Le foto che nessuno doveva vedere di Gaetano Vallini
In mostra a New York immagini del dopo Hiroshima rimaste nascoste per decenni
I terrificanti bombardamenti atomici di Hiroshima e di Nagasaki hanno modificato per sempre l’idea della guerra e di cosa significhi il rischio da allora paventato – soprattutto durante la guerra fredda – di un olocausto nucleare. Nonostante il significato storico di tali azioni, per anni è stato tuttavia difficile visualizzare e comprendere pienamente l’entità della distruzione causata da Little Boy e Fat Man, e questo anche perché vennero diffuse pochissime immagini degli effetti devastanti delle esplosioni; effetti inimmaginabili visto che gli esperimenti erano stati condotti in zone desertiche.
Dopo aver deciso di sganciare la bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto 1945, il governo statunitense, su indicazione del presidente Harry Truman, limita la circolazione delle immagini della città. È troppo rischioso “alterare la tranquillità pubblica”. Si temono le reazione dei giapponesi, degli stessi americani e delle persone di ogni luogo del pianeta di fronte agli effetti della prima bomba atomica utilizzata in un conflitto convenzionale, che ha provocato la morte istantanea di 140.000 persone e la distruzione del settanta per cento delle strutture cittadine. Per non parlare delle conseguenze di quella sconosciuta “pestilenza” che continua a mietere vittime anche nei giorni e nei mesi successivi, e che avrebbe continuato a colpire silenziosamente anche negli anni a venire.
Washington impedisce, dunque, a giornalisti e fotografi di recarsi a Hiroshima. Ma il coraggioso reporter australiano Wilfred Burchett, riesce a eludere i ferrei controlli e per primo, il 5 settembre 1945, mostra al mondo dalle pagine del “The Daily Express” le istantanee della tragedia, raccontando quanto vede: “Non sembra una città bombardata. È come se un mostruoso rullo compressore ci fosse passato sopra schiacciando tutto”. Alle autorità appare evidente l’enorme potere che la fotografia esercita sulle coscienze per il suo alto tasso di realismo, per la sua capacità di raffigurare i fatti così come avvengono. Del resto in quegli stessi anni cominciano a circolare altre immagini che avrebbero raccontato in maniera più incisiva di qualsiasi trattato storico i crimini della guerra appena conclusa, come l’orrore dei campi di sterminio nazisti o gli effetti del bombardamento di Dresda.
Ma il segreto non può rimanere tale per sempre. E infatti le immagini della città giapponese cancellata dalla bomba atomica vengono desecretate venticinque anni dopo. Di fatto, però, non le vede nessuno. Anzi quelle foto rischiano persino di andare tutte perdute per sempre, dato che per decenni non se ne ha più traccia. Salvo rispuntare all’improvviso, dopo un ritrovamento casuale, per finire nelle collezioni dell’International Center of Photography (Icp) di New York, che le espone fino al 28 agosto con il titolo evocativo “Hiroshima – Ground Zero 1945”.
La storia delle immagini che nessuno avrebbe dovuto vedere – dagli scatti alla loro scomparsa, fino al successivo ritrovamento sessant’anni dopo – ha del romanzesco. A due mesi dall’esplosione l’amministrazione statunitense invia a Hiroshima alcuni membri della Divisione valutazione danni dello United States Strategic Bombing Survey con il compito di analizzarne gli effetti. In sei settimane di lavoro vengono fotografati i resti di 135 edifici e 52 ponti, macchinari e strutture varie, calcolando il rapporto tra la distanza dall’epicentro della bomba e i danni provocati. Il rapporto finale è contenuto in tre volumi con ottomila immagini. Come detto, rimane top secret fino al 1960, ma diviene una sorta di “bibbia” dell’urbanistica americana, che ne trae notevoli insegnamenti.
Una volta tolto il segreto, anziché in un archivio, le fotografie finiscono nel garage di uno degli ingegneri coinvolti nel progetto. Ma per un incidente la casa va a fuoco, e le istantanee vengono in gran parte distrutte, tranne una piccola parte che però viene gettata via, forse inconsapevolmente. Non se ne sa più nulla finché Don Levy, ristoratore di Watertown, una cittadina del Massachusetts, nel 2000 ne ritrova, per caso, una sessantina mentre passeggia con il suo cane in una notte piovosa. “Sul marciapiede – racconta Adam Harrison Levy nel saggio che ricostruisce la vicenda – l’uomo si imbatte in un cumulo di immondizie: vecchi materassi, scatole di cartone, qualche lampada rotta. Nel mucchio scorge una valigia. La prende, apre le fibbie. Dentro, una pila di foto in bianco e nero, alcune piegate o strappate, di edifici distrutti, travi contorte, ponti crollati, immagini di una città in rovina”. Ne comprende subito l’oggetto, una Hiroshima mai vista prima così in dettaglio, ma non ne realizza subito il reale valore storico documentario.
Un amico gli suggerisce di contattare un esperto gallerista di New York e, grazie a questi, nel 2006 si risale al proprietario della valigia, Mark Levitt. L’uomo è stupefatto per il ritrovamento perché pensa che le foto siano ancora nella cantina della sua casa. Anzi è sicuro di avere altro materiale relativo a quelle ricerche. Racconta che a dargli le immagini è stata un’amica, Nancy Mason, figlia di Robert L. Corsbie, ovvero il responsabile del rapporto su Hiroshima – morto con la moglie nel citato incendio del 1967 – affinché la liberasse di quanto si era salvato dalle fiamme.
