Vincenzo Gioberti letto da Giorgio Rumi. L’Unità d’Italia e gli affrettapopoli di Arturo Colombo
Il 5 ottobre si è svolto a Milano, presso la fondazione Ambrosianeum, il convegno “Giorgio Rumi storico dell’Italia unita”, organizzato nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità e a cinque anni dalla morte dello storico milanese. Uno dei partecipanti – intervenuto insieme a Enrico Decleva, Ernesto Galli della Loggia, Marco Garzonio e Sergio Romano – ha sintetizzato la sua relazione per il nostro giornale.
Rivisitare la proposta politica di Vincenzo Gioberti “ritrovandone le motivazioni di fondo e mettendone in evidenza le evoluzioni temporali nell’equilibrio delle forze via via presenti” è questo lo scopo del Gioberti di Giorgio Rumi (Bologna, Il Mulino, 1999).
Il disegno che accompagna il Primato morale e civile degli italiani (1843) si può accettare, discutere, o respingere. Ma la lezione di metodo, che Rumi ci offre, riguarda il rigore con cui rilegge Gioberti, insistendo su punti-chiave, troppo spesso dimenticati o riproposti in modo non corretto. Certo, Gioberti sostiene che “la si
ngolarità del caso italiano sta nello speciale rapporto col Papato”; ma è altrettanto vero che il presupposto da cui parte Gioberti – ci spiega Rumi – è “l’esistenza delle Nazioni”. Nazioni al plurale, perché la natura e la storia hanno prodotto realtà diverse nella nostra penisola. C’è la Lombardia, col suo particolarismo; il Piemonte, spesso sedotto dal “richiamo alla nefasta influenza francese”; Venezia, memore della sua antica grandezza; Roma e Firenze, ossia “l’area cosiddetta etrusco-pelasgica, asse portante dell’indipendenza”.
L’obbiettivo per Gioberti è inequivocabile: fare l’Italia “una, forte, potente, devota a Dio, rispettata e ammirata dai popoli”. Ma, aggiunge Gioberti, “non si può essere perfetto italiano, senza essere cattolico”. Da qui l’esigenza fondamentale: il Papa è destinato a essere il “presidente naturale e perpetuo della confederazione dei principi e dei popoli italiani”.
Non basta: ha ragione Rumi di ricordarci che per Gioberti la Francia costituisce “una minaccia perenne”, al cui confronto l’Austria rimane “più estranea e defilata”. Anzi, anche “il mondo tedesco” rappresenta – sono le parole di Rumi – “l’altra ganascia della tenaglia che stringe l’Italia”. Per liberarsene, occorre unirsi, diventare nazione, realizzare “un’alleanza stabile e perpetua dei vari principi” e porre il Pontefice come “nucleo di gravitazione dell’intero sistema, culturale e politico”, così da renderlo – sono le parole conclusive del Primato – “arbitro paterno e pacificatore dell’Europa, institutore e incivilitore del mondo, padre spirituale del genere umano”.
Gli avvenimenti andranno altrimenti; ma Gioberti ha capacità, che Rumi evidenzia bene, mostrando come, pur rimanendo “religione e patria i fondamenti del pensiero politico giobertiano”, a un certo momento occorre puntare su Casa Savoia e il Piemonte. Così – precisa Rumi – la teoria e la pratica di una mediazione del Piemonte sabaudo e liberale sono centrali nell’esperienza di governo: un’esperienza molto breve, da metà dicembre 1848 al 21 febbraio del 1849.
Poi Gioberti si ritira dalla politica; riflette su quanto è accaduto; contesta “le false dottrine”, sia dei “conservatori”, sia dei “democratici”. E nasce l’altro grande testo, Del rinnovamento civile d’Italia (1851) che Rumi definisce frutto di “un ripensamento” del tragico biennio 1848-1849, quando – l’immagine ardita è di Gioberti – “gli affrettapopoli sono [stati] poco meno dannosi dei ritardapopoli”; ossia ha avuto responsabilità e colpe gravi chi reclamava soluzioni precipitate, come chi voleva un impossibile status quo. Spiega con acutezza Rumi: “Il realismo giobertiano, che nel Primato cercava di recuperare all’avvenire d’Italia ogni eredità del passato suscettibile di funzione redentrice, diventa nel Rinnovamento saggezza gradualista”. Infatti, se il risorgimento ha avuto un doppio esito negativo, identificato in Novara e Roma, un rinnovamento significa, per Gioberti, indicare “una strada tutta diversa da percorrere”, per “rigenerare” le grandi masse, educarle, elevarle sul piano economico e morale, spingerle verso la democrazia.
Occorreva, però, respingere ogni miope municipalismo, non separare mai Genova da Torino, Venezia da Milano, Bologna da Roma, Napoli da Palermo, secondo “il tenace italo centrismo” di Gioberti, come lo chiama Rumi, deciso a tenere quali perni essenziali la Roma del “monarcato ecclesiastico”, cioè “polo spirituale e culturale” e il Piemonte “retto a scettro laicale”, con Torino polo politico e statale.
Un’ultima osservazione. Sul numero 5 del 2001 di “Liberal” (una testata a lui cara), Rumi tornerà con un saggio dal titolo abbastanza singolare: La biblioteca delle libertà: Vincenzo Gioberti”. Non è un contributo solo storiografico, ma un intervento non privo di polemica nei confronti degli equivoci, dei malintesi e di quelli che Rumi definisce ostacoli concettuali, che impedivano – secondo le sue parole – “il cammino del federalismo in Italia”.
Infatti, se dal 1861 era prevalsa – sottolinea Rumi – “la scelta centralistico-prefettizia”, così forte da resistere col fascismo, e poi con l’avvento della repubblica e del sistema democratico, questo spiega la fine toccata a Gioberti e al suo progetto politico. Ossia – spiega ancora Rumi – quel suo federalismo, “spesso ricordato per l’ipotesi di presidenza papale” e caduto “per l’impossibilità pontificia di guidare una crociata di liberazione nazionale contro la cattolicissima Austria”, ha finito per essere frettolosamente “consegnato al magazzino delle cose morte delle dottrine politiche italiane”.
E invece nel progetto giobertiano “c’era almeno l’intuizione di una incancellabile bipolarità tra Nord e Sud”, che Cavour avrebbe cercato di risolvere, ma di cui rimangono ferite tuttora aperte. E “il prezzo fu la cancellazione del millenario equilibrio degli Stati italiani, con nuove tensioni e impensabili problemi per le generazioni a venire”.
(©L’Osservatore Romano 6 ottobre 2011)