Girovagando tra le ombre di Sassari di Ange de Clermont
Stamane la gente è al mare e io, sassarese di residenza da una vita, alla ricerca di buttar giù qualche chilo, ma sarei contento se anche fosse mezzo chilo, lascio i luoghi alti della città (300 metri sul livello del mare in Piazza Segni) e me ne vado a zonzo. Mi protegge, dal sole caldo, l’ombra degli alberi del marciapiede che corre lungo le piscine comunali, in via De Gasperi. Passo davanti alla chiesa parrocchiale della Sacra Famiglia, scappellandomi con devozione, oltrepasso l’ingresso della Galleria e l’emiliana Conad, osservo per un pò le macchine che arrivano dalla rifatta palazzina dell’Acquedotto, e vista la strada libera, mi sposto rapidamente, nel marciapiede della Scuola Elementare, proseguendo presso il relitto di un bosco di querce centenarie, imboccando direttamente quella che un tempo era via dell’Acquedotto e che poi è diventata Viale Adua. Forse uno dei più bei viali alberati della Sassari alta, se da poco, con varie argomentazioni, non avessero eliminato una quindicina di platani secolari. Quella cinquantina che restano abbelliscono ugualmente il viale formando una galleria con i lunghi rami frondosi. Questi alberi ti danno respiro e vita, gioia e malinconia al tempo stesso. Devi stare attento tra un passo condominiale e l’altro perché rischi di romperti il collo, tanto sono sgraziati: rozzezza e avarizia di condominii o di assessori a cui poco importa se un cittadino, non più aitante, tra una buca e l’altra si rompe il collo. L’albero, lo si constata, non è amato dai sassaresi in chiave, ma nemmeno dagli accudiddi. Sprizzano di gioia i taglialegna quando abbattono gli alberi, qualcuno, se potesse, strapperebbe le loro radici a morsi. Parlo naturalmente dei nuovi devastatori, di quella categoria di ingegneri e architetti e urbanisti che se non stai attento ti progetterebbero una palazzina in testa. Pare che abbiano formato una società segreta per abbattere dentro e intorno alla città tutto il verde possibile e immaginabile. Se qualcuno li condannasse tutti a mangiarsi, non dico molto, ma almeno mezzo metro cubo di cemento armato o disarmato, in pochi anni recupereremmo tanti di quegli alberi da spingerci ad amare questa città per altri versi così amabile.
Ho raggiunto Piazza Conte di Moriana che si è abbellita con la rotonda ricoperta da un prato inglese, mentre i giardini davanti alla Facoltà di Lettere e Filosofia, un tempo lussureggianti li hanno ridotti al minimo, per dare opportunità ai devastatori notturni di compiere ogni nefandezza. Per farla breve, quello che fu un rigoglioso spazio verde, ora è ridotto a quattro alberi, che fanno da becchini alla morente Facoltà di Lettere e Filosofia, dai muri imbrattati da farlocchi graffitari. I tempi della Facoltà di Magistero son finiti da un pezzo e con essi se ne sono andati il mitico e fantasioso Marcello Lelli, lo stravagantissimo Padre Guidubaldi con i suoi teatri tenda, il focoso Cavallini e numerosi altri della partita: gli ultimi stanno per andarsene in pensione e il giro di boa sarà compiuto.
A volte in Viale Adua o in Via Roma incontro l’annoso e longevo Massimo Pittau che continua a lavorare sodo e a sfornare saggi e studi. Due chiacchiere, dei ricordi e una stretta di mano e poi lui sale verso via Gramsci, mentre io scendo in città. Date le spalle all’ingresso dei graffiti della Facoltà, per via Catalocchino, raggiungo Viale Dante, altra bella oasi verde della città, forse il viale in cui uomini, macchine e alberi, procedendo ciascuno nella propria corsia, hanno raggiunto l’armonia. Peccato che con le geniali panchine tondeggianti agl’inizi e alla fine di ogni rambla, venga impedita la passeggiata in mezzo al verde delle aiuole e all’ombra degli alberi: qualche rotella dev’essere andata in tilt all’urbanista che ha progettato il tutto. Soltanto le ombre dei defunti, probabilmente, fanno pausa su quelle panchine semicircolari, che impediscono di fruire dei vialetti.
Raggiungo San Giuseppe e m’immergo tra le querce che dalla vecchia GIL conducono ai giardini pubblici. Il primo lotto verde, già dissacrato dall’Hotel Jolly, è oggi infestato anche da una stazioncina della metropolitana di terra. Mi affaccio così, finalmente all’emiciclo Garibaldi, presidiato ancora dal busto di Mazzini. Oggi, si nota meglio che è circolare. Sotto hanno costruito un parcheggio per auto che mi dicono costa l’occhio della testa, sopra è tutta piazza alla De Chirico: di umani, qualche ombra. Le palazzine sono tutte ridipinte di colori piacevoli, le geometrie sono marcate, ma quel movimento caotico che popolava quello spiazzo negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso è assente. Che tristezza, man mano che la città si rinnova, è quasi d’obbligo cacciar via le folle e i mezzi di trasporto che facevano caos e colore. Fanno la guardia due ascensori che salgono e scendono nel sotterraneo parcheggio,quando qualche patentato parcheggia o fuoriesce da sotto come un fantasma e poi silenzio. Sassari e il suo territorio comunale e provinciale, un pò d’olio e di vino, di cavoli e finocchi li produce ancora, ma secondo gli statistici, i figli nati sono abbondantemente superati da coloro che passano a miglior vita. Mancano i giovani, i bambini, gli adulti. In cambio abbondano gli anziani (guai a dire vecchi!) che si rifugiano in circoli o in centri sociali per fare qualche partitella a carte e ingannando il tempo che inesorabilmente passa. Attraverso, quasi in punta di piedi, l’emiciclo e salgo, per una via di cui non voglio leggere il nome, verso Piazza d’Italia, un tempo cuore pulsante della città. Il Palazzo della Prefettura è lindo, nella piazza son tornati i lampioni ottocenteschi, la pavimentazione è stata rifatta, ma il vertiginoso viavai d’un tempo non c’è più: qualche mamma o nonna con la carrozzella e dei bimbetti capriocciosi, qualche giovinetta con tacchi a spillo, tre anziani che parlottano a voce bassa come se fossero al cimitero! Ah quanto è spaziosa la Piazza, senza gente! In un angolo mi par di vedere De Chirico che bofonchia. Sotto i Portici tre notabili: un arzillo collega ottuagenario, un sessantenne che sembra un arnadio e l’editore Carlo Delfino che gesticola e lascia intendere. Sono incerto, mi sembra di navigare in un mare deserto, prendo il cellulare, chiamo mia moglie.
– Vieni a prendermi al cimitero!-
-Al Cimitero?- Resto interdetto e le rispondo: – No, mi faccio trovare davanti al Palazzo Bosazza, vicino al Banco di Sardegna, no, dell’Emilia Romagna!-
-Va bene- risponde mia moglie – Davanti al Palazzo Bosazza!-
Affretto i passi e mi dirigo verso Viale Umberto dove un pò di macchine passano e mi fanno compagnia, nell’attesa.