Nino Giagu Demartini: alla presidenza della Regione Sarda (1971-1973) di Francesco Obinu
1. Verso la prima giunta.
Un’alternativa al quadripartito. Falliti i tentativi degli uomini dei comitati di Nuoro e di Cagliari di dare un governo stabile alla Sardegna, venne nuovamente il turno della Dc sassarese e, per la prima volta, di Nino Giagu De Martini. Anche se esistevano pochi dubbi sul nome del prossimo presidente (Giagu, oltre ad essere stato il consigliere più votato nelle ultime elezioni, era anche a capo della maggioranza del comitato provinciale), la sua designazione dovette passare per la strada della mediazione con il gruppo moroteo, che era in minoranza a Sassari ma (grazie all’intesa con “Forze nuove”) era in maggioranza nel comitato regionale. Le trattative fra le parti si concretizzarono presto in una reciproca concessione: Dettori e Soddu ottennero che un loro rappresentante avesse posto nella giunta esecutiva del comitato provinciale di Sassari, e Giagu riuscì ad introdurre un esponente del suo gruppo nel direttivo regionale.
Questo primo accordo aprì la strada ad un processo distensivo più profondo, che permise ai due gruppi di concertare la formazione del governo regionale sulla base di un preciso progetto politico. Una riunione dei vertici di “Nuova autonomia”, tenutasi a metà novembre, ribadì la volontà del gruppo (già espressa da Dettori subito dopo la sua elezione a segretario regionale) di lavorare per una “gestione unitaria della Dc che veda impegnati, in una comune responsabilità, tutti i gruppi, in un rapporto rispettoso delle posizioni di ciascuno ed alieno da tentazioni più o meno velate di predominio”, allo scopo di rendere possibile l’alleanza “su basi programmatiche avanzate con forze politiche di chiara ispirazione autonomistica” e, quindi, la soluzione dei problemi dello sviluppo economico sardo.
La risposta di Giagu arrivò il 18, alla vigilia della sua designazione, e fu di segno opposto a quella espressa da Cossiga solo qualche mese prima. Egli affermò, infatti, la necessità di “avviare in Sardegna un processo di distensione e di composizione” nel partito: “È un discorso che può anche sembrare egoistico e cioè rilevante ai soli fini interni della Dc, ma che in realtà […] vuol dire garanzia di distensione e di stabilità per l’Isola, di credibilità del partito nei confronti degli altri partiti democratici, il che consente di porre le premesse di una collaborazione con altre forze politiche che […] non possono essere tenute ai margini di quel processo di rinnovamento e di concreto progresso che noi auspichiamo tenacemente. […] Questo processo di distensione va iniziato e accelerato nella mia provincia […] affinché tra il gruppo al quale appartengo e gli altri gruppi si manifestino sempre più marcate convergenze”.
Il 19 novembre la Direzione regionale democristiana approvò un documento che rifletteva il nuovo orientamento del partito: “Il confronto al quale la Dc si dispone non intende fermarsi alle formule che […] non sono di per sé sole risolutive e non vanno, perciò, né meccanicamente riprodotte in Sardegna per una non comprovata esigenza di coerenza al quadro politico nazionale, né aprioristicamente rifiutate. È convinzione comune a quanti più attentamente e con più vivo impegno riflettono sulla situazione attuale della Sardegna che sia necessaria una svolta politica e che debba essere aperto un dibattito largo e franco con tutte le forze autonomiste, comprese quelle dell’opposizione della sinistra […] sui problemi dell’isola, sui programmi da realizzare e sulle grandi linee politiche alle quali essi debbono ispirarsi”. Quello stesso giorno il Consiglio regionale elesse Giagu alla presidenza della Regione: ringraziando i colleghi del gruppo consiliare, il neo presidente confermò la volontà di portare avanti “il processo di distensione in atto all’interno del partito”[1].
Basisti, morotei e forzanovisti, dunque, si erano trovati d’accordo per la formazione di una giunta che rappresentasse un centrosinistra più avanzato rispetto al quadripartito nazionale, ormai in crisi da tempo[2]. La Dc sarda pensava ad una giunta disposta al confronto costruttivo con la sinistra consiliare e intendeva formare l’esecutivo assieme al solo Psi, in modo da non essere vincolata al Psdi[3] e al Pri, che non ammettevano alcun tipo di rapporto con il Pci e con il Partito socialista di unità proletaria (Psiup).
I movimenti della Democrazia cristiana suscitarono l’attenzione del Partito comunista, che, di fatto, rinunciò a contrapporre a Giagu un suo candidato.
Il veto di Forlani. Le reazioni delle altre forze politiche, compresa la Dc nazionale, non furono altrettanto favorevoli. Il 20 novembre il deputato liberale sardo Raffaele Camba raffigurò Dc e Pci “protesi entrambi ad un incontro” che tendeva “all’instaurazione della ‘repubblica conciliare’” e che chiamava la Sardegna a svolgere il ruolo della “cavia” scelta per valutare la tenuta della nuova formula di governo. Secondo Camba, Giagu aveva “aprioristicamente” rifiutato l’appoggio degli altri alleati del centrosinistra per cercare quello dei comunisti e dei socialproletari, “esponendosi al continuo ricatto dell’estrema sinistra”.
Anche l’ufficio stampa del Partito socialista unitario (che, di fatto, era ormai ridotto al solo Psdi e presto avrebbe definitivamente assunto quest’ultima denominazione) lamentò la volontà della Dc sarda, spalleggiata dal Psi, di cercare l’intesa con il Pci ai danni dei socialdemocratici, mentre il ministro socialdemocratico Luigi Preti giudicò “molto grave” l’operato della Dc sarda, che, agendo “all’insaputa dello stesso presidente del Consiglio”, aveva “discriminato i socialisti democratici ed i repubblicani”. E aggiunse: “Il bicolore Dc-Psi che si sta varando in Sardegna, anche per le dichiarazioni del nuovo presidente della Regione, di chiara apertura nei confronti dei comunisti, è una sconfessione totale del centrosinistra e della politica ad esso connessa”. Sulla stessa linea era la “Voce Repubblicana”, che definì la costituenda giunta Giagu “prima formula bicolore di importanza politica nazionale, scientificamente costruita come una apertura al Pci e al Psiup”.
Intanto il segretario nazionale democristiano, Arnaldo Forlani[4], aveva convocato a Roma per il giorno 23 Giagu e i vertici democristiani sardi: secondo indiscrezioni poi confermate da una nota de “Il Popolo”, Forlani chiese alla delegazione sarda (con Giagu c’erano anche Dettori e il capogruppo consiliare Spano) di condurre le trattative per la formazione della giunta regionale “nel quadro ampio della solidarietà democratica e quindi pienamente riferita alla collaborazione che la Dc persegue sul piano nazionale”. Gli ambienti di Piazza del Gesù, in sostanza, non avallavano l’orientamento del partito sardo verso il bicolore con il Partito socialista[5].
All’inizio di dicembre Giagu e Dettori ebbero un nuovo incontro, anch’esso interlocutorio, con Forlani. Il giorno 4 – dopo avere già ricevuto, una decina di giorni prima, l’appoggio della Gioventù aclista e dei movimenti giovanili sardi della Dc, del Psi, del Psdaz, del Pci e del Psiup –, Giagu potè registrare anche la confortante presa di posizione del segretario del Partito sardo d’azione, Giovanni Battista Melis, il quale definì “scandalosamente ricattatorie” le pressioni che le direzioni nazionali dei partiti del centrosinistra stavano operando sulla Dc sarda. “Il presidente della Regione sarda – disse ancora Melis – vorrebbe realizzare una politica al di fuori degli schemi obbligati e falliti di un centrosinistra che i ‘protettori romani’ vogliono imporre alla Sardegna […]. Il Partito sardo d’azione, che non può essere sospettato di ambizioni governative, di posizioni demagogiche e tanto meno di voler sopravvivere attraverso la corruzione del sottogoverno, sarà certamente sostenitore di chi avrà la volontà ed il coraggio di ridare alla Sardegna la dignità della sua autonomia”[6].
Il 9 dicembre, alla presenza di Forlani, si riunì il comitato democristiano sardo. Giagu e Dettori riferirono sulla posizione delle forze politiche e sociali attorno al tema della possibile “svolta” del governo regionale e sulla volontà dei democristiani sardi di dare corso ad una giunta che si caratterizzasse per un “programma pienamente adeguato alle esigenze dell’isola”, conformemente alle decisioni assunte il 18 novembre. Il segretario nazionale, pur riconoscendo alla Dc sarda il diritto di prendere in “piena autonomia” le sue decisioni, confermò i timori della Direzione centrale: il varo di una giunta che escludesse i socialdemocratici e i repubblicani (e che godesse dell’appoggio esterno del Pci) avrebbe potuto provocare una crisi del governo nazionale.
Il dibattito seguito alle relazioni introduttive visse di alcuni interventi, quelli di Covacivich e di Mariano Pintus, che non consideravano conclusa l’esperienza del centrosinistra organico, e di altri, come quello di Soddu, che, pur non volendo trascurare le preoccupazioni espresse da Forlani, ritenevano che la Dc non potesse sottrarsi al dialogo con tutte le forze democratiche e autonomistiche. Cossiga e Del Rio prospettarono una possibile alternativa nel coinvolgimento, accanto alla Dc, del Partito sardo d’azione, mentre Rojch fu estremamente esplicito nell’invitare il partito a non “subire il ricatto socialdemocratico”. Infine prese forma un ordine del giorno che impegnava la Direzione regionale a risolvere la crisi secondo i recenti deliberati del partito, ma tenendo presente il quadro politico complessivo: il documento fu approvato con 26 voti favorevoli e 10 contrari.
Giagu, Dettori e altri esponenti della Dc sarda cominciarono dunque a sondare gli umori delle altre forze politiche. Tirando le somme, emerse l’impossibilità di costituire il bicolore con i socialisti senza creare gravi tensioni dagli sviluppi imprevedibili, cosicché la Direzione regionale del 17 dicembre propose la soluzione della giunta monocolore appoggiata dal Psdaz e dal Pri: ma Forlani, incalzato dagli alleati di governo, compresi i socialisti, respinse anche questa ipotesi. Il presidente della Regione che, a parte Pintus e Covacivich, aveva l’intero comitato regionale dalla sua parte, decise allora (era il 21 dicembre) di rassegnare le dimissioni, certo però di ottenere un pronto reincarico: “Il mio tentativo non ha conseguito l’esito sperato – scrisse Giagu, ufficializzando il suo atto – e, nonostante l’obiettiva urgenza di dare un governo alla Regione, sento di dover rimettere al Consiglio il mio mandato per consentire un ulteriore ripensamento da cui potrà emergere la soluzione migliore […] nell’interesse della Sardegna”[7].
Dopo la pausa natalizia, com’era nelle attese, la Dc sarda designò nuovamente Giagu. Il 5 gennaio 1971 egli fu eletto presidente, sia pure soltanto al terzo scrutinio, perché il Pci, che nel frattempo aveva perso fiducia nella capacità della Dc sarda di attuare lasvolta progressista prospettata in novembre, stavolta schierò il suo candidato, il capogruppo Raggio. Il giorno 8 il confermato presidente incontrò per la terza volta Forlani: il veto della Direzione nazionale della Dc alla costituzione di una giunta bicolore con il Psi rimaneva, mentre era caduto quello sulla giunta monocolore.
Il 20 gennaio, infine, si tenne a Roma una riunione tra il quadripartito nazionale e i segretari regionali sardi della Dc, Dettori, del Psi, Tocco, del Psu, Cella e del Pri, Satta. Lo scopo di Forlani, Mancini, Ferri e La Malfa era di raggiungere in extremis un accordo per la formazione di una giunta regionale quadripartita. Dettori, però, ribadì il punto di vista della Dc sarda, e cioè che nell’isola non ci fossero più le condizioni politiche e generali per riproporre, con ragionevoli speranze di successo, quella formula di governo. Forlani non insistette oltre, anche perché Dettori gli aveva detto con chiarezza che l’esecutivo regionale del partito si sarebbe dimesso in blocco di fronte ad un diktat romano. Così, nonostante la nota contrarietà socialista al monocolore democristiano, il 25 gennaio 1971 Giagu si presentò davanti al Consiglio regionale per dare vita alla sua prima giunta.
Le condizioni economiche e sociali della Sardegna. Se sotto l’aspetto strettamente politico le difficoltà non mancavano, i problemi legati all’assetto economico e sociale dell’isola, che attendevano alla prova il governo regionale, erano anche più preoccupanti. Il sintomo più evidente di uno stato di sofferenza generalizzato era il fenomeno, sempre drammaticamente vivo, dell’emigrazione.
Non a caso Giagu pose in evidenza il problema nella premessa alle dichiarazioni programmatiche della giunta. Se da un lato l’emigrazione fungeva da “valvola di sicurezza”, perché garantiva un parziale allentamento della tensione sociale, dall’altro però – fece notare il presidente della Regione – essa arrecava alla comunità regionale danni incomparabilmente maggiori: “Siamo di fronte a una spietata logica di rapina che si esercita però, anziché col depauperamento tradizionale di materie prime e di risorse naturali, sulle risorse umane delle forze di lavoro”. Senza contare che una parte della tensione sociale, comunque, rimaneva senza sfogo e finiva per alimentare la criminalità: “I fatti criminosi, che pur si susseguono con una frequenza sconcertante, non sono altro che l’esplosione superficiale di un malessere che investe i punti nevralgici di tutta la società sarda”[8].
Nessuno dei comparti produttivi isolani, infatti, si trovava nelle condizioni di offrire stabilità occupazionale e retributiva. La pastorizia, è vero, costituiva una voce importante dell’economia sarda: le greggi dell’isola rappresentavano all’incirca un terzo del patrimonio ovino italiano e davano occupazione a oltre 25 mila addetti, ponendo la Sardegna all’avanguardia per la produzione del latte e del formaggio di pecora. D’altra parte, però, essa si presentava ancora come un’attività di tipo semi-nomade, legata a metodi di organizzazione del lavoro e di produzione tradizionali, poiché si basava quasi esclusivamente sull’allevamento brado e sul pascolo naturale, e trascurava la pratica degli erbai e dei prati artificiali, rimanendo così soggetta alla mutevolezza delle vicende atmosferiche e accusando, nelle annate siccitose, gravi perdite di reddito. L’azienda pastorale moderna, dotata delle infrastrutture necessarie all’insieme delle esigenze lavorative ed abitative, non esisteva, sicché anche le quotidiane condizioni di vita degli addetti inducevano un numero sempre crescente di giovani ad abbandonare l’attività.