La loro definitiva acquisizione ed esposizione allo Icp – a cura di Erin Barnett, vice curatrice delle collezioni, con la collaborazione di Philomena Mariani, direttore delle pubblicazioni – offre oggi l’opportunità per riflettere ancora una volta su limiti e conseguenze dell’uso bellico dell’energia atomica, nonché sulla politica nucleare portata avanti dal termine della seconda guerra mondiale fino a oggi dagli Stati Uniti e dalle altre potenze che hanno arsenali atomici.
Soprattutto in America l’esposizione sta facendo discutere. I bombardamenti rimangono un argomento controverso. “Nel 1994 – si legge infatti nell’introduzione del catalogo (New York-Göttingen, Icp/Steidl Plubishers, 2011, pagine 248) – curatori e storici del Museo Smithsoniano Nazionale dell’Aria e dello Spazio cominciarono a organizzare una mostra legata al sessantesimo anniversario del bombardamento, incentrata sull’Enola Gay, il bombardiere B-29, restaurato di recente, che trasportava la bomba sganciata su Hiroshima. La proposta della mostra fu osteggiata dai gruppi conservatori, incluse la Legione Americana e la Air Force Association, in quanto troppo revisionista e anti americana. Avrebbe minimizzato sia l’aggressione militare giapponese sia il valore americano”.
Andando oltre le disquisizioni ideologiche, le fotografie di “Hiroshima: Ground Zero 1945” e le altre tratte dalla collezione permanente dello Icp, confermano la tremenda forza distruttrice della bomba, mentre i saggi di John W. Dower, Adam Harrison Lavy e David Monteyne pubblicati nel catalogo analizzano i motivi per i quali la bomba viene costruita, come si giunge alla decisione di utilizzarla, nonché le sue ripercussioni sull’urbanistica e l’ingegneria.
Concentrandosi sulle immagini, si nota la presenza limitata di persone; si tratta sostanzialmente di pochi sopravvissuti, alcuni soccorritori. Eppure, si legge nel rapporto segreto consegnato al Governo, “il risultato che colpisce di più della bomba atomica è il gran numero di vittime. Il numero esatto non si saprà mai data la confusione creatasi dopo lo scoppio: persone considerate disperse potrebbero essere arse negli edifici crollati, finite nelle cremazioni di massa”. Ciononostante i tecnici si concentrano sugli edifici, sulle cose. Ecco allora la foto dei magazzini Odamas, i più grandi della città, di cui rimane solo uno scheletro aggrovigliato di lamiere. O quella della scala della Biblioteca Asamo, costruita nel 1926, senza più muratura e deformata dal calore. O, ancora, la veduta di ciò che resta all’interno dell’auditorium cittadino: un rudere sventrato coperto di cenere e detriti. Ma c’è anche l’immagine di una scuola elementare, danneggiata e tuttavia rimasta in piedi – come avvenuto solo al dieci per cento degli edifici cittadini – perché costruita con criteri antisismici d’avanguardia per l’epoca.
Ma, per ciò che evoca, la più terribile tra le foto è forse quella di una sedia con una giacca appoggiata allo schienale. La sedia sembra intatta, ma la giacca è in gran parte bruciata: apparteneva a un ragazzino che al momento dell’esplosione si trovava all’aperto vicino al municipio, l’edificio 28, segnato con cura dai tecnici americani all’interno della fascia a tremilaottocento metri dall’epicentro. È evidente che chi imbraccia la macchina fotografica non ha alcuna intenzione artistica o storiografica, ma solo la distaccata attenzione che occorre per una documentazione tecnica. Le immagini delle rovine di Hiroshima sono un ottimo esempio degli usi scientifici e probatori della fotografia. “Scattate sotto l’egida del Governo statunitense, queste fotografie – si legge ancora nell’introduzione – sono state tutt’altro che neutrali. Utilizzate da scienziati, ingegneri civili e architetti, esse, affiancate da dettagliate analisi strutturali, hanno fornito informazioni essenziali per creare un’arma atomica ancora più potente e proteggere la vita e le strutture negli Stati Uniti da un attacco simile”.
Eppure le foto di guerra, a partire da quelle di Alexander Gardner e Mattew Brady che mostrano i morti della guerra civile americana caduti a Gettysburg, si mostrano sempre come documenti inequivocabili della brutalità di ogni conflitto. E così oggi – nonostante il dettagliato corredo di schemi, mappe, rapporti, spiegazioni tecniche frutto degli studi degli esperti dell’epoca – agli occhi del visitatore quelle istantanee di Hiroshima appaiono per quel che sono: testimonianza di una tragedia immane; immagini di una città polverizzata in pochi attimi, trasformata in un impressionante deserto; istantanee di un’agghiacciante assenza di vita. Di vite cancellate per sempre in un inatteso e innaturale baleno che infiammò un cielo che pareva sereno.
(©L’Osservatore Romano 22 luglio 2011)