“Colui che in picciol tempo gran dottor si feo” di Inos Biffi
Il pellegrino del Paradiso è nel cielo del Sole, dove si dà convegno la tradizione della filosofia e della sapienza cristiana, trasfigurate dal suo «genio» nella bellezza della poesia.Nelle «due ghirlande» di «sempiterne rose» (Paradiso, XII, 20 e 19), in cui Dante ha disposto le luci dei sapienti, risaltano tra tutti due teologi. Il primo è il domenicano «Thomas d’Aquino», profondamente amato e ammirato dal poeta, che pone la «glorïosa vita di Tommaso» (XIV, 6) a far da «portavoce» di quei sapienti» (Thomas Ricklin).
Dante, che, pur non «tomista» mostra un’intelligenza in larga consonanza con quella dell’Aquinate, ne elogia in particolare la viva cortesia dello spirito e la limpida e articolata chiarezza del discorso: «l’infiammata cortesia/ di fra Tommaso e ’l discreto latino» (XII, 143-144).
Il secondo è Bonaventura da Bagnoregio, il maestro francescano dal linguaggio estetico e immaginifico, e dalla teologia sapienziale, le cui parole scaturiscono dall’amore, che ne abbellisce l’anima: «L’amor che mi fa bella/ mi tragge a ragionar» (XII, 31-32). Con un garbato scambio di gentilezza, a indicare che in cielo si stemperano rivalità e polemiche di scuola, il poeta assegna al primo l’elogio di san Francesco e al secondo quello di san Domenico, sul quale ci soffermiamo.
Dobbiamo tuttavia, per ben comprenderlo, ascoltare le parole di Tommaso che parla prima di Bonaventura e associa Francesco e Domenico in un unico disegno della «provedenza, che governa» (xi, 28). Essi — spiega l’Aquinate — vennero suscitati perché sotto la loro guida la Chiesa procedesse più sicura e fedele nel suo cammino. Ed esattamente della Chiesa troviamo nella Commedia una perfetta e profonda teologia. È la Sposa di Cristo, nata dal suo sangue versato, con alte grida, sulla croce, e tutta appassionatamente protesa a lui, che è il suo diletto.
Il pianto di Cristo in croce deve aver molto impressionato Dante, che nell’elogio di Francesco ricorda che la povertà pianse con Cristo in croce. È la visione misterica della Chiesa, riguardo alla quale conserva sempre una dottrina intatta e un ardente amore, nonostante le feroci e non sempre obiettive critiche agli ecclesiastici.
Tommaso — o meglio — Dante per la voce di Tommaso, delinea quindi, in tratti felici e penetranti, la fisionomia interiore delle due guide provvidenziali della Chiesa, strettamente congiunte l’una all’altra, per l’identico fine della loro opera: «L’un fu tutto serafico in ardore/ l’altro per sapïenza in terra fue/ di cherubica luce uno splendore» (xi, 37-39).
«L’ardore e lo splendore in rima fanno risplendere come due fiamme le figure dei due santi che illuminano la terra» (Chiavacci); due fiamme strettamente unite, che l’unica provvidenza ha suscitato per uno stesso fine.
Allo stesso modo si esprime san Bonaventura, compiaciuto della lode tributata a Francesco da Tommaso. Così, dopo che questi ha «pregiato» san Francesco, lasciandoci, nei suoi brevi tratti, il dipinto più bello e più emozionante che mai sia stato disegnato di colui che «nel crudo sasso intra Tevero e Arno/ da Cristo prese l’ultimo sigillo» (xi, 106-107).
Francesco e Domenico — dichiara Bonaventura — risplendono di una stessa luce, perché hanno combattuto insieme la battaglia della fede. Essi sono sorti in un tempo in cui la Chiesa «militante», «l’essercito di Cristo, che sì caro/ costò a rïarmar» (XII, 38) seguiva lentamente, con dubbiosità e in scarso numero l’insegna della croce, vexilla Regis.
Fu allora che, con l’invio di «due campioni», si rinnovò, già lo aveva affermato san Tommaso, l’intervento provvidenziale di Cristo in aiuto della Chiesa: «a sua sposa soccorse» (XII, 44), e qui «l’immagine militare è abbandonata, e l’essercito torna ad essere la sposa, più cara e preziosa di ogni altra cosa (sposata col sangue: xi, 33), a cui si soccorre con urgente amore» (Chiavacci). Così, «al (…) fare» e «al (…) dire» dei due atleti della fede, il popolo di Dio smarrito si ravvide; «lo popol disvïato si accorse» (XII, 45).
Bonaventura si sofferma quindi alla rievocazione particolareggiata della vita di Domenico, come Tommaso aveva fatto per Francesco.
A cominciare dalla terra natale, «la fortunata Calaroga» (XII, 52), posta là dove sorge il dolce vento di Zefiro — «Zefiro dolce» (XII, 47), il Favonio, che con il suo carezzevole tepore fa nascere la primavera e riveste le nostre regioni di nuove fronde, non molto lontano dalla costa, percossa dalle onde dell’oceano e dove, nel solstizio d’estate, il sole, affaticato, finisce la sua corsa. «Qui la terzina, fatta di parole che dicono novità e leggerezza (surge, aprire, dolce, novelle, rivestire), diffonde un vivo soffio rinnovatore che già dichiara — senza dirlo — il senso della vita che si sta per narrare» (Chiavacci).
In questa terra vide la luce «l’amoroso drudo/ de la fede cristiana, il santo atleta/ benigno a’ suoi e a’ nemici crudo» (XII, 55-57). Tommaso aveva chiamato Domenico uno splendore di sapienza, circonfuso della luce dei Cherubini (xi, 38-39); qui Bonaventura lo definisce l’amante, l’innamorato della fede, il suo combattente, benevolo verso i credenti e implacabile verso gli eretici, che, ancora nel seno materno, per la sua anima ricolma di «viva vertute» (XII, 59), rese profetica la madre. Francesco aveva sposato la povertà, e al sacro fonte avvengono «le sponsalizie» tra Domenico e la fede, «intra lui e la Fede» (XII, 62).
«Domenico fu detto» (XII, 70) — osserva Dante — ma egli ne parla come dell’«agricola», scelto da Cristo in aiuto nel lavoro del suo orto, in termini evangelici, della sua vigna (cfr. Matteo, 21, 22): «l’agricola che Cristo/ elesse a l’orto suo per aiutarlo» (XII, 71-72).
E come un inviato e un servo fedele di Cristo — «messo e famigliar di Cristo» (XII, 73) — egli si rivelò fin dalla prima fanciullezza: il suo primo amore fu per il primo consiglio evangelico di Cristo, quello della povertà, ch’era stata la scelta di Francesco, e in questa condizione di povertà, che è umiltà e abbassamento, lo trovava la nutrice: «Spesse fïate fu tacito e desto/ trovato in terra da la sua nutrice/ come dicesse: “Io son venuto a questo”» (XII, 76-78). La rievocazione di Bonaventura, in realtà del poeta sospeso e affascinato nel raffigurare questo fanciullo precocemente steso a terra e consapevole del senso della sua vita, è pervasa da intensa e silenziosa commozione: «La terzina crea con i soli due aggettivi [«tacito e desto»] una scena notturna di raccoglimento mistico dove il fanciullo (…) già appare circondato da un’aura di grazia celeste e di grave umiltà, simile in questo al Francesco della piazza d’Assisi» (Chiavacci).
Esplode quindi come impossibile, si direbbe, da trattenersi, la congratulazione e l’esclamazione di lode ai genitori: «Oh padre suo veramente Felice! / Oh madre sua veramente Giovanna, / se interpretata val come si dice» (XII, 80-81).
Segue la seconda parte della vita di Domenico, con quella scelta che questi precedenti presagi lasciavano indovinare. Egli non si dissipa «per lo mondo» (XII, 82), a differenza del costume dei chierici e della Curia; non si affanna dietro gli studi delle Decretali o del diritto canonico; attratto dall’«amor de la verace manna», della sapienza celeste, dedicandovisi totalmente, «in picciol tempo gran dottor si feo» (XII, 85): divenne presto teologo. Il quale — dice il poeta — così preparato iniziò il suo lavoro nella vigna del Signore, che fatalmente inaridisce, se viene a mancare l’opera del padrone della stessa vigna: «si mise a circuir la vigna/ che tosto imbianca, se ’l vignaio è reo» (XII, 86-87).
Spinto da questo ardore, alla Sede Apostolica, che nel tempo passato — e qui torna puntuale l’impietoso giudizio critico di Dante per gli uomini di Chiesa del suo tempo — era più provvida verso i poveri giusti — «benigna/ più a’ poveri giusti, non per lei/, ma per colui che siede, che traligna» (XII, 88-90; cfr. XXVII, 22-24; Inferno, XIX, 101; XXVII, 91; Purgatorio, XX, 87) — Domenico non domandò la facoltà di distribuire in opere buone solo una parte delle rendite ecclesiastiche, né di possedere il primo beneficio ecclesiastico disponibile, né di poter fruire per sé delle decime quae sunt pauperum Dei (XII, 93), ma domandò la licenza di combattere «contro al mondo errante», a difesa — sono le lucide e penetranti parole di Bonaventura a Dante — del «seme», «per lo seme/ del qual ti fasciano ventiquattro piante» (XII, 95-96): i ventiquattro spiriti che fiammeggiano e danzano intorno a Dante sono piante nate dal seme della fede, da Domenico difesa e da loro splendidamente coltivata.
Ottenuta questa licenza, Domenico si mosse con l’energia che gli proveniva dalla «dottrina, acquistata nell’intenso studio»; dall’«ardente zelo che gli era proprio» e dall’«autorità datagli dall’incarico papale»; «Poi, con dottrina e con volere insieme, / con l’officio apostolico si mosse» (XII, 97-98).
La sua forza è paragonata da Dante a quella di un torrente fatto scaturire dalla pressione di una vena profonda.
Ecco lo stupendo verso: «quasi torrente ch’alta vena preme» (XII, 99).
E là dove più resistevano gli eretici — cioè in Provenza, dove a opporsi con maggiore tenacia erano gli Albigesi — Domenico diresse l’impeto della sua parola e l’ardore del suo zelo: «e ne li sterpi eretici percosse/ l’impeto suo, più vivamente quivi/ dove le resistenze eran più grosse» (XII, 100-102).
Né il torrente (Domenico) rimase solo a scorrere: dalle sue acque scaturirono vari ruscelli (i domenicani e le loro famiglie), che irrigarono e ravvivarono di fecondità la Chiesa, suggestivamente resa con l’immagine evangelica del campo: «Di lui si fecer poi diversi rivi/ onde l’orto catolico si riga,/ sì che i suoi arboscelli stan più vivi» (XII, 103-105).
«Agricola» scelto da Cristo: così Dante aveva chiamato san Domenico (XII, 71); ora, «l’orto riprende la primitiva immagine dell’agricola e della vigna riportando, dopo la violenta parentesi guerriera, a visioni di pace e di serenità (l’orto irrigato, gli arboscelli vivi)» (Chiavacci).
Bonaventura ha così concluso la sua rievocazione di san Domenico. In realtà, è poi Dante che, nella sua ascesa al Paradiso, ha voluto illustrare i due grandi carismatici fatti sorgere a servizio della Chiesa, la Sposa di Gesù Cristo, dove egli ha saputo ben distinguere l’interiore e permanente santità che l’ombra dei suoi ministri non riescono ad alterare.
9 agosto 2011 @L’Osservatore Romano