L’agricoltura, all’inizio degli anni Settanta, appariva in grave crisi. Durante l’intero decennio 1961-1970 si erano verificate la diminuzione del 3% della superficie agraria utile e l’estinzione di oltre novemila aziende, per lo più di piccole dimensioni. Il tasso di crescita della produzione lorda vendibile era calato al 2% annuo, a fronte del 5,5% registrato negli anni Cinquanta; questo fenomeno si era accompagnato ad un pesante processo di abbandono colturale: esso riguardava duecentomila ettari e colpiva tutte le principali coltivazioni, a cominciare da quella cerealicola che, rispetto al decennio precedente, aveva perduto da sola oltre centomila ettari. L’azione concomitante di questi fattori aveva causato la diminuzione del reddito e la perdita di numerosi posti di lavoro. L’impegno che aveva animato la Riforma agraria, vale a dire la difesa e il consolidamento della piccola proprietà contadina (al censimento agricolo del 1961 i poderi con un’estensione non superiore ai cinque ettari rappresentavano il 61% delle aziende isolane), non era stato sostenuto con interventi adeguati; più in particolare, le direttive del Piano di rinascita in materia di trasformazione fondiaria, di incentivazione della produttività aziendale, di sviluppo della cooperazione nel processo di lavorazione, trasformazione e vendita, di meccanizzazione e, in generale, di ammodernamento delle aziende, non avevano avuto l’efficacia richiesta.
La maggior parte della forza lavoro persa dal settore agro-pastorale era stata assorbita dall’industria: se nel 1951 gli addetti alle diverse attività industriali avevano costituito il 21% sul totale degli occupati, nel 1971 la loro quota era pari al 39%. Tuttavia, almeno i quattro quinti dei nuovi occupati dell’industria lavoravano nel comparto edilizio (alimentato dal consistente fenomeno dell’abbandono delle campagne e dell’inurbamento), mentre gli altri rami industriali – nonostante i massicci investimenti nel comparto petrolchimico (Porto Torres, Sarroch, Assemini, Villacidro), in quello energetico e metallurgico (Porto Vesme) e in quello cartario (Arbatax), e nonostante l’elevata capacità produttiva (che nel periodo 1963-1971 era aumentata ad un ritmo medio annuo del 9%, a fronte del 5-6% registratosi nel resto d’Italia) –, per una serie di ragioni (che non è il caso di richiamare in questa sede) non erano stati capaci di rispondere in modo adeguato alla domanda di lavoro. A tutto questo vanno aggiunte altre due considerazioni: intanto, la crescita per “poli” della grande industria ad alta intensità di capitale aveva finito per marginalizzare, rispetto allo sviluppo economico, estese aree dell’isola (Oristanese, Gallura); poi, quello stesso modello di sviluppo, che concentrava la quasi totalità degli investimenti, aveva relegato in secondo piano l’industria dedita al mercato e ai consumi locali – quella manifatturiera tradizionale e quella alimentare, a bassa intensità di capitale, diffuse un po’ su tutto il territorio regionale –, con ulteriore danno per le microeconomie.
A costituire un problema nel problema poi, come si dirà meglio fra breve, si aggiungeva la gravissima situazione del comparto minerario[9].
2. La prima giunta Giagu.
Il programma di governo. Nelle sue dichiarazioni programmatiche Giagu criticò il modello di sviluppo capitalistico che, sulla scorta dei promettenti risultati che esso aveva prodotto in Italia durante gli anni del “miracolo economico”, era stato introdotto agli inizi degli anni Sessanta anche in Sardegna, con la speranza che inducesse un processo “autopropulsivo” di espansione economica: “Oggi bisogna coraggiosamente prendere atto che quella era una illusione e bisogna imboccare nuove strade e ricercare alternative”, disse il presidente.
Giagu mostrava di avere le idee molto chiare su quali dovessero essere le “nuove strade” da percorrere. La Regione doveva innanzitutto riappropriarsi di tutta la forza della sua autonomia statutaria e non lasciare che lo Stato la esautorasse sulle questioni vitali dello sviluppo economico e del progresso sociale della Sardegna; doveva poi abbandonare i criteri di pianificazione economica adottati fino a quel momento – criteri che, appunto, facevano capo alla più generale politica dell’intervento statale per il Mezzogiorno – e sostituirli con altri che permettessero di “promuovere la crescita economica secondo una dimensione di maggiore giustizia e di una più marcata dignità umana”. A questo scopo la Regione doveva adoperarsi per la realizzazione di due fondamentali pre-condizioni: in primo luogo, i piani operativi per lo sviluppo e per la localizzazione industriale dovevano essere affidati all’iniziativa pubblica e sottratti agli interessi particolari dell’industria privata e alla “logica del mercato”, fattori questi che avevano causato sia gli squilibri nella crescita economica fra le diverse zone dell’isola, con il conseguente aggravamento dell’emarginazione di vasti territori, sia lo sviluppo caotico e disarmonico dei processi di urbanizzazione; in secondo luogo, si doveva dare corso ad una “effettiva riforma delle strutture agrarie”, che avesse i suoi punti qualificanti nell’“aumento del potere contrattuale degli agricoltori” e nella “eliminazione di qualsiasi forma di rendita parassitaria”.
Queste direttrici fondamentali dovevano costituire, per così dire, l’anima del Piano di rinascita e, più precisamente, del secondo piano quinquennale e del quinto programma esecutivo, che erano gli strumenti con i quali il governo regionale si proponeva di conseguire tre obiettivi strettamente interdipendenti: la piena occupazione, l’equilibrata distribuzione territoriale delle attività produttive e lo sviluppo quantitativo e qualitativo dei servizi e dei consumi sociali. Perché la piena occupazione non restasse (come fino allora era accaduto) un traguardo raggiungibile soltanto sulla carta, la giunta prevedeva di fare precedere a qualunque iniziativa la valutazione della offerta e della domanda di lavoro per il quinquennio a venire, tenendo presenti l’incremento demografico e la mobilità dei lavoratori per settori produttivi e per aree territoriali, in modo da determinare l’esatto “fabbisogno finanziario da destinare agli investimenti direttamente produttivi e agli investimenti per i servizi che possono appagare consumi privati e collettivi”. D’altra parte, la pianificazione quinquennale non poteva essere formulata che avendo come riferimento basilare quello delle “zone territoriali omogenee”, in modo che lo sviluppo delle diverse attività produttive potesse essere programmato sia in riferimento alle potenzialità agricole, industriali e turistiche di ciascun territorio, sia in riferimento alle “necessità occupazionali preventivamente accertate” per ciascuna zona. Secondo queste stesse linee, infine, si doveva pianificare lo sviluppo dell’edilizia abitativa, scolastica e ospedaliera, e quello del sistema dei trasporti in modo da eliminare le disarmonie e gli scompensi esistenti nella distribuzione dei servizi tra centro cittadino e periferia e tra città e campagna.
A questo punto Giagu tornava a porre l’accento sul tema della piena ed effettiva autonomia della Regione. La programmazione regionale, infatti, poteva avere successo soltanto in presenza di risorse finanziarie certe: “Si deve arrivare a considerare le risorse finanziarie disponibili […] non più come una quantità dipendente da decisioni altrui ma come una grandezza che sarà determinata a seconda degli obiettivi che si vogliono conseguire”. La giunta, dunque, avrebbe indicato nel prossimo documento quinquennale, “con sufficiente esattezza, il complesso delle risorse finanziarie necessarie per il conseguimento degli obiettivi di piano”, e avrebbe contrastato la tendenza statale a sottoporre a contrattazione le richieste avanzate dagli organismi regionali.
Tutto questo, però, non poteva prescindere da un “ripensamento dell’autonomia politica della Sardegna”, per cui Giagu preannunciava la volontà della giunta di aprire “un momento costituente che parta dalla riforma dello Statuto e che veda impegnate non solo le forze politiche al livello del Consiglio regionale ma coinvolga le più dirette genuine espressioni della volontà popolare, in modo che il nuovo Statuto sardo, la Carta costituzionale della nostra autonomia, divenga una conquista popolare che apra una fase nuova nella storia del nostro popolo”. Il processo di riforma statutaria, in buona sostanza, doveva fornire all’istituto autonomistico gli strumenti atti a dare maggiore risalto alla voce della società rispetto alla mediazione politico-partitica. Così i sardi avrebbero potuto affermare compiutamente la loro volontà e non subire passivamente decisioni prese fuori dall’isola.
Teorizzando una Regione capace di “far pesare nel gioco della democrazia gli interessi popolari”, Giagu chiudeva il cerchio delle sue argomentazioni, che aveva aperto parlando della priorità della piena occupazione: “Soltanto la piena occupazione delle forze di lavoro può costituire la base per un effettivo controllo sociale dello sviluppo economico e per aprire una fase di maggiori conquiste democratiche da parte delle classi popolari. […] La scelta prioritaria della piena occupazione prefigura quindi il modello di società del lavoro che l’istituto autonomistico deve assumere come proprio compito di costruire, invece di limitarsi ad un ruolo di passiva acquiescenza rispetto ai rapporti attualmente esistenti”.
Il presidente della Regione concluse il suo intervento enunciando i provvedimenti urgenti per i quali la giunta chiedeva la rapida approvazione del Consiglio: il “piano della pastorizia”, che si poneva l’obiettivo di migliorare la resa economica della produzione aziendale, la ripresa dei programmi di irrigazione e la regolamentazione dei compiti dell’ente regionale per l’agricoltura, la riforma dell’Amministrazione regionale attraverso un più ampio decentramento delle sue funzioni a favore degli enti locali, il progetto sulla pianificazione urbanistica e quello sul diritto allo studio, che aveva lo scopo di rimuovere “qualsiasi causa di ordine economico e sociale che possa in qualche modo impedire l’accesso dei soggetti meritevoli ad ogni ordine e grado di scuola”.
Il dibattito consiliare. Il dibattito in aula non prestò attenzione soltanto ai punti del programma di governo, ma si concentrò anche intorno alla scelta democristiana di dare vita ad una giunta monocolore: un fatto che in Sardegna non si verificava dal lontano 1957 e che Giagu, in chiusura del discorso programmatico, aveva giustificato con la necessità di dare vita ad un governo che mettesse subito mano alla soluzione di quei problemi che, se trascurati, avrebbero potuto causare “un grave deterioramento della situazione politica ed economica” dell’isola. Mentre a Roma si discuteva di alleanze e di equilibri, insomma, la Sardegna non poteva aspettare: “La formazione del governo regionale non può essere subordinata alle vicende, spesso non sufficientemente chiare, della vita politica nazionale. Abbiamo così ritenuto nostro dovere assumerci tutta la responsabilità, mettendo in secondo ordine i problemi di formula e puntando invece su quei contenuti programmatici sui quali si sono verificate convergenze significative da parte delle forze politiche democratiche presenti nel Consiglio regionale, delle organizzazioni sindacali e di altre manifestazioni di interessi popolari”.
Le affermazioni di Giagu furono duramente criticate dalla destra consiliare, che non esitò ad utilizzare toni quasi catastrofisti. Secondo il missino Gianfranco Anedda, che definì le dichiarazioni programmatiche “il discorso delle cose ovvie” e delle “enunciazioni astratte”, tutta l’operazione che aveva dato vita al monocolore rivelava “lo scoperto tentativo di inserire i comunisti nell’arco della maggioranza”, perché il Pci, a suo dire, era il “garante” della giunta che si stava apprestando con l’appoggio esterno dei sardisti, così come sarebbe stato il garante del bicolore Dc-Psi, se questo avesse avuto corso. Efisio Lippi Serra, consigliere del Partito democratico di unità monarchica, definì il presidente della Regione la “macchina costruita dalla strategia comunista per abbattere gli ultimi ostacoli nella marcia di avvicinamento del Pci verso la cittadella governativa”, mentre “il dissenso apparente” espresso dai comunisti come dai forzanovisti gli sembrava nient’altro che una “commedia”, un “piano studiato” dai comunisti e dalle “correnti marxiste della Dc” per suggellare la loro intesa senza sollevare troppi sospetti. Dopo avere sottolineato che il ritardo economico e sociale della Sardegna aveva la sua causa principale nell’incapacità della Dc, “dilaniata da lotte intestine”, di dare all’isola giunte stabili, credibili ed efficaci anche nel confronto con il governo nazionale, l’esponente del Pdium concludeva pronosticando che il monocolore non sarebbe durato più di un trimestre, perché i sardi, i cattolici e la stessa Dc non avrebbero tollerato a lungo la “pericolosa svolta” a sinistra che esso sottintendeva, né le scelte di governo da esso operate, perché queste avrebbero causato “un conflitto inesorabile fra contadini e pastori” e “una guerra all’ultimo sangue fra impresa pubblica e privata”. E il liberale Sebastiano Medde, descrivendo una Dc “indulgente” verso l’estrema sinistra fino al punto di rischiare di essere da quella “condizionata” e infine “assorbita”, non si trattenne dall’evocare il pericolo della “fine della democrazia, della civiltà e della libertà”.
La reazione allarmata della destra dimostrava che quello di Giagu non era stato un discorso qualunque. Egli aveva indicato con estrema chiarezza i limiti dell’economia di mercato e la necessità di correggerli attraverso una pianificazione pubblica più attenta e puntuale: “La Regione si è lasciata in qualche modo sfuggire di mano il governo di alcuni fatti economici – aveva detto –, sia quando le attività economiche tradizionali non sono state modificate sia quando non ha sufficientemente controllato un tipo di espansione economica che porta inevitabilmente alla creazione di nuovi squilibri”. Il presidente della giunta, inoltre, aveva costantemente tenuto al centro delle sue argomentazioni il tema dell’impegno della Regione per sollevare le sorti delle fasce popolari svantaggiate e per modificare un sistema economico-sociale che rappresentava un freno alla piena democrazia: “Fino a quando esisteranno le condizioni per il mantenimento dei lavoratori in stato di cronica disoccupazione o di umiliante sottoccupazione sarà impensabile passare a fasi più avanzate di conquiste democratiche e di esercizio di potere reale per le classi lavoratrici”. Per questo egli non escludeva iniziative drastiche come l’esproprio delle terre appartenenti a persone che non praticavano l’attività agricola in modo professionale.
Non si trattava però (come lamentava la destra) di tesi “marxiste” o asservite all’ideologia comunista, ma di un programma di politica sociale ed economica molto avanzato e coincidente, per molti versi, con le tematiche del cristianesimo sociale più progredito. Del resto, gli esponenti comunisti non espressero un “dissenso apparente” ma, casomai, scetticismo: Paolo Cabras sottolineò che la sola parte convincente delle dichiarazioni era stata quella alla quale Giagu aveva affidato l’“autocritica”, sua e della Dc, in merito alle scelte politiche ed economiche sbagliate degli anni Sessanta; e Andrea Raggio, affermato che la volontà “democratica, autonomista e progressista” di Giagu era minata dalla discordia esistente fra le “sinistre democristiane”, discordia che finiva per lasciare “spazio alla iniziativa delle forze conservatrici e moderate interne ed esterne alla Dc”, rimproverò al presidente della Regione di non avere indicato a quali soluzioni di governo intendesse approdare la Dc una volta esaurita l’esperienza “provvisoria” del monocolore, e annunciò che il Pci avrebbe attuato “una opposizione chiara e ferma, da sinistra, in unità con le altre forze dell’opposizione di sinistra”.
Nel suo intervento Raggio aveva parlato anche dell’apertura della Dc verso il Partito sardo d’azione, definendola “una soluzione inadeguata e debole” e lasciando intendere, probabilmente per respingere le insinuazioni di Anedda, che essa non era stata caldeggiata dal Pci. Per Giagu, invece, la decisione sardista di appoggiare la giunta rappresentava un puntello fondamentale per il rilancio dell’autonomia: “La scelta operata con felice intuizione dal Partito Sardo costituisce certamente, in questo momento di crisi profonda dell’Istituto autonomistico, un fatto importante, soprattutto per il contributo originale che questo partito può offrire per la realizzazione di quella nuova fase costituente di cui abbiamo precedentemente parlato”. Il Psdaz, dal canto suo, confermò l’appoggio alla giunta per bocca di Giovanni Battista Melis, il quale si disse d’accordo sulle valutazioni di Giagu intorno agli errori della politica “meridionalistica” dello Stato e intorno alla necessità di rivendicare alla Regione un’effettiva autonomia decisionale, ma precisò anche che la bontà del programma di governo sarebbe stata verificata “giorno per giorno, nel concreto operare della giunta” e che agli esiti della costante verifica sarebbe stato condizionato il consenso sardista.
Il Psdaz, così, fu l’unica forza politica (oltre alla Dc, per la quale parlarono Pietro Soddu, Nino Carrus e Salvatorangelo Spano) ad approvare il programma della giunta Giagu, sia pure sub condicione. Come i partiti di destra e come il Pci, infatti, anche repubblicani, socialisti unitari (i socialdemocratici), socialisti e socialproletari (questi ultimi riaffermarono, in buona sostanza, le perplessità già manifestate dai consiglieri comunisti) dichiararono che avrebbero votato contro il monocolore. Mentre però Armando Corona (Pri) e Antonio Defraia (Psu) non perdonavano alla Dc l’abbandono della formula di governo quadripartita, il socialista Sebastiano Dessanay (in sintonia con la posizione della Direzione nazionale del suo partito) affermò che il centrosinistra classico era un’esperienza superata dal mutare delle condizioni storiche e politiche, e che per centro-sinistra doveva ormai intendersi “lo storico incontro tra le due grandi forze popolari del paese, quella cattolica e quella socialista”, in un bicolore di governo disposto al confronto con tutte le “forze politiche avanzate” del Consiglio regionale[10].
La replica di Giagu si tradusse, in primo luogo, nella difesa del monocolore come scelta politica responsabile: “Quando abbiamo ritenuto, noi democratici cristiani, di doverci assumere intera la responsabilità di governo dell’Isola non lo abbiamo fatto né per trasformismo congenito, né per ‘scaricare’ dolcemente i vecchi alleati, né per mascherare il tentativo di inserire il Partito comunista nella maggioranza di governo e tanto meno per insaziabile sete di potere. […] Il fatto è che noi ci troviamo ad essere il partito che più di ogni altro riceve consensi dal corpo elettorale e per questo motivo abbiamo il dovere di scontrarci ogni giorno con la dura realtà, con i problemi più scottanti e con le situazioni più gravi. […] In questa occasione, di fronte a una profonda crisi attraversata da vari partiti e soprattutto da quei partiti che avevano voluto e cercato di portare avanti la politica di centro sinistra […], non potevamo non prendere atto di questo stato di cose e non dovevamo tirarci indietro quando lo sbocco possibile sul piano politico era rappresentato solo dal monocolore”.
In secondo luogo, il presidente della Regione passò a respingere sia le accuse delle forze di destra, che avevano rimproverato alla giunta di volere seguire strade “pericolose”, sia le accuse delle forze di sinistra, che avevano messo in dubbio la capacità e la reale volontà della giunta di procedere sulla strada del cambiamento. Alla destra rivolse queste parole: “Quando, in piena consapevolezza e con doveroso senso di responsabilità, abbiamo ritenuto di dover dichiarare che le priorità della nostra attuale azione politica dovevano essere parzialmente o totalmente diverse da quelle che in altre occasioni avevamo scelto […], abbiamo ritenuto di fare il nostro dovere di politici e di sardi, dovere che ci impone spregiudicate analisi e soluzioni coraggiose. È perciò non condividibile […] il discorso di coloro che […] ci accusano di aver manifestato l’intenzione di voler percorrere vie diverse da quelle finora battute. Credono veramente costoro che la eliminazione della disoccupazione e la garanzia per tutti i sardi di lavoro in condizioni di dignità e di libertà sia un obiettivo raggiungibile senza contrastare la logica capitalistica, fino ad ora presente nella vita economica sarda? Oppure si ritiene che una industrializzazione diffusa ed equilibrata possa conseguirsi senza che intervenga, con tutti gli strumenti a disposizione, il potere pubblico; che si arrivi alla eliminazione della rendita fondiaria e dei profitti degli industriali senza una seria riforma agraria; o che si possa fare una decisa politica della casa e dei servizi civili senza combattere la speculazione dei suoli urbani e quindi non decidendo la regolamentazione della disciplina urbanistica?”. Passando poi a confutare le argomentazioni di quelle forze, “anche amiche”, che gli contestavano la volontà e la capacità di avviare a soluzione i problemi della Sardegna e lo accusavano di “neo centrismo”, disse: “Il monocolore cui si è dato vita, sostenuto e confortato dalla fiducia del Partito sardo d’azione […], ha una precisa e importante funzione da svolgere e con l’aiuto, la critica, il dibattito e il confronto che il Consiglio regionale vorrà offrire, si ha motivo per ritenere giusta e fondata la convinzione di coloro che ritengono valida la soluzione adottata e anche capace di avviare a soluzione i più urgenti e importanti problemi dell’isola”[11].
Il 27 gennaio, con un margine di due soli voti (37 favorevoli e 35 contrari), la prima giunta Giagu ottenne la fiducia del Consiglio regionale. Gli assessori furono scelti nelle persone di Lucio Abis (Agricoltura e foreste), Giovanni Del Rio (Enti locali, personale e affari generali), Albino Pisano (Finanze, artigianato e cooperazione), Salvatore Campus (Igiene e sanità), Alfredo Atzeni (Industria e commercio), Antonio Guaita (Lavori pubblici e trasporti), Paolo Dettori (Lavoro e pubblica istruzione), Giuseppe Masia (Rinascita, bilancio e urbanistica) e Pinuccio Serra (Turismo, spettacolo e sport). Giagu, che nel frattempo era diventato il leader della “Sinistra di base” in Sardegna, aveva avuto cura di assegnare un assessorato ai rappresentanti di ciascuna delle correnti della Dc sarda, con la scontata eccezione di “Forze nuove”.
La corrente di Ariuccio Carta e Severino Floris, infatti, pur dichiarando che avrebbe dato voto favorevole alla giunta, aveva deciso di non accettare incarichi assessoriali nell’ambito di un esecutivo che, come aveva avuto modo di dire proprio Floris durante il dibattito sulle dichiarazioni programmatiche, rappresentava una “mortificante ritirata” rispetto al tanto auspicato bicolore con il Psi: “Nessuna riforma seria potrà essere fatta in Sardegna se non si realizzerà […] una unità operativa tra tutte le forze che sono organicamente collegate con i ceti popolari dell’isola; democristiani e socialisti insieme possono proporre valide soluzioni per un utile confronto e per una dialettica collaborazione col Pci”. D’altra parte, aveva detto ancora Floris, “non è attribuibile al Psdaz, pur riconoscendogli una vocazione autonomistica ed una riconquistata linea progressista, una collocazione a sinistra del Psi”.
Intanto la Direzione nazionale della Democrazia cristiana cercava di tranquillizzare gli alleati di governo, sostenendo che l’assenso alla formazione della giunta monocolore sarda era stato dato unicamente per permettere la ricomposizione delle tensioni fra le forze politiche e, di conseguenza, per favorire l’avvio di una riflessione che avrebbe dovuto porre le basi per la formazione di una giunta quadripartita. All’interno del partito cattolico, però, ancora una volta si levò critica la voce dei forzanovisti di Donat Cattin: “La soluzione provvisoria e precaria data alla crisi regionale in Sardegna […] nella sua grande equivocità non può che trovarci dissenzienti, non solo per l’inadeguatezza di una formula anacronistica rispetto ai drammatici problemi dell’Isola, ma anche per i rischi che comporta un monocolore direttamente collocato, al di là dei propositi, tra l’esperimento Tambroni e l’operazione Milazzo[12]. È provato che il governo regionale si regge in aula con un solo voto di maggioranza per l’apporto determinante del Partito sardo, ma è in minoranza in tutte le commissioni. Esso non potrà quindi operare se non ottiene di volta in volta, attraverso difficili contrattazioni, voti di altri gruppi politici”[13].
Consapevole della precaria stabilità del suo esecutivo, Giagu, aprendo il 4 febbraio la prima riunione della giunta, lanciò un appello per una responsabile collaborazione di tutte le forze politiche, e affermò fra l’altro: “è necessario essere fedeli alle dichiarazioni programmatiche per un problema di credibilità verso tutti i sardi. Le dichiarazioni sono state, in certa misura, al centro di vivaci reazioni: è un fatto importante dopo un lungo periodo di stasi dell’attività amministrativa della Regione e di apatia intorno all’istituto autonomistico. Legandoci alle dichiarazioni ed attuando gli impegni in esse contenuti possiamo creare nuovi entusiasmi in un momento difficile”[14].
Le agitazioni dei minatori. La giunta, del resto, si trovò subito a dovere fronteggiare l’emergenza della crisi mineraria. L’industria estrattiva sarda, dopo essere cresciuta nel decennio post-bellico grazie alla consistente domanda di metalli e carbone proveniente dalle industrie dell’Italia settentrionale, si trovava ormai in grave crisi. Nel 1956 le quotazioni internazionali dei metalli avevano registrato il primo considerevole ribasso e le società minerarie sarde si erano trovate presto nell’impossibilità di sostenere i costi di estrazione dei minerali e di coltivazione dei giacimenti, cosicché diverse miniere, dalle quali si estraeva ferro, piombo, zinco e bario, erano state chiuse già nel corso degli anni Sessanta. La crisi del settore piombo-zincifero era stata preceduta da quella del settore carbonifero che, in seguito alla riapertura dei mercati internazionali e alla successiva adesione dell’Italia alla Ceca[15], non era riuscita a fronteggiare la concorrenza di minerali più competitivi e aveva dovuto subire la chiusura di diversi giacimenti. Tra il 1946 e il 1961 l’industria mineraria sarda aveva perso 15 mila posti di lavoro e nel decennio successivo, nonostante il massiccio intervento finanziario pubblico, il calo produttivo e occupazionale era proseguito.
Finché nel 1971, a fronte di una situazione ormai insostenibile, i minatori decisero di dare nuova forza alla loro protesta. Già la notizia dell’aquisizione da parte dell’Ammi (l’organismo pubblico cui facevano capo gli enti minerari italiani) degli stabilimenti metallurgici della società “Monteponi e Montevecchio” (nel 1962, per fronteggiare la crisi del settore estrattivo, le due imprese avevano costituito una società unica) – operazione conclusa il 23 dicembre 1970 con l’autorizzazione del ministero delle Partecipazioni statali, ma all’insaputa della Regione – aveva provocato la reazione negativa dell’Ente minerario sardo e delle organizzazioni sindacali di categoria, che proclamarono uno sciopero di protesta per il 13 gennaio. Anche i partiti politici sardi espressero preoccupazione, e la Regione fece sentire la sua voce a Roma con un telegramma dell’assessore all’industria, Sergio Peralda: al di là del mancato coinvolgimento di Cagliari nella decisione del governo, le preoccupazioni maggiori degli amministratori sardi riguardavano la sottrazione al controllo della Regione e del suo ente minerario della fase trasformativa del ciclo minerario, mentre restava di competenza regionale il controllo della fase estrattiva. Il 31 dicembre anche Giagu inviò un telegramma al capo del governo, Colombo, e ai ministri delle Partevipazioni statali, dell’Industria e del Bilancio: “L’autorizzazione data all’Ammi […] con lo scorporo dell’attività di trasformazione dall’attività mineraria contraddice gravemente all’indirizzo unitario di risanamento del settore piombo-zincifero dato dalla Regione sarda in concordanza con i competenti organi governativi.La decisione relativa, assunta al di fuori di ogni preventiva consultazione con la Regione sarda, mentre indebolisce la liquidità dell’Ammi destinabile al potenziamento della sua attività mineraria in Sardegna, appare al di fuori del necessario coordinamento con la programmazione nazionale […]. Alla protesta politica della Regione sarda per il modo e la sostanza della decisione del ministero delle Partecipazioni statali, aggiungo ogni riserva del caso sulla competenza e la legittimità dei provvedimenti adottati che chiaramente interferiscono nella competenza amministrativa regionale”[16].
Nelle settimane successive corse anche la voce che la Montedison, impegnata nello sfruttamento delle miniere di Monteponi e Montevecchio, stava valutando la possibilità di procedere al licenziamento di un certo numero di lavoratori a causa del progressivo esaurimento dei minerali. Così, sebbene il ministro delle Partecipazioni statali, Piccoli, si affrettasse a diramare una comunicazione con la quale precisava di avere chiesto e ottenuto dalla Montedison di non procedere ad alcun licenziamento, il 9 febbraio seimila lavoratori a Cagliari e cinquemila a Sassari aderirono ad uno sciopero generale indetto da Cgil, Cisl e Uil allo scopo di sollecitare la Regione ad un conreto intervento presso il governo nazionale. Il giorno dopo, accompagnato dall’assessore all’Industria, Atzeni, e dal presidente dell’Ente minerario sardo, Fadda, Giagu si recò a Roma per incontrare Piccoli; presero parte al vertice anche l’amministratore delegato della Montedison, Mazzanti, quello dell’Ammi, Giasolli, e le rappresentanze nazionali e regionali dei tre maggiori sindacati.
Il 12 febbraio Giagu informò la giunta sugli esiti del vertice romano. In sostanza, Piccoli aveva prospettato un piano di investimenti da attuarsi in due fasi: la prima, di attuazione immediata, prevedeva la creazione di tremila e cinquecento posti di lavoro, mentre con la seconda sarebbero stati creati altri duemila posti di lavoro nell’arco di un quinquennio. Questi interventi avevano di mira lo sviluppo del territorio sulcitano e avrebbero riguardato il settore dei lavori pubblici e quello dei trasporti.
Per il settore minerario, invece, il governo garantiva il mantenimento dei livelli occupativi nelle miniere di Montevecchio e Monteponi, e prevedeva un piano di rilancio industriale grazie al quale si sarebbero creati nuovi posti di lavoro. A questo scopo il governo prospettava la creazione di una società unica fra Ammi, Ente minerario sardo e Montedison (con quest’ultima nella posizione di socio di maggioranza), che avrebbe avuto il compito di sviluppare la ricerca nel campo minerario e favorire la “verticalizzazione” del settore; Montedison, inoltre, avrebbe realizzato un nuovo polo petrolchimico nell’isola. Con tutto ciò, la realizzazione del piano di sviluppo dell’economia sarda rimaneva affidata, in gran parte, al capitale privato; soltanto successivamente, e soltanto dopo avere valutato i risultati dell’operazione, lo Stato sarebbe intervenuto nella nuova società con una partecipazione finanziaria.
Esprimendo il suo parere davanti alla giunta (parere che avrebbe ripetuto in Consiglio), Giagu disse che la prima parte del “piano Piccoli” meritava apprezzamento, mentre l’operazione Ammi-Montedison appariva inadeguata, perché la crescita dei livelli occupativi, a suo giudizio, poteva essere garantita soltanto dall’immediato impegno finanziario delle Partecipazioni statali, nel rispetto della legge 588. Il Consiglio regionale, informato a sua volta il giorno 16, si pronunciò in termini negativi sull’intera operazione: l’aula riteneva la strategia degli investimenti per “pacchetti” non adatta “a promuovere un equilibrato e organico sviluppo del territorio e tanto meno ad assicurare il rilancio dell’industria mineraria”, chiedeva al governo il rispetto del programma organico di industrializzazione previsto dalla legge 588, giudicava privo di prospettive concrete il progetto petrolchimico della Montedison, perché esso era avulso dal piano chimico nazionale, e chiedeva la sospensione del provvedimento sul passaggio all’Ammi degli impianti metallurgici.
Dopo il pronunciamento dell’assemblea, il 18 Giagu lesse la sua replica. Egli affermò, innanzitutto, che la battaglia per le miniere era vissuta dalla giunta come un aspetto della lotta dell’intero popolo sardo “contro gli sfruttamenti coloniali, contro i monopoli, contro le posizioni di rendita, contro le speculazioni di ogni genere e contro il centralismo autoritario”, in coerenza con le dichiarazioni programmatiche e, in particolare, con la volontà fermamente espressa di “creare un’alternativa al processo di sviluppo capitalistico”. Sottolineò poi come tutte le forze politiche e sociali della Sardegna, dagli enti locali ai sindacati, si fossero strette intorno al governo della Regione e ai parlamentari sardi per sostenerli nella lotta, dimostrando con ciò che la società isolana voleva essere presente in prima persona sul fronte della rivendicazione e non si accontentava più della “supplenza” esercitata dai suoi rappresentanti politici. Infine confermò il giudizio negativo già espresso il 16 sull’operazione Ammi-Montedison, e il giudizio positivo, ma subordinato ad un successivo e più compiuto esame, sul piano occupazionale proposto da Piccoli; quindi concluse: “A chi chiede precise garanzie sulla realizzazione dei programmi da parte della giunta regionale, noi diciamo che da parte nostra queste garanzie possono essere pienamente offerte. Ma ci sia consentito dire con altrettanta franchezza che esse intanto possono essere onorate in quanto, anche da parte di tutte le forze politiche più sensibili presenti in questo consiglio, sia assicurato un concreto appoggio e sostegno degli interessi superiori del popolo sardo, poiché questa è una di quelle battaglie che richiedono una sostanziale unità e un forte e deciso impegno di tutti”[17].
Nei giorni seguenti l’attenzione della Regione si spostò momentaneamente sul terreno del confronto istituzionale con lo Stato. Il disegno di legge sulla riforma tributaria, che proprio allora era all’esame della Camera, secondo la giunta ledeva l’autonomia della Regione, perché, riducendo il gettito fiscale destinato alla Sardegna, modificava una parte dello statuto sardo (il Titolo III, e in modo particolare l’articolo 8) senza che il governo avesse chiesto il preventivo parere degli organi regionali, come prevede l’articolo 54 dello stesso statuto[18]. Verso la fine di febbraio Giagu ebbe un incontro nella capitale con il ministro delle Finanze, il socialdemocratico Luigi Preti, al quale fece presente la necessità di apportare alcuni emendamenti al testo della legge, in modo da ovviare al conflitto di competenze che si apriva tra lo Stato e la Regione. Al di là dell’esito dell’iniziativa regionale (la riforma tributaria fu approvata dal Parlamento senza tenere conto delle rimostranze di Cagliari), vale la pena sottolineare ancora una volta come la strategia della “politica contestativa”, inaugurata dalla giunta Dettori alcuni anni prima, restasse centrale nella politica del governo regionale. Una ulteriore prova se ne ebbe poco tempo dopo, quando la sempre più scottante questione mineraria tornò ad imporsi all’attenzione generale.
Il 29 marzo cinquecento minatori del Sulcis-Iglesiente manifestarono a Cagliari contro la ventilata ipotesi di smantellamento degli impianti e di chiusura delle miniere che era seguita al dichiarato disimpegno della Montedison dal piano per il rilancio dell’industria estrattiva in Sardegna. Una delegazione di lavoratori ottenne di incontrare il presidente della Regione, il quale (utilizzando un megafono per riuscire a farsi sentire nell’atmosfera concitata) promise che presto si sarebbe recato nuovamente a Roma per far presente al presidente del Consiglio dei ministri, Colombo, la gravità del problema delle miniere sarde. Giagu si spinse ad affermare che se il governo non si fosse attivato per una pronta soluzione della crisi mineraria, la giunta si sarebbe dimessa. I minatori sembrarono parzialmente soddisfatti delle assicurazioni avute, ma presero comunque la decisione di occupare le miniere in attesa di novità sostanziali.
Il giorno 31 la questione fu dibattuta in Consiglio regionale. Un ordine del giorno bipartisan, firmato da Pietro Soddu, dal comunista Mario Birardi, dal socialista Sebastiano Dessanay, dal socialdemocratico Antonio Defraia, dal sardista Giovanni Battista Melis, dal repubblicano Armando Corona e dal socialproletario Armando Zucca, e approvato all’unanimità dall’assemblea, dava mandato a Giagu di agire perché il governo modificasse “radicalmente la sua posizione in ordine al problema minerario”, ribadendo il parere negativo sul “piano Piccoli”. Giagu, dal canto suo, confermò in sede istituzionale le intenzioni manifestate due giorni prima ai minatori, dichiarando che la giunta avrebbe fatto di tutto per difendere i livelli di occupazione.
Dopo alcuni incontri interlocutori, finalmente il 16 aprile la Regione ottenne dal governo l’impegno a costituire in tempi brevi la Società di gestione e ricerca mineraria sarda (Sogersa) fra Ammi, Ente minerario sardo e Montedison, con il sostegno delle Partecipazioni statali e nell’ambito del piano nazionale per il comparto minerario. Il giorno dopo i lavoratori posero fine all’occupazione delle miniere[19].
L’“allargamento” a sinistra. Intanto nella Democrazia cristiana sarda era proseguito il dibattito sul superamento del “monocolore di transizione”. Le correnti del partito si erano infine trovate d’accordo per la sostituzione del monocolore con una giunta allargata a sinistra, anche se ad un certo punto l’intesa era sembrata venire meno a causa di nuove tensioni createsi nella Dc sassarese.
Il 24 febbraio, infatti, Antonio Arru aveva rotto l’alleanza con Cossiga e Giagu e aveva portato il suo gruppo, “Iniziativa popolare”, sulle posizioni della minoranza del comitato, che raccoglieva “Nuova autonomia”, “Forze nuove” e la delegazione giovanile. La decisione di Arru aveva radicalmente cambiato lo scenario nel comitato di Sassari, perché Giagu e Cossiga si erano ritrovati in minoranza, mentre Dettori e Soddu erano diventati la nuova maggioranza. Un comunicato della “Sinistra di base”, emesso subito dopo l’elezione della nuova giunta direttiva (16 marzo), aveva denunciato l’accaduto come una manovra intesa a colpire la conduzione unitaria del partito in ambito regionale e la stabilità della stessa giunta Giagu. Ma Soddu aveva prontamente affermato di non volere provocare nascostamente e prematuramente una crisi, né dentro il partito né alla Regione.
Il chiarimento era stato efficace, tanto che in occasione della seduta del comitato regionale del 16 luglio Giagu e Soddu ribadirono congiuntamente che la giunta in carica era nata come “formula di necessità” e doveva considerarsi interlocutoria e preparatoria per formule più avanzate a sinistra. Soddu tornò poi a rivendicare alla Dc sarda “una larga base di autonomia decisionale” rispetto alla Direzione nazionale: “Non per affermare a tutti i costi una differenziazione che potrebbe anche non esistere tra le scelte centrali e le nostre scelte”, ma perché talvolta la realtà politica e sociale della Sardegna richiedeva “alleanze, modi di comportamento, programmi differenti” da quelli pensati per il resto del paese. Giagu, che si diceva “veramente lieto della relazione del segretario regionale”, pose l’accento sulla funzione fondamentale del monocolore: il superamento di un centrosinistra “un po’ stanco”, che appariva inadeguato a garantire la politica dei “mutamenti di rotta” della quale la Sardegna aveva stringente bisogno. Dopo avere confermato la bontà delle scelte programmatiche della sua giunta, il presidente introdusse anche un elemento di novità in ordine alla futura formula di governo: “La prossima giunta regionale non potrà nascere se non ribadendo e potenziando la sua capacità di contestazione autonomistica. […] Nella futura giunta, pertanto, con la Dc dovranno essere ineliminabili compagni di viaggio il Psdaz e il Psi”[20].
Giagu, insomma, sembrava avere abbandonato l’idea della giunta bicolore con i socialisti e mostrava di propendere per una giunta tripartita che comprendesse i sardisti e avesse dunque una connotazione più spiccatamente autonomista. Una prima occasione per l’apertura pilotata della crisi regionale parve profilarsi già il 23 luglio, in occasione della discussione sulla legge per le aree ad economia pastorale. Il clima in aula si fece difficile quando i consiglieri nuoresi di “Forze nuove” chiesero l’istituzione nel capoluogo barbaricino di un “Ufficio speciale per la gestione del piano sulla pastorizia”: la richiesta incontrò l’ostilità della giunta e poi quella del Consiglio, che la respinse. A quel punto, per bocca di Gonario Gianoglio, la corrente nuorese annunciò che avrebbe votato contro la proposta della giunta di risparmiare il previsto stanziamento regionale di 20 miliardi di lire e di utilizzare, per il finanziamento della legge, soltanto gli 80 miliardi messi a disposizione dallo Stato. La giunta chiese allora la sospensione dei lavori e Giagu manifestò l’intenzione di dimettersi. Infine, però, dopo numerosi contatti con gli assessori e con diversi esponenti democristiani e di altri partiti, il presidente della Regione decise di non aprire, per il momento, la crisi; l’assessore al Bilancio, Masia, comunicò che la giunta avrebbe stanziato i 20 miliardi di competenza regionale e lo scontro con “Forze nuove” rientrò[21].
Il tema del superamento del monocolore tornò ad imporsi all’attenzione dei partiti con la ripresa dell’attività politica, in settembre, quando la riunione della giunta esecutiva democristiana diede a Giagu l’occasione per affermare l’assoluta necessità di un “chiarimento politico”, da ricercarsi dentro il partito e con le altre forze politiche, per verificare se esistessero o meno le condizioni per un allargamento del governo regionale. La discussione prese avvio il 15 ottobre, quando il comitato regionale democristiano affermò, d’accordo con il presidente della Regione, l’esigenza di dare vita, anche se non nell’immediato, ad una giunta allargata alle altre forze “popolari, democratiche e autonomistiche”. Su questo punto, però, venne in luce una chiara discrepanza tra la prospettiva illustrata da Giagu in luglio e quella maturata nel frattempo nel comitato regionale, secondo il quale l’allargamento della giunta doveva passare attraverso la ripresa del dialogo fra la Dc e tutte le altre forze laiche e socialiste, lasciando intendere con ciò che ora la Dc sarda non escludeva più la possibilità di ritornare alla formula del centrosinistra classico. Giagu, tuttavia, non mostrò di dissentire e l’assise regionale del partito, dopo avere rinnovato (con la sola astensione di “Forze nuove”) la fiducia alla giunta in carica, il 22 mise a punto un documento che conferiva al segretario politico, Soddu, un mandato esplorativo verso i partiti interessati alla futura partnership di governo .
Uno dei possibili interlocutori, il Psi, espresse subito insoddisfazione per il nuovo rinvio imposto all’apertura della crisi politica. Il segretario socialista, Tocco, rendendo conto della posizione della segreteria regionale e del gruppo consiliare del suo partito, affermò che il governo monocolore era “ormai privo di credibilità anche in larghi strati della stessa Dc” e che il comitato regionale democristiano si era concluso all’insegna di un “unanimismo di maniera” con il quale si cercava di nascondere le gravi difficoltà create dalla “gestione integralista del potere politico” da parte della Dc. Il comitato democristiano – disse Tocco – non era stato in grado di portare un contributo positivo a quel “processo di chiarificazione che appare ormai non solo necessario ma improcrastinabile per uscire dall’attuale stato di crisi e di incertezza politica che da un anno è la caratteristica del governo monocolore in carica”. Anche gli ambienti politici di destra si dicevano contrari al rinvio della crisi. Già il giorno 16 i consiglieri missini Gavino Pinna e Gianfranco Anedda avevano accusato la Dc di “aver congelato, così come richiesto dai comunisti, la equivoca giunta Giagu”, dimostrando “un’ulteriore cedimento della Dc alle pressioni dell’estrema sinistra”. Nei giorni precedenti il gruppo consiliare comunista si era detto, sì, contrario all’apertura della crisi, ma avendo di mira esclusivamente una manovra che avesse come obiettivo la “riesumazione” del centrosinistra: tornare al quadripartito, ribadì il comitato regionale comunista del 18 ottobre, avrebbe significato la rinuncia della Democrazia cristiana all’annunciato impegno per un effettivo “rinnovamento degli indirizzi politici nella gestione della Regione”, e avrebbe mostrato in tutta evidenza “l’incapacità della Dc di affrontare in modo nuovo i gravi problemi dell’isola”. I comunisti consideravano conclusa l’esperienza transitoria del monocolore e premevano per accelerare i tempi della crisi e arrivare alla formazione di una giunta aperta a sinistra, come ribadirono ancora in occasione del comitato regionale del 25 ottobre[22].
La caduta della prima giunta Giagu. La discussione sull’apertura della crisi politica aveva finito per rallentare la normale attività del Consiglio regionale. Il 19 ottobre Giagu aveva sottoposto all’attenzione dell’assemblea il tema dei rapporti fra la Regione e lo Stato, denunciando le ripetute inadempienze del governo nei confronti della Sardegna: i frequenti rinvii, “con motivazioni inconsistenti”, delle leggi approvate dal Consiglio regionale, i ritardi e le ambiguità nell’affrontare i gravi problemi del settore minerario, la tendenza a non consultare, come era invece previsto dallo statuto autonomistico, la giunta e il Consiglio sulle questioni di interesse regionale. Così, prima di entrare nel vivo delle sue argomentazioni, egli aveva espresso l’augurio che il Consiglio volesse dare inizio a quel “ripensamento dell’autonomia politica della Sardegna” e a quel “nuovo momento costituente” di cui egli aveva parlato nelle dichiarazioni programmatiche come del “tema più importante del momento”.
L’atteggiamento del governo nei confronti della Sardegna, secondo Giagu, derivava da “una vecchia mentalità che concepisce ed erroneamente confonde l’apparato centrale come l’unica realtà politica dello Stato italiano”. Il documento programmatico del piano di sviluppo nazionale, che il governo aveva varato proprio in quei giorni, costituiva la prova evidente di quella concezione “involuta e conservatrice”, perché attribuiva gli atti di indirizzo, di coordinamento e di programmazione “esclusivamente all’amministrazione centrale”, cosicché alla Regione non veniva riconosciuto il ruolo di “ente dotato di poteri politici e amministrativi” ma semplicemente quello di “organo esecutore di programmi”. Giagu aveva concluso auspicando che il Consiglio regionale respingesse all’unanimità la linea accentratrice dello Stato, perché essa avrebbe comportato “la fine della Regione come istituto politico” e, quindi, il venir meno dell’unica forza in grado di affrontare con speranza di successo i problemi dell’isola: “Non chiudiamo gli occhi sulle cose: la Sardegna si va spopolando attraverso un esodo clamoroso, mai verificatosi in tali proporzioni fino ai nostri giorni; all’interno dei programmi, nei quali ci è riservato un piccolo ruolo subalterno, non si scorgono prospettive di occupazione per tutti e di arresto di questa tragica emorragia. […] Vogliamo solo che siano chiare le nostre responsabilità; che sia chiaro questo, soprattutto: l’avvenire della Sardegna non può essere difeso attraverso l’ordinaria amministrazione ma soltanto con uno sforzo intenso di buona volontà e di fantasia politica e di concordia operosa, al di sopra di quei piccoli interessi di parte che tanto spesso travagliano i popoli depressi. Se troveremo questa via ela prenderemo con fiducia io sono certo, senza peccare di ottimismo, che il destino della nostra Isola sarà diverso e i sardi conosceranno giorni migliori, perché la rinascita lascerà il mondo dei sogni per entrare tra le cose fruibili e reali”.
Il giorno successivo era cominciato il dibattito in aula, mentre il voto dell’assemblea era atteso, al più tardi, per il 21. Invece, quasi inevitabilmente, gli interventi dei consiglieri si erano presto focalizzati sulla precaria situazione del governo regionale. Le dichiarazioni di Armando Zucca (Psiup), Sergio Peralda (Psi) e Sebastiano Medde (Pli) avevano giudicato l’intervento di Giagu “evasivo” rispetto al tema centrale, che era il superamento della formula della giunta in carica: soltanto instaurando un governo regionale credibile, in grado di portare il confronto con il governo centrale sul piano dei fatti concreti, sarebbe stato possibile conseguire la “ricostruzione morale, politica e materiale che la regione attende”; altrimenti, le parole del presidente della giunta sarebbero rimaste “un’anima senza corpo”.
Il consigliere comunista Birardi, dal suo canto, era tornato sul documento dell’ultimo comitato regionale democristiano, giudicandolo un “arretramento” rispetto a quello del 19 novembre 1970: se quell’occasione era emersa chiaramente la volontà della Dc di non tornare all’esperienza della giunta quadripartita, il documento approvato il 15 ottobre, invece, pur non accogliendo “completamente” la linea favorevole alla riedizione del centrosinistra, non la respingeva nemmeno, e perciò risultava “ambiguo”. Il Pci – diceva Birardi – era favorevole ad una giunta formata da uomini della sinistra democristiana, del Psi e del Psdaz.
Per la Dc aveva preso la parola Nino Carrus. Innanzitutto aveva ricordato che la tesi del novembre 1970 escludeva la riproposizione del governo quadripartito in Sardegna; quindi aveva sostenuto che il monocolore era la sola formula di governo in grado di approfondire il confronto fra la Dc e i partiti di sinistra, perché stabiliva un canale di comunicazione privilegiato, capace di portare in luce le “significative convergenze” esistenti fra le due parti; sul tema dei rapporti Stato-Regione, l’intesa con i partiti di sinistra avrebbe favorito il varo di una riforma costituzionale da cui la Regione avrebbe ricevuto un effettivo potere decisionale in materie fondamentali come la scuola, la sanità e l’urbanistica. “Questo è il modo – aveva concluso – di far rientrare le destre ed il fascismo nel ghetto dal quale cercano di uscire”.
Il giorno successivo il dibattito era stato animato da diversi altri interventi, la maggior parte dei quali aveva espresso un giudizio negativo sull’operato della giunta e aveva attribuito alla Dc la responsabilità del fallimentare rapporto instaurato dalla Regione con lo Stato. Il sardista Mario Melis, pure rimproverando alla giunta di non avere fatto tutto il suo dovere, le aveva riconusciuto il merito di avere sostenuto una battaglia importante come quella per le miniere, e il socialista Giuseppe Catte aveva parlato della volontà del Psi di svolgere un ruolo di “interlocutore valido delle forze più vive del mondo cattolico e del mondo comunista”; ma l’intervento più significativo era stato quello di Salvatorangelo Spano: il capogruppo democristiano, infatti, aveva affermato, in chiara contrapposizione con Carrus, che la Dc intendeva superare la difficile fase politica cercando la soluzione nell’ambito del centrosinistra, e che con il Partito comunista non erano possibili accordi.
Infine, il 22 ottobre si era arrivati al voto. Nella sua replica, Giagu aveva difeso l’operato della giunta, che (nonostante il ruolo transitorio che tutti le assegnavano) era stata capace di andare oltre l’ordinaria amministrazione, portando all’approvazione del Consiglio due leggi importanti come quelle sul diritto allo studio e sulla pastorizia, e aveva fatto sentire la sua presenza in occasione di tutti i più importanti confronti con le istituzioni politiche e con i vertici del mondo industriale e sindacale. Essa dunque era stata capace, fin lì, di assolvere al compito per il quale era nata, e cioè “colmare il difficile vuoto politico e di potere apertosi con l’ultima crisi regionale, le cui radici vanno storicamente ricercate nella lunga crisi del 1969”[23].
Il documento finale, con il quale la giunta chiedeva la fiducia dell’assemblea per le dichiarazioni di Giagu sui rapporti Stato-Regione, era stato firmato da Spano e dal sardista Bruno Fadda; ad esso il Psdi aveva opposto un ordine del giorno che chiedeva il voto di sfiducia: a prevalere (36 favorevoli e 29 contrari) fu il documento presentato dalla Dc e dal Psdaz.
Tuttavia, quella “ambiguità” democristiana che Birardi aveva denunciato e che le parole di Spano non avevano certo attenuato non poteva piacere ai partiti di sinistra. Un’altra occasione per un nuovo attacco all’esecutivo regionale si presentò il 17 novembre, quando il documento di previsione finanziaria per il 1972 fu bocciato in commissione Bilancio. Pietro Soddu affermò che si era trattato di un “incidente tecnico” determinato dalla contemporanea e fortuita assenza di tre commissari democristiani; secondo il missino Pazzaglia, invece, era un chiaro segnale di crisi, perché seguiva alle prese di posizione di alcuni consiglieri e del comitato della Dc di Nuoro (che il 15 aveva chiesto ufficialmente le dimissioni della giunta), che dovevano essere considerati “atti di aperta sfiducia alla giunta Giagu”. Rilasciando una dichiarazione all’“Agenzia Italia”, Giagu da parte sua si limitò ad affermare che la valutazione del voto in commissione Bilancio doveva “legittimamente spettare agli organi competenti regionali del partito, specie in un momento nel quale il segretario regionale Soddu è impegnato in una delicata e responsabile opera di confronto e chiarimento, secondo il mandato conferitogli recentemente dal comitato regionale e nel cui ambito ogni azione, comprese quelle degli esponenti della giunta, deve necessariamente comporsi”[24].
Il serrato confronto sul superamento della giunta monocolore ebbe una pausa tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre, quando tornò di stringente attualità la questione mineraria. L’Enel, che era il concessionario delle miniere di carbone del Sulcis per la produzione di energia elettrica, il 26 novembre comunicò, con grande sorpresa della Regione, di volere cessare l’attività: l’elevato costo di estrazione, infatti, rendeva il carbone sulcitano antieconomico ai fini della produzione di energia, e le centrali termoelettriche lo sostituivano ormai con l’olio combustibile. Lo stesso comunicato assicurava che il personale in servizio nel Sulcis non sarebbe stato licenziato ma impiegato in altre attività dell’Enel in Sardegna (che non venivano precisate). La mancanza di un piano industriale a tutela dell’occupazione, insieme alla noncuranza con la quale l’Enel e il governo si erano mossi nei confronti della Regione sarda – lasciata all’oscuro di una decisione che l’ente per l’elettricità pare avesse preso fin dal 22 settembre –, mise in allarme la giunta regionale e la Direzione della Dc sarda. Quest’ultima, tramite il segretario Soddu, non esitò a coinvolgere anche i vertici nazionali del partito nell’accusa di disinteresse verso i problemi della Sardegna.
Giagu, dopo avere sottolineato che il concessionario Enel non poteva decidere unilateralmente di recedere dal contratto stipulato con la Regione, affermò che la sua giunta si sarebbe dimessa se il governo non fosse intervenuto. I contatti immediatamente avviati tra Cagliari e Roma sortirono il risultato di rinviare di un anno la chiusura degli impianti sulcitani. Per la Regione si trattava soltanto di “un primo risultato”; né ci fu il tempo per provare ad ottenere di più dal governo e dall’Enel, perché la crisi politica regionale, a lungo latente, maturò improvvisamente.
Il 4 dicembre, infatti, un comunicato del comitato regionale socialista affermò senza mezzi termini che la giunta in carica aveva “fatto ampiamente il suo corso, certamente e palesemente negativo”, aggiungendo poi in modo perentorio: “Il comitato regionale del Psi afferma che ogni ulteriore trattativa per la sostituzione della giunta monocolore è subordinata alle sue dimissioni”[25]. L’inequivoca presa di posizione del Psi, che corrispondeva alla richiesta comunista di una iniziativa unitaria delle sinistre che ponesse fine al monocolore democristiano, arrivava (verrebbe da pensare) con molto tempismo, poiché era ormai prossimo il voto in aula sul documento finanziario per il 1972, un voto che si annunciava difficile per Giagu e la sua giunta dopo la bocciatura di novembre in commissione Bilancio.
La Dc sarda, che voleva evitare di farsi cogliere impreparata, fissò una riunione strategica del suo organo direttivo per il 29 gennaio. In questo clima, dominato dall’avvicinarsi della caduta della prima giunta Giagu, si visse un periodo di stasi imposto un po’ dalle imminenti festività e un po’ dal prolungarsi delle votazioni per la scelta del successore di Giuseppe Saragat al Quirinale (il 27 dicembre fu eletto Giovanni Leone).
Il 24 gennaio iniziò in Consiglio il dibattito sul bilancio di previsione per il 1972. L’attenzione delle forze politiche era però ormai tutta rivolta al destino del governo regionale, come dimostrò (fra i tanti) l’intervento del consigliere comunista Pedroni, il quale (forte anche delle parole pronunciate in quei giorni a Nuoro dal vice-segretario nazionale, Berlinguer, che aveva auspicato la formazione di una giunta che comprendesse anche il Pci) chiese apertamente alla Dc di “superare ogni ambiguità” e di avere il coraggio di aprire la crisi. Pedroni fece appello ai sardisti e ai socialisti perché a loro volta lavorassero concretamente per il superamento del monocolore, senza cedere alle lusinghe di chi sperava di ridare vita al vecchio centrosinistra. Così, quando quattro giorni più tardi, il 28, il Consiglio poté votare a scrutinio segreto, il documento finanziario della giunta fu respinto, sia pure per soli due voti (36 contrari e 34 favorevoli).
A quel punto Giagu rassegnò le dimissioni, ma il margine esiguo fra i voti dei due schieramenti lascia capire che la Dc e la giunta non volevano aprire la crisi proprio in quella circostanza poco favorevole, cioè in seguito ad un voto di sfiducia annunciato. Infatti, dopo essersi dimesso, Giagu convocò una riunione per capire perché la giunta fosse andata in minoranza. Dalla riunione emerse che i sardisti non avevano aderito all’invito del Pci e avevano votato a favore della giunta. Ma i conti dicevano che all’esecutivo erano mancati quattro voti, e così quei voti non potevano essere che di quattro “franchi tiratori” democristiani: accertato che non si trattava di esponenti di “Forze nuove” (gruppo sempre molto critico verso la giunta Giagu), si fece strada l’ipotesi che i quattro dissenzienti fossero i consiglieri cagliaritani legati all’Esaf[26], ente per il quale il documento della giunta prevedeva una consistente riduzione dei finanziamenti.
Al termine della riunione Giagu non rilasciò dichiarazioni, ma, sulla base delle notizie ufficiose raccolte dalla stampa, si può affermare che la giunta era caduta per un atto di ritorsione operato da elementi della stessa Dc sarda. La riunione della Direzione regionale del partito del giorno 29, che, secondo il parere degli osservatori, avrebbe deciso l’apertura della crisi politica in modo indolore ed indipendente da pressioni esterne o interne , fu così superata dagli eventi e non ebbe luogo[27].
3. Tra la prima e la seconda giunta Giagu.
Il tentativo di Soddu e la “soluzione” Spano. Prima di tornare a presiedere il governo regionale, cosa che era nella sua ferma intenzione, Nino Giagu avrebbe atteso un intero anno, anche perché Pietro Soddu, deciso a forzare i tempi per costituire una giunta con i socialisti, aveva frattanto deciso di candidarsi in alternativa al presidente uscente. Il fatto, del tutto inatteso, creò una certa tensione nel partito, al punto che il mese di febbraio e più della metà di marzo si persero in un infruttuoso “braccio di ferro” tra gli opposti schieramenti dei due candidati. Alla fine, per superare l’impasse, la Dc sarda dovette ricorrere ad una manovra retrograda, vale a dire il varo di un nuovo monocolore affidato a Salvatorangelo Spano (una soluzione inaccettabile, come si sapeva, per le altre forze politiche). A tutto questo si aggiunga che dopo l’effimero esperimento della giunta Spano (marzo-settembre 1972) la Sardegna rimase senza governo per altri tre mesi e mezzo.
La candidatura di Pietro Soddu alla presidenza della Regione, sostenuta dalla corrente di “Forze nuove”, era stata avanzata il 5 febbraio. Tre giorni dopo la Direzione regionale democristiana aveva indicato i delegati che, secondo lo statuto del partito, dovevano designare il presidente della giunta: Antonio Melis, Angelo Rojch, Michele Corda, Giovanni Del Rio e Romolo Concas, cui si aggiungevano come membri di diritto il capogruppo consiliare, Spano, e il segretario regionale, Soddu. La presenza del suo antagonista nella delegazione, però, non lasciava tranquillo Giagu, il quale ottenne di subentrare a Corda.
La delegazione celebrò la sua prima riunione il giorno 9 senza trovare un accordo sul nome del presidente, cosa che avvenne invece il giorno dopo con la designazione di Soddu. Giagu e Del Rio avevano scelto di astenersi, mentre i quattro voti restanti erano confluiti sul nome del segretario regionale. L’indicazione della delegazione fu ratificata lo stesso giorno dal gruppo consiliare democristiano: Soddu ebbe 21 voti favorevoli (risultarono determinanti quelli del gruppo cagliaritano di “Sardegna domani”, che faceva capo a Lucio Abis) e 13 contrari (quelli dei basisti e quelli del gruppo di Del Rio, “Nuove cronache”).
Le insormontabili difficoltà alle quali sarebbe andato incontro Soddu furono preconizzate da Giuseppe Masia, che era stato uno dei tredici contrari, in occasione della sua dichiarazione di voto: “Al di là delle parole di convenienza, riconosco in Pietrino Soddu tutte le qualità di intelletto e di spirito per essere un degno e qualificato presidente della giunta regionale. Ma […] io ritengo che il segretario regionale del partito dovrebbe essere non elemento di frattura ma strumento di unità. Nell’atto in cui il collega Soddu apre la contesa presidenziale, accettando la candidatura offertagli dopo una votazione come quella che ha travolto la giunta presieduta dal collega Giagu, egli si pone in una situazione che non può certo propiziargli quella unanimità dei consensi che pur sarebbe auspicabile […]. Io che sono componente del Consiglio regionale fin dalla prima legislatura, posso assicurare i colleghi che mai un presidente, costretto alle dimissioni da un’avversa votazione consiliare, ha dovuto subire la mortificazione di non essere riconfermato, essendo stato sempre lasciato alla sua personale sensibilità e responsabilità se accettare o rifiutare il reincarico, che, ripeto, non è stato mai negato. In un’epoca iconoclasta come la nostra, che ripudia ben altri valori, la mia può apparire nostalgia di ‘tempi men feroci e più leggiadri’; ma noi non dovremo in alcun modo indulgere, io credo, all’oblio di un costume di vita morale e politica che conserva ancora la sua validità, nonostante la tristizia dei tempi”[28].
Pietro Soddu fu eletto presidente della Regione l’11 febbraio, al terzo scrutinio, con la maggioranza relativa derivante da 31 voti, tutti democristiani. L’intenzione di Soddu era di formare subito una giunta tripartita con il Psi e il Psdaz, mentre Giagu e Del Rio chiedevano che il presidente varasse un monocolore che governasse almeno fino alle elezioni nazionali di maggio, quando la più matura situazione politica generale avrebbe (secondo loro) favorito la formazione di una giunta allargata e stabile: la Direzione regionale, riunitasi il 25 a Cagliari, respinse però la loro richiesta, sicché i due decisero di lasciare i lavori in anticipo e, con un comunicato che fu detto “la lettera del rifiuto”, annunciarono che non avrebbero sostenuto Soddu. Questi non intervenne a commentare pubblicamente il fatto, ma i suoi alleati (Lucio Abis e Pinuccio Serra, in particolare) rivendicarono alla maggioranza interna la facoltà di designare il presidente della Regione e di scegliere la formula di governo.
Il giorno dopo la “lettera del rifiuto” fu resa pubblica dai suoi autori: “Non condividiamo i presupposti politici sui quali si vuol far nascere la giunta. Lo abbiamo già detto. Il tripartito che si vuole oggi realizzare non è una libera scelta della Democrazia cristiana perché in questo delicato momento nessun democristiano responsabile la approverebbe. È perciò un espediente per formare una giunta purché sia […]. Non esiste una piattaforma programmatica sulla quale si siano avute convergenze politicamente significanti. È perciò un’operazione di puro potere, di fazione e personale […]. Non condividiamo infine i presupposti morali su cui si vuole costruire questa giunta. Avevamo bisogno di pacificazione e abbiamo avuto invece un colpo di mano fra i più spregiudicati della storia del Consiglio. Avevamo bisogno di intesa e abbiamo avuto invece un intransigente disegno di emarginazione. Avevamo bisogno di approfondimenti reciproci e abbiamo avuto invece la più dura insensibilità a capire le nostre ragioni politiche e personali. Avevamo bisogno di rispetto ed abbiamo avuto atteggiamenti che vengono da un gioco implacabile di maggioranze. Alla prepotenza della maggioranza rispondiamo nell’unico modo con il quale ci è dato di difenderci: non voteremo, sia all’interno del partito sia nell’aula consiliare, una giunta che nasce su questi presupposti”.
Un comunicato della segreteria democristiana (retta, in seguito all’incarico presidenziale di Soddu, dai vice segretari Melis e Rojch) respinse le accuse, affermando che nella Dc vigeva “la più ampia libertà” di espressione, “anche in pieno dissenso” rispetto alla maggioranza: nessuno poteva mancare “al dovere di far fronte alle responsabilità che derivano da una convivenza liberamente accettata che non può non essere regolata da norme cui tutti i componenti debbono informare il proprio comportamento”[29].
Il 29 febbraio la Direzione della Dc sarda diede a Soddu l’assenso ufficiale alla costituzione di una giunta con socialisti e sardisti. Giagu e Del Rio, rappresentati da Piero Are, presero atto della decisione e il 6 marzo rassegnarono le dimissioni dal Consiglio regionale, con la motivazione ufficiale di volersi candidare al Parlamento (le elezioni erano fissate al 7 maggio).
La profonda divisione della Dc sarda non deponeva a favore della stabilità del futuro governo regionale: come immediata conseguenza, sardisti e socialisti dichiararono la loro indisponibilità a partecipare alla giunta tripartita. Il Psdaz, anzi, strinse un’alleanza elettorale con il Pci (nonostante la ferma opposizione di Anselmo Contu, che per protesta rinunciò alla carica di presidente del partito), mentre il segretario socialista Tocco il 13 marzo informò Soddu che il Psi non avrebbe dato il suo appoggio alla soluzione “di ripiego” del monocolore, verso la quale la Dc tornava forzatamente a propendere. Soddu, che nel frattempo aveva rassegnato le dimissioni da presidente ma era stato prontamente riconfermato dal suo partito e rieletto dal Consiglio regionale, provò a quel punto a sondare gli umori del Psdi e del Pri: constatata la loro prevedibile freddezza, egli rimise definitivamente il mandato il 14 marzo.
Intanto Giagu (imitato da Del Rio) aveva abilmente ritirato le sue dimissioni: gli ultimi fatti avevano creato un quadro più vicino a quello da lui prospettato in febbraio, anche se il momento opportuno del suo ritorno alla guida del governo regionale non era ancora arrivato. Così egli si adeguò allo spirito unitario che il partito sembrava avere ritrovato intorno al nome di Salvatorangelo Spano, il quale fu eletto presidente della Regione il 18 marzo con i soli voti democristiani. Il 24 Spano varò la sua giunta monocolore, nella quale Giagu entrò come assessore al Lavoro e pubblica istruzione. Della giunta facevano parte anche Del Rio (Industria e commercio) e Masia (Finanze); non c’era Soddu, ma vi entrava Pinuccio Serra (Turismo). Lo stesso Soddu in giugno rassegnò le dimissioni dalla carica di segretario, ritenendo che il suo gesto avrebbe favorito la distensione nel partito, anche perché la Dc era chiamata a reagire alla sconfitta subita nelle elezioni di maggio, che avevano premiato l’alleanza sardista-comunista.
Tra i pochissimi atti dell’esecutivo ci fu l’approvazione, il 6 luglio, di due proposte di legge avanzate proprio da Giagu. La prima riguardava la ripartizione dei fondi nazionali assegnati alla Sardegna per l’eliminazione dei cosiddetti “alloggi impropri” e per la costruzione di alloggi per i lavoratori, ripartizione che, in base al piano per l’edilizia popolare stilato dall’assessore al Lavoro, doveva avvenire per “zone omogenee”; la seconda intendeva rendere più agile il regolamento di attuazione della legge regionale n. 15 del 21 luglio 1964 sul “miglioramento delle condizioni di abitabilità in Sardegna”.
Le due proposte di legge non fecero in tempo, però, ad arrivare al vaglio del Consiglio regionale. Alla ripresa autunnale dell’attività politica Spano si trovò subito in difficoltà a causa del perdurante dissesto della contabilità regionale, grave al punto che gli ambienti politici sardi davano per certa la bocciatura del documento finanziario della giunta in commissione Programmazione. Inoltre, il Consiglio regionale intendeva chiedere conto alla giunta sia della passività dimostrata a proposito dell’insediamento, in agosto, di una base navale statunitense nell’arcipelago di La Maddalena, un fatto che era stato accompagnato da forti polemiche e preoccupazioni[30], sia della insoddisfacente programmazione per lo sviluppo industriale nella Sardegna centrale. Sicuro di non superare la difficile prova, anche perché nel frattempo i forzanovisti si erano uniti a tutti gli altri partiti (escluso il Pli) nella richiesta di aprire la crisi, Spano preferì dimettersi (28 settembre).
Il cammino verso la seconda presidenza. Durante il mese di ottobre la conflittualità presente nella Dc si accentuò. Alla frizione fra gli schieramenti di Giagu e di Soddu si aggiunsero i contrasti fra i tre comitati provinciali del partito in merito all’assegnazione delle presidenze dei principali istituti bancari dell’isola: il Banco di Sardegna, il Credito industriale sardo e la Sfirs, la finanziaria regionale. In base ad un primo accordo di massima, le tre importanti poltrone dovevano essere divise equamente; in un secondo momento, però (almeno per quanto si sa), il comitato di Cagliari aveva rotto gli equilibri chiedendo due presidenze, quella del Cis per Efisio Corrias e quella della Sfirs per Raffaele Garzia.
Sebbene questi sviluppi negativi finissero per ripercuotersi sulle trattative per la designazione del successore di Spano, le parti in causa trovarono infine un accordo intorno alla prospettiva (un po’ generica) di “una giunta di centrosinistra”, per la presidenza della quale fu avanzata la candidatura di Giagu; mentre quest’ultimo, però, avrebbe voluto compattare intorno al suo nome tutte le correnti del partito, Soddu e Dettori pensavano invece ad una maggioranza interna formata dal “cartello delle sinistre” (forzanovisti, morotei e basisti). Il comitato regionale del 13 ottobre non riuscì a venire a capo del nuovo nodo e, ancora una volta, la soluzione fu un passo indietro: Giagu ritirò la sua candidatura e l’assise democristiana avanzò nuovamente quella di Spano, che il 18 ottobre fu rieletto presidente dal Consiglio regionale. Nel frattempo i sardisti avevano confermato la scelta di stare all’opposizione, mentre la via del bicolore con il Psi non era percorribile, sicché anche a Spano non rimase che tentare di recuperare gli ex alleati del Psdi e del Pri, un’operazione che stavolta riuscì.
Il 10 novembre i basisti di Giagu e i morotei di Soddu si incontrarono a Sassari, senza però che le loro posizioni mutassero rispetto a quelle del 13 ottobre. Ciononostante, il partito decise ugualmente di dare il nulla osta a Spano per la presentazione in Consiglio della sua seconda giunta, che finiva per ripresentare quel quadripartito che la stessa Dc sarda aveva più volte definito “inadeguato” a governare l’isola. Le altre forze politiche, in modo particolare i sardisti e i comunisti, manifestarono subito una fortissima contrarietà, sicché la nuova giunta, che non poteva contare nemmeno sulla compattezza del partito di maggioranza relativa, non aveva alcuna probabilità di ottenere il voto favorevole del Consiglio regionale.
