Psichiatria impazzita. Per la dottoressa Marcia Angell c’è una pericolosa alleanza fra medici e case farmaceutiche di Giulia Galeotti
“The New York Review of Books” pubblica un dossier sulla malattia mentale negli Stati Uniti
Nel dicembre 2006, in un paesino vicino a Boston, muore Rebecca Riley, una bimba di quattro anni. La causa del decesso fu la combinazione di alcuni farmaci che le erano stati prescritti per curare la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (Adhd) e il disturbo bipolare, diagnosticati a soli due anni di età. Ma perché a una paziente così piccina vennero prescritti farmaci che la Food and Drug Administration (l’agenzia americana del farmaco) non ha approvato né per la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, né per un uso di lungo periodo nel disturbo bipolare, né per i bambini dell’età di Rebecca? Né il distorto cocktail era da imputarsi a un errore casuale: i suoi due fratelli, con la stessa diagnosi, stavano prendendo anche loro tre farmaci psicoattivi. Questa triste vicenda è emblematica di due importanti questioni che la battagliera dottoressa americana Marcia Angell (1939) denuncia da anni. Medico specializzato in medicina interna, autorità riconosciuta in campo sanitario, convinta sostenitrice della necessità di una riforma medica e farmaceutica negli Stati Uniti, prima (e a oggi unica) direttrice donna della rivista medica più nota al mondo, “The New England Journal of Medicine”, Marcia Angell è ora docente di medicina sociale ad Harvard. Autrice di molteplici pubblicazioni, tra cui Science on Trial (1997) e The Truth About the Drug Companies: How They Deceive Us and What to Do About It (2004), Angell (che nel 1997 “Time magazine” inserì tra i venticinque americani più influenti) ha ingaggiato ormai da tempo una battaglia seria e documentata contro lo strapotere delle case farmaceutiche e la loro capacità di influenzare funestamente la pratica psichiatrica. Un’influenza che coinvolge, o meglio travolge, drammaticamente anche i bambini. Tra le altre sedi in cui conduce la sua battaglia, Marcia Angell ha scritto spesso interessanti contributi su “The New York Review of Books”, come, ad esempio, Drug Companies & Doctors: A Story of Corruption (gennaio 2009). Nel settembre 2010, invece, è stato la volta di Fda: This Agency Can Be Dangerous in cui Marcia Angell, pur muovendo dal presupposto che la Food and Drug Administration è “un’agenzia pubblica vitale con una missione importantissima”, ha denunciato senza mezzi termini come il Center for Drug Evaluation and Research (Cder), che è la parte dell’agenzia che regola la prescrizione dei farmaci, has become the servant of the industry it regulates, con effetti drammatici sulla salute delle persone.
“The New York Review of Books” pubblica ora in due puntate (Why There Is an Epidemic of Mental Illness? 23 giugno – 13 luglio; The Crazy State of Psychiatry 14 luglio – 17 agosto) un interessante e preoccupante dossier in cui la dottoressa denuncia la degenerazione della psichiatria americana nel trattare la malattia mentale. Una malattia mentale che, dati alla mano, è diventata nel Paese a stelle e strisce un’autentica epidemia: se nel 1987 un americano su 184 presentava una disabilità legata a disturbi mentali, nel 2007 se ne conta uno su 77. Tra i bambini la crescita è anche maggiore. E il dieci per cento degli americani che hanno più di sei anni fa uso di antidepressivi. A partire dagli anni Cinquanta, la psichiatria americana è cambiata in toto: nella certezza che la malattia mentale vada tutta imputata a ragioni chimiche, si è smesso di ascoltare le parole e le storie del paziente, avendo ormai come unica preoccupazione quella di eliminare o ridurre i sintomi presenti con i farmaci. E se quando questi farmaci furono inizialmente introdotti vi fu un breve periodo di ottimismo, già negli anni Settanta si iniziò a capire che si andava profilando qualcosa di molto minaccioso, imputabile in particolare alla gravità degli effetti collaterali. Così, mentre gli psichiatri erano sempre più divisi tra loro (alcuni aderirono con entusiasmo al nuovo modello biologico, altri rimasero fortemente legati a Freud, mentre alcuni andavano sostenendo che la malattia mentale fosse una risposta sostanzialmente sana a un mondo ormai insano), prese piede un movimento fortemente scettico verso questa branca della medicina. Un movimento che trovò la sua espressione più famosa nella pellicola del 1975 One Flew Over the Cuckoo’s Nest (Qualcuno volò sul nido del cuculo). Tutto questo, però, non impedì ai farmaci di proseguire nel loro cammino trionfale, cammino che fu ulteriormente potenziato da quando l’industria farmaceutica prese atto della conversione in massa degli psichiatri, facendone un autentico terreno di conquista. Un terreno particolarmente appetibile giacché, più che in altre