pure di quello generale del documento studiato e, più in generale, col significato dei vocaboli già acquisito dalla recente ermeneutica etrusca.
Massimo Pittau
www.pittau.it