Infatti il 22 novembre l’aula negò la fiducia a Spano. Secondo indiscrezioni non controllabili, quindici voti contrari erano arrivati da altrettanti “franchi tiratori” e ben dodici di essi sarebbero stati democristiani. Una settimana più tardi, esprimendo il suo parere sulle intenzioni ancora “esplorative” della Dc sarda, il commentatore politico Milvio Atzori scriveva: “Il quadro politico è chiaro: lo ha detto la Dc, non noi, all’indomani del raggiungimento dell’accordo con Psi, Psdi e Pri. Non è chiara invece, anzi è più che mai confusa, la situazione interna, dove esistono tanti piccoli partiti pronti a darsi battaglia senza esclusione di colpi. Le esplorazioni non possono riguardare gli altri partiti. I problemi da risolvere la Dc li ha dentro di sé. Non si può continuare a giocare sugli equivoci. È necessario dire una parola chiara, definitiva (almeno per questa legislatura) su quel che si intende fare”[31].
I “piccoli partiti” della Dc sarda riuscirono infine a trovare un accordo sulla base di questi punti: il candidato democristiano alla presidenza, accettando la designazione, avrebbe contestualmente accettato di non chiedere un altro posto in giunta per la sua corrente; la candidatura sarebbe stata offerta in prima istanza a Nino Giagu De Martini; nel caso di un suo rifiuto, la candidatura sarebbe stata offerta a Pietro Soddu; i morotei di Soddu (o i basisti, se Giagu non avesse accettato la presidenza della giunta) avrebbero avuto due assessorati, mentre le altre correnti (“Forze nuove”, fanfaniani, dorotei e il “gruppone” di Contu e Corrias) ne avrebbero avuto uno a testa; i restanti tre assessorati sarebbero andati ai partiti alleati; infine, la formula della nuova giunta sarebbe stata quella del centrosinistra classico allargato ai sardisti, i quali, nella prospettiva di avere Giagu alla presidenza, avrebbero acconsentito a tornare nella maggioranza di governo.
Dopo avere consultato gli amici di corrente, Giagu accettò la candidatura. Il 7 dicembre ricevette la designazione ufficiale e lo stesso giorno fu eletto dal Consiglio, ma soltanto al terzo scrutinio (con 30 voti su 58, contro i 18 ottenuti da Raggio) e perdendo cinque voti democristiani (due schede bianche, due nulle e un voto per Raggio). Il 13 dicembre il presidente portò a termine il primo giro di consultazioni con i quattro partiti (Psi, Psdi, Pri e Psdaz) che avrebbero dovuto formare la giunta con la Dc; durante i colloqui egli aveva messo in chiaro che l’esecutivo regionale sarebbe stato composto da Dc, Psi e Psdi, mentre al Psdaz e al Pri sarebbe stato chiesto l’appoggio esterno. I contatti fra le delegazioni dei cinque partiti ripresero il 21 (subito dopo che Giagu aveva incontrato a Roma il presidente del Consiglio Andreotti, per discutere della situazione delle miniere di carbone )[32], ma Giagu dovette prendere atto dell’indisponibilità dei sardisti e dei repubblicani a svolgere un ruolo di semplice appoggio esterno; anzi, gli alleati della Dc avevano avanzato la richiesta di aumentare il numero degli assessorati, perché nessun partito restasse escluso dalla giunta.
Esisteva poi un altro problema, vale a dire il rifiuto del Pri di partecipare ad una giunta insieme ai sardisti, che i repubblicani ritenevano troppo vicini al Partito comunista. Giagu, però, era fermamente convinto (lo avrebbe ribadito con chiarezza nelle dichiarazioni programmatiche) che il governo della regione non potesse fare a meno della “componente più caratterizzata in senso autonomistico”, e non era disposto a sacrificare il Partito sardo d’azione all’adesione repubblicana. I repubblicani, del resto, chiedevano anche di avere subito un assessorato, mentre la Dc, che si era detta d’accordo su una prossima riforma che aumentasse il numero degli assessorati, aveva offerto al Pri la vicepresidenza del Consiglio regionale; soltanto in un secondo tempo, una volta varata la riforma, i repubblicani avrebbero avuto un posto in giunta (questa, inizialmente, sarebbe stata composta da sei assessori democristiani, uno socialista, uno socialdemocratico e uno sardista). I repubblicani furono però irremovibili nelle loro richieste, per cui la Dc decise di proseguire senza di loro.
Se lo scoglio rappresentato dalle condizioni poste dai partiti alleati era stato superato, subito altri problemi intervennero a rallentare il lavoro di Giagu. Il comitato provinciale di Cagliari, fermamente intenzionato a fare valere la legge della compensazione delle cariche, chiedeva che il comitato di Sassari, che esprimeva già il presidente della Regione, rinunciasse ad una delle sue candidature assessoriali: quella di Dettori o quella di Soddu. Paolo Dettori, allora, decise di ritirare la sua candidatura a favore del moroteo cagliaritano Guaita. Ma le difficoltà maggiori si presentarono qualche giorno dopo.
Il 12 gennaio 1973 Giagu presentò l’organigramma del nuovo esecutivo e subito divampò un generalizzato litigio intorno alle competenze assessoriali. L’organigramma prevedeva che il presidente regionale uscente, Spano, che apparteneva al cosiddetto “gruppone” cagliaritano di Corrias, fosse il titolare dell’assessorato alle Finanze; ma Spano reclamava il più importante assessorato alla Rinascita e bilancio, che invece Giagu intendeva affidare al nuorese Gianoglio. Per assecondare nei limiti del possibile Spano ed evitare così che nel partito si riaprisse la spaccatura che, con molta fatica, era stata chiusa da un mese appena, Giagu decise di aumentare il campo d’intervento dell’assessorato alle Finanze , aggregando ad esso la competenza sullo sport.
La manovra, lungi dal placare la tensione, finì per allargare lo scontento. Lo sport rientrava fra le competenze dell’assessorato al Turismo, che era stato affidato a Soddu, sicché i morotei accusarono il presidente della Regione di avere voluto colpire il loro leader “sul piano personale”; lo stesso Soddu scrisse a Giagu, avvertendolo che avrebbe rinunciato all’incarico se non gli fosse stata restituita la competenza sullo sport. A sua volta, il “gruppone” denunciò il tentativo di assegnare a Spano (che affermava di essere stato “platealmente offeso”) un assessorato di peso ancora non adeguato alla consistenza numerica e politica della corrente cagliaritana. “Forze nuove”, la corrente di Gianoglio, imputò a Giagu di avere affidato al consigliere nuorese l’assessorato alla Rinascita senza la richiesta competenza sull’urbanistica. Da ultimo, Giuseppe Pisanu lesse una perentoria dichiarazione del gruppo moroteo: “Avevamo incontrato il presidente Giagu e altri qualificati esponenti della corrente di ‘Base’: con essi avevamo concordato sull’esigenza di superare i contrasti. […] È sopraggiunta, inattesa e incomprensibile, la decisione espressa in aula dal presidente Giagu di alterare le competenze degli assessorati attribuiti alle correnti della sinistra del partito. […] Siamo giunti alla determinazione di invitare gli amici Soddu e Guaita a rinunciare alla designazione assessoriale, nel caso in cui non venga prontamente ricomposto il quadro d’insieme dell’accordo”[33].
Per mettere fine allo spiacevole episodio, che aveva sollevato l’indignazione delle forze politiche di opposizione e la preoccupazione degli alleati della Dc, Giagu fu costretto a trattare un’ulteriore redistribuzione degli incarichi e delle competenze assessoriali. Alla fine, Soddu ebbe l’assessorato all’Igiene e sanità, con l’aggiunta delle competenze sull’ecologia e sull’informazione; Spano accettò l’assessorato alle Finanze, ma insieme alla competenza sullo sport ottenne anche quelle sull’artigianato e sulla cooperazione; Gianoglio, infine, ottenne che al suo assessorato (Rinascita e bilancio) fosse attribuita anche la competenza sull’urbanistica.
4. La seconda giunta Giagu.
L’esigenza autonomistica. L’ultima laboriosa manovra permise a Giagu di presentare la giunta, che il 16 gennaio 1973 ottenne la fiducia del Consiglio regionale con 47 voti favorevoli (35 democristiani, 5 socialisti, 4 socialdemocratici e 3 sardisti) e 25 contrari (16 comunisti, 4 missini, 3 liberali, uno repubblicano e uno del Psiup).
La seconda giunta Giagu era composta da sei democristiani: Mario Puddu (Agricoltura e foreste), Antonio Guaita (Turismo, spettacolo, caccia e pesca), Pietro Soddu (Igiene, sanità, ecologia e informazione), Giovanni Del Rio (Lavori pubblici e trasporti), Salvatorangelo Spano (Finanze, artigianato, cooperazione e sport) e Gonario Gianoglio (Rinascita, bilancio e urbanistica); dal socialista Sebastiano Dessanay (Industria e commercio), dal socialdemocratico Antonio Defraia (Lavoro e pubblica istruzione) e dal sardista Pietro Melis (Enti locali, personale e affari generali).
Il giorno 12, prima dello scontro sugli incarichi assessoriali, Giagu aveva letto le dichiarazioni programmatiche della giunta[34]. Egli aveva voluto portare subito l’attenzione del Consiglio regionale sul tema della riforma istituzionale della Regione, che già la sua prima giunta aveva indicato come fondamentale per l’attuazione di un concreto programma di progresso sociale ed economico: “L’autonomia regionale deve essere lo strumento per dare al nostro sistema statuale, al nostro ordinamento giuridico una sempre maggiore democraticità, cioè per offrire ai cittadini che fanno parte della comunità regionale occasioni più frequenti di libertà e mezzi più efficaci di partecipazione”. Per questo la riforma dello Statuto regionale non doveva risolversi nella semplice riforma burocratica dell’apparato centrale, ma doveva mettere capo alla riforma dell’ordinamento locale e tradursi in un’“esaltazione degli Enti locali, efficienza degli Enti strumentali, creazione degli Enti comprensoriali”. Questi ultimi, in particolare, riunendo in consorzio amministrativo i Comuni di una stessa “zona omogenea”, dovevano rivestire la funzione di “soggetti autonomi della pianificazione territoriale intermedia fra quella della Regione e dei Comuni”.
Il presidente aveva ribadito che la soluzione dei problemi della Sardegna doveva avvenire nell’ambito della ripresa economica dell’intero paese (ripresa che, dopo la crescita degli anni Cinquanta e Sessanta, segnava ormai il passo) e in particolare nell’ambito della soluzione del problema meridionale: a questo scopo egli auspicava l’apertura di un dialogo con le altre Regioni meridionali, che portasse “a modificare in senso più rispettoso degli interessi del Mezzogiorno l’attuale pericolosa tendenza”. L’intesa fra le Regioni del Sud doveva servire a predisporre una comune linea d’azione fondata sul rilancio della programmazione economica, in modo che la soluzione del problema meridionale acquistasse una concreta “centralità” nella politica economica italiana: “Un piano occupativo a medio termine, collegato con la realizzazione di un preciso disegno infrastrutturale, una nuova strategia dell’espansione industriale, una nuova politica agricola, un programma di espansione dei consumi sociali sono i quattro punti qualificanti sui quali vogliamo instaurare il rapporto col Governo centrale”.
La “pericolosa tendenza” di cui parlava Giagu consisteva in quella “concezione centralista” dello Stato che il presidente aveva già denunciato in passato e che adesso tornava a condannare con la severa critica del Cipe, il Comitato interministeriale per le politiche economiche: in seguito alla sua istituzione, sosteneva Giagu, il governo centrale aveva ridotto la consultazione delle Regioni “a poco più che una formalità”, limitandola alla richiesta di un semplice parere su decisioni già prese. Questa involuzione dei rapporti Stato-Regioni colpiva gravemente l’autonomia sarda, perché ledeva il principio sancito dall’articolo 13 dello Statuto speciale, che “affida al piano economico regionale la funzione di atto amministrativo primario anche per l’intervento statale”.
Giagu aveva insistito anche su un altro punto del suo precedente programma di governo, e cioè la forte presenza pubblica nello sviluppo industriale dell’isola, poiché – aveva sottolineato – “la vicenda delle partecipazioni statali costituisce una delle principali inadempienze dello Stato nei nostri confronti”. Bisogna dire, a questo riguardo, che le “inadempienze” statali verso la Sardegna erano anche la conseguenza delle difficoltà di bilancio che il paese si trovava ad affrontare: gli effetti positivi del “miracolo economico” erano ormai esauriti e, come tutti i paesi occidentali, all’inizio degli anni Settanta l’Italia stava entrando in una fase di recessione economica (legata anche a fattori sfavorevoli della congiuntura internazionale, come la crisi petrolifera innescata dai conflitti arabo-israeliani) che nel corso del decennio si sarebbe vieppiù aggravata. Insomma, se il finanziamento pubblico della “rinascita” non era stato fin lì sufficiente, vi erano poche probabilità che potesse essere più consistente negli anni a venire. Anche perciò Giagu poneva con decisione l’esigenza di dare particolare rilievo ai rapporti della Regione con la Cee, nel momento in cui la Comunità economica europea veniva ad assumere un ruolo sempre più importante rispetto alla stessa pianificazione regionale: “La nostra condizione di insularità geografica ed economica, di regione prevalentemente agricola e di regione depressa ci induce ad essere molto più attenti che nel passato ai provvedimenti comunitari e all’atteggiamento del nostro governo sugli orientamenti della Cee”.
Le dichiarazioni della seconda giunta Giagu, insomma, ricalcavano in buona misura il programma, ancora tutto da realizzare, che era stato illustrato nel gennaio del 1971 (dalla progettazione urbanistica alla pianificazione degli insediamenti industriali, dalla riforma fondiaria al piano per la pastorizia). Alcuni importanti elementi di novità, tuttavia, erano rappresentati dall’impegno per la difesa ambientale e da quello per la limitazione delle servitù militari. La Regione si riprometteva di correggere situazioni pericolose per gli equilibri ambientali dell’isola, derivanti tanto dall’inquinamento industriale e dalla urbanizzazione caotica quanto dalla presenza di installazioni militari dotate di mezzi e armi nucleari: “La difesa ambientale e dei beni naturali va perseguita con intransigenza e il più rapidamente possibile anche perché essa costituisce la premessa per il nostro sviluppo turistico. Se vogliamo mantenere e consolidare una posizione di rilievo nell’industria turistica non possiamo fare a meno di programmare una rigorosa regolamentazione del territorio della Sardegna per evitare il suo degradamento”. Quanto alle servitù militari, il problema sarebbe stato sollevato non soltanto per liberare il territorio sardo da quelle che erano “strozzature allo sviluppo turistico”, ma anche per dare “un contributo concreto e personale all’impegno di pace”.
Concludendo, il presidente spiegava la sua decisione di formare la giunta con il Psi, il Psdi e il Psdaz: i contatti avuti durante la crisi con quelle forze politiche lo avevano convinto che con esse sarebbe stato possibile stipulare “un patto politico stabile e duraturo”, che non fosse una “formula astratta” ma un’alleanza capace di mettere insieme le “forze sociali più disponibili al progresso e alla modernizzazione” della Sardegna. Di fronte a questa prospettiva, la Democrazia cristiana si era sentita liberata dall’obbligo di assumere da sola la responsabilità di governare. L’esperienza del monocolore, secondo Giagu, non poteva che essere quello che era stata, cioè una soluzione temporanea resa necessaria dall’incertezza del quadro politico e destinata a cedere il passo, non appena possibile, al “metodo democratico” dell’ampliamento del consenso e della partecipazione: “Rimane perciò un valore per noi imprescindibile, e storicamente vissuto a tutti i livelli, il rifiuto dell’integralismo e la ricerca costante di una collaborazione la più ampia possibile fra le forze politiche democratiche”, e tra queste e le forze “vive” della società, come i sindacati dei lavoratori, indispensabili anch’esse al progresso della comunità regionale.
Uno dei momenti salienti del successivo dibattito prese forma intorno al tema della presenza sardista nella giunta, presenza che Giagu aveva difeso con fermezza nello scontro con i repubblicani: “Il Partito repubblicano italiano, proprio sulla qualificazione autonomista della giunta non ha ritenuto di dover condividere il giudizio degli altri partiti e perciò ha deciso di non far parte della maggioranza”. Il Pri replicò, con Corona, che la presenza del Psdaz nella giunta non era indispensabile al fine di qualificare in senso autonomistico il programma di governo, mentre serviva “da strumento per ottenere l’appoggio del Partito comunista”; quindi, il Pri si opponeva alla presenza del Psdaz nell’esecutivo regionale per denunciare “la scarsa chiarezza e la disinvoltura” con le quali era stata costruita la maggioranza di governo.
Anche secondo il socialdemocratico Alessandro Ghinami, che con il collega Carlo Biggio dissentiva dalla decisione del Psdi di appoggiare Giagu, l’immissione dei sardisti nella giunta, che non era necessaria nemmeno per avere la maggioranza dei voti, corrispondeva soltanto alla volontà di Giagu di conservare quelle “benevolenze del Pci” che aveva ottenuto con le dichiarazioni programmatiche del 1971: il Pri aveva “giustamente” negato il suo appoggio ad una giunta che nasceva su quelle basi, mentre il Psdi, che aveva deciso a maggioranza di sostenere Giagu, stava commettendo “un grave errore politico”, perché il “disegno” di inserire il Pci nella maggioranza di governo avrebbe provocato un aumento dello “spazio politico per la destra missina” e una crisi di credibilità per i partiti del centrosinistra, che sarebbero apparsi come “una classe politica priva di fede nei valori che proclama a parole e smentisce con i fatti”. Ghinami, comunque, per disciplina di partito, avrebbe votato a favore della giunta: la sua decisione fu apprezzata da Pigliaru e dalla maggioranza del Psdi, che non vedevano alcuna propensione filocomunista nelle posizioni di Giagu.
Il Partito comunista, che era stato indicato dai repubblicani e dai socialdemocratici dissenzienti come l’alleato occulto di Giagu, pur riconoscendo, con Cabras, che la giunta appena costituita era “la più aperta e avanzata possibile, con il capogruppo Raggio giudicò negativamente il programma di governo. La critica comunista investì poi più direttamente la Dc, che Pietro Melis accusò di avere causato la paralisi del Consiglio regionale, perché negli ultimi cinque mesi i democristiani si erano occupati della “spartizione dei centri del potere” piuttosto che del governo della Sardegna: “Tutto ciò avviene perché si vuole imporre una politica contraria agli interessi del Paese, perché alcuni dirigenti politici hanno smarrito i principi morali che dovrebbero ispirare l’azione, perché la Dc ha elevato a sistema l’intrallazzo e la rissa”.
Tuttavia, il Pci mostrò di non volere chiudere del tutto la porta del dialogo: secondo Cabras, se “una collaborazione più stretta tra Pci e Dc” fosse stata possibile, sarebbe stato “stolto” rinunciarvi. Lo stesso Cabras auspicò che la Dc tornasse “alle sue origini di partito popolare antifascista” e si rendesse conto di quanto le avrebbe giovato la collaborazione del Pci “nella soluzione dei problemi della Sardegna”. I comunisti giudicavano favorevolmente la presenza del Psdaz nella giunta, ma Melis precisò che i sardisti non costituivano il “cavallo di Troia” comunista dentro il governo regionale: il Pci non era solito “affidare deleghe non delegabili” e non poteva prendere parte ad una maggioranza di governo che non aveva fatto “una scelta di campo diversa da quella capitalistica”.
I sardisti, da parte loro, non entrarono nel merito della polemica. Bruno Fadda – dopo avere indicato nel governo nazionale e nei “potentati economici” i responsabili della crisi dell’autonomia e del “fallimento della politica di piano”, per via del modello di sviluppo capitalistico che essi avevano “imposto alla Sardegna”; e dopo avere affermato l’esigenza di un “secondo momento autonomistico” che desse alla Regione “la capacità di incidere nelle scelte di programmazione nazionale” – si limitò ad osservare che la giunta nasceva anche per “realizzare l’autonomia della Sardegna”, e pertanto non avrebbe potuto discriminare una forza politica come quella sardista, storicamente all’avanguardia nella battaglia autonomistica.
A favore del programma di governo si espressero anche il socialista Catte, che mise in evidenza il dichiarato impegno di Giagu perché la Regione sarda fosse accanto alle altre Regioni meridionali per una più forte “rivendicazione verso il potere centrale”, e il democristiano Masia, che pose invece l’accento sul tema della riforma statutaria: “È assurdo – disse – che le Regioni a statuto normale possano in certi campi godere di una maggiore ampiezza di competenze rispetto ad una Regione a Statuto speciale com’è la Sardegna. […] L’autonomia è il vero, unico, insostituibile strumento capace di assicurare nel tempo il riscatto economico e civile della Sardegna e dei sardi”[35].
Giagu replicò innanzitutto alle considerazioni antisardiste: “Respingiamo con forza l’accusa, espressione di leggerezza e di superficialità di analisi più che di corrette motivazioni politiche, che l’ingresso in giunta del Psdaz abbia un significato diverso da quello di una accentuazione dell’impegno autonomistico”, e cioè che “sia un tentativo di allargare surrettiziamente la maggioranza a forze che […] dichiarano di non essere né omogenee con le forze tradizionali del centro-sinistra né disponibili a condividere con esse le attuali responsabilità di governo”. Secondo il presidente, tra il Psdaz e il Pci esisteva una “rigorosa demarcazione di impostazione politica”, non dissimile da quella esistente tra il Psi e il Pci, che le stesse forze politiche in questione avevano messo in luce in occasione dei frequenti confronti fra loro intercorsi nell’aula consiliare, e che le alleanze elettorali da esse stipulate non avevano annullato.
Prendendo lo spunto proprio dall’esigenza di corroborare il profilo autonomistico e contestatario della giunta regionale, Giagu rivendicò all’esecutivo “un dissenso di fondo che tende a rifiutare tutti gli orientamenti del governo centrale, nella sua espressione più lata, quando essi mirano a comprimere le autonomie costituzionali, a misconoscere i poteri delle Regioni, a rifiutare ad esse i mezzi finanziari per far fronte agli impegni politici democraticamente assunti”. Su questo punto il presidente fu molto esplicito: “Questo significa rifiuto di ogni compromesso, ricerca di alleanza con tutte le altre regioni sensibili ai nostri stessi problemi, solidarietà con le Regioni meridionali e collegamento con le forze politiche che portano avanti battaglie politiche per la difesa dei comuni interessi. Riteniamo che questa linea ci possa essere particolarmente utile quando […] dovremo affrontare importanti battaglie per l’attuazione delle nostre competenze costituzionali, per il rifinanziamento della legge 588, per la definizione dei prossimi documenti della programmazione nazionale e di intervento nel Mezzogiorno”[36].
Il nuovo impegno per la questione mineraria. Già il 31 gennaio Giagu era a Roma, accompagnato dagli assessori Dessanay e Gianoglio, per sollecitare ancora una volta gli interventi statali per il Sulcis-Iglesiente: dal vertice, però, non scaturirono decisioni risolutive. Il governo nazionale, del resto, non era più il solo interlocutore politico della Regione: la Comunità economica europea svolgeva da tempo la sua funzione nei confronti dei Paesi membri, per cui l’autonomia regionale era chiamata a confrontarsi con un ulteriore livello di controllo e, inevitabilmente, di limitazione dei suoi poteri. In più di un caso, negli anni precedenti, la Cee aveva chiesto e ottenuto il rinvio e la riformulazione di leggi della Regione sarda, e un nuovo esempio in questo senso si ebbe appena un paio di mesi dopo l’insediamento della seconda giunta Giagu, quando Bruxelles rinviò la legge con la quale il governo regionale intendeva incrementare la produzione di foraggio e migliorare l’attività delle aziende pastorali. Il Consiglio regionale della Sardegna aveva approvato quel provvedimento il 2 febbraio, ma la Regione poté promulgarlo, infine, soltanto a fine ottobre[37].
Un motivo di soddisfazione per Giagu venne invece dal congresso della Dc sassarese del 12 marzo. Nel nuovo comitato provinciale, infatti, la “Sinistra di base” conquistò 15 seggi su 30, un seggio in più rispetto alla situazione precedente: questo fatto permise alla corrente di uscire dalla condizione di minoranza, anche perché la lista composta dagli “Amici di Moro” e da “Forze Nuove” raccolse soltanto dieci seggi, cedendo i restanti cinque ad una terza lista, formata da “Iniziativa popolare” e “Nuove cronache”. La riacquistata posizione di forza permise a Giagu di tendere la mano ai morotei per una collaborazione finalizzata all’unità interna e, allo stesso tempo, di neutralizzare “Iniziativa popolare”, il gruppo che nel febbraio del 1971 (come si è detto) aveva messo la “Sinistra di base” in minoranza. La distribuzione delle forze nel comitato sassarese, peraltro, non trovava riscontro nel comitato regionale, come dimostrò l’elezione dei delegati sardi al congresso nazionale della Dc[38].
Intanto dal 9 all’11 marzo si era svolta a Cagliari la Conferenza nazionale mineraria. Nei giorni 17 e 18 del successivo mese di aprile il Consiglio regionale aprì un intenso dibattito che intendeva fare il punto della situazione dopo le ultime posizioni prese dal governo. In particolare, intervenendo ai lavori della Conferenza, il ministro dell’industria non si era espresso per la “convenienza” della prosecuzione dell’attività mineraria nel bacino carbonifero sulcitano, mentre le Partecipazioni statali non avevano ancora dato il via libera all’attuazione del “piano Piccoli”. Tutto ciò considerato, l’aula approvò un o. d. g. presentato da Dc, Pci, Psi, Psdi e Psdaz, con il quale si impegnava la giunta ad intervenire “con urgenza” presso il governo, al fine di ottenere, fra l’altro, il ripristino dei livelli occupativi esistenti nelle miniere di carbone al momento del loro passaggio all’Enel, il finanziamento del “piano Piccoli”, la predisposizione di un piano minerario regionale, la partecipazione della Regione alla definizione del piano minerario nazionale e la “gestione unitaria del settore minerario e metallurgico nei diversi momenti della ricerca, estrazione e trasformazione”.
Prendendo la parola, Giagu ricordò come tutte le attese e le speranze della Sardegna, alimentate dalle diverse promesse e assicurazioni fatte dagli organi di governo tra il 1971 e il 1972, fossero andate deluse a causa degli impacci burocratici ai quali le aveva abbandonate uno Stato “lontano e dimentico”. Ricordò poi come la Regione, a fronte della sostanziale latitanza statale, si fosse assunta, attraverso l’Ente minerario sardo, il carico finanziario maggiore per coprire le perdite del settore estrattivo. Infine, constatato che l’azione fin lì prodotta dalla Regione nei confronti dello Stato non era stata in grado di ottenere quanto promesso, disse: “è ormai stabilito senza possibilità di equivoci che si esce dalle assicurazioni formali soltanto contrapponendo al potere centrale il potere autonomistico, cioè attraverso l’iniziativa locale che pretende, quando è suo diritto, il rispetto degli impegni. La contestazione concepita come rapporto dialettico basato sulla bontà delle tesi e la giustezza e puntualità delle richieste , non è in grado oggi […] di portare a buon fine una battaglia di sopravvivenza per tutto il Sulcis”. Si rendeva dunque necessaria una forma di lotta diversa, ma non “eversiva” – sottolineava Giagu –, che, chiamando a raccolta tutte le forze popolari e sindacali dell’isola, sapesse “servirsi di tutte quelle armi che la Costituzione repubblicana consente”[39].
Almeno per allora, comunque, non si resero necessarie iniziative straordinarie. Le trattative avviate con determinazione dal presidente della Regione e dall’assessore all’Industria, Dessanay, portarono il 22 maggio ad un accordo di massima con il governo: entro la fine dell’anno, allo scopo di realizzare l’unità gestionale e la verticalizzazione del settore piombo-zincifero, l’Ente minerario sardo avrebbe aquistato dall’Egam (il nuovo ente pubblico che aveva assorbito l’Ammi) il 20% dell’Ammi Sarda; a sua volta l’Egam avrebbe rilevato la quota, pari all’80%, che la Montedison deteneva nella Sogersa prima del suo disimpegno (all’Ente minerario sardo sarebbe rimasto il 20%).
La caduta della seconda giunta Giagu. Il 16 maggio, intanto, d’improvviso era arrivato il primo segnale della crisi che nel giro di un paio di mesi avrebbe travolto la seconda giunta Giagu. L’esecutivo si trovava riunito per discutere di alcuni delicati problemi (come quello degli scarichi inquinanti della “Euroallumina” di Portovesme, i cui “fanghi rossi” cominciavano a costituire un’emergenza ambientale ancora oggi non risolta), quando, prendendo la parola, l’assessore socialista Dessanay comunicò che avrebbe rassegnato le dimissioni nel caso in cui, nel volgere di una settimana, la Dc non avesse lasciato libera la presidenza dell’Ente sardo per le industrie turistiche (Esit), che, in base agli accordi preliminari fra i partiti di governo, doveva essere attribuita ad un esponente del Psi (l’ex senatore Antonio Castellaccio). Come non bastasse, Giagu dovette fronteggiare anche l