branche della medicina, in psichiatria non esistono elementi oggettivi con cui misurare e catalogare la malattia mentale, il che rende possibile espandere a piacimento i confini di una diagnosi o crearne di nuove. I produttori di farmaci hanno interessi enormi nello spingere gli psichiatri in questa direzione fluttuante, e si è arrivati al punto – scrive la dottoressa Angell – che sono le stesse case farmaceutiche a determinare cosa costituisca un disordine mentale (e come vada trattato). I vantaggi di questa scelta terapeutica, del resto, sono immediati per gli stessi medici: se oggi in un’ora lo psichiatra riesce a visitare tre pazienti per un totale di 180 dollari, con la terapia tradizionale fatta di ascolto negli stessi sessanta minuti egli avrebbe potuto visitare un solo paziente guadagnando così meno di 100 dollari. I problemi, però – prosegue Marcia Angell – non si limitano alla trasformazione della terapia, dalla parola al farmaco (l’anno decisivo è stato il 1987 quando è stato messo in commercio il Prozac). Sono infatti fortissime, e spesso alquanto sofisticate, le pressioni che l’industria farmaceutica esercita sugli psichiatri affinché prescrivano farmaci off lable, cioè anche per categorie di pazienti, per patologie e con tempi e modalità che invece la Fda non ha approvato (dove negli Stati Uniti – ricorda la dottoressa – è illegale prescrivere medicine per un uso differente rispetto a quello approvato). E il problema assume nel Paese dimensioni serie quando questo indiscriminato utilizzo di medicinali “oltre il bugiardino” coinvolge i bambini, anche piccolissimi, a cui ormai tranquillamente si prescrivono farmaci che la Fda non ha mai approvato per loro. Tutto ciò, inoltre, coinvolge un elevato numero di piccoli pazienti: si conta, infatti, che il dieci per cento dei bimbi statunitensi di dieci anni assuma quotidianamente stimolanti per la sindrome da deficit di attenzione e iperattività. Sono, invece, cinquecentomila i bimbi che assumono farmaci antipsicotici. Inizialmente la diagnosi da Adhd si manifestava in iperattività, mancanza di attenzione e impulsività nei ragazzi in età scolare, ma a metà degli anni Novanta due influenti psichiatri del Massachusetts General Hospital avanzarono l’idea che molti bambini affetti da questa sindrome covassero in realtà il disturbo bipolare già da piccolissimi, il che portò all’esplosione di diagnosi di disordine bipolare infantile. Ma è forse facile – si domanda Angell – trovare un bimbo di due anni che non sia a tratti irritabile? O un bambino di quinta elementare che a volte non si distragga? O una ragazzina delle medie che non sia ansiosa? Il dato veramente drammatico è che la diagnosi ha ben poco di obiettivo. Essa, infatti, dipende da chi siano i bambini, dalla loro famiglia di provenienza, dalle pressioni che gli psichiatri esercitano sui genitori. Ad aggravare sinistramente la questione, concorre un elemento agghiacciante: nella crisi economica sempre più grave, per molte famiglie americane a basso reddito il fatto che il proprio figlio venga classificato come disabile mentale significa la sopravvivenza. Grazie a questa diagnosi, infatti, la famiglia può beneficiare del Supplemental Security Income (Ssi) o del Social Security Disability Insurance (Ssdi): secondo l’economista David Autor (docente al Massachusetts Institute of Technology) this has become the new welfare. E il “New York Times” ha riportato i risultati di uno studio effettuato dalla Rutgers University: i bambini di famiglie a basso reddito ricevono farmaci antipsicotici in quantità quattro volte superiori ai bambini che beneficiano di un’assicurazione medica privata. Per la famiglia della piccola Rebecca Riley, ad esempio, la diagnosi dei tre figli costituiva un reddito dall’ammontare annuale di trentamila dollari. Del resto, con tutte le dovute differenze, basta avere un minimo di dimestichezza con la disabilità (fisica o mentale) in Italia per toccare con mano quante famiglie (genitori, fratelli, e non raramente anche i figli di questi) vivano della pensione d’invalidità del figlio. Il punto è – tornando a Marcia Angell – che la psichiatria dovrebbe cambiare registro . Dobbiamo smettere di credere che i farmaci rappresentino non solo la migliore, ma addirittura la sola via per curare il disordine e la malattia mentale, o le patologie emotive. È, in particolare, urgentissimo ripensare ai trattamenti che riserviamo ai bambini, trattamenti molto pericolosi specie nel lungo periodo. Per malafede o distrazione, si cercano le cause del disagio nel cervello dei piccoli pazienti mentre molto spesso il vero problema di questi bimbi è “solo” il loro vivere in famiglie estremamente disagiate. ”E soprattutto – conclude Marcia Angell – dovremmo ricordarci sempre del semplice imperativo medico: primum non nocere”.
(©L’Osservatore Romano 20 luglio 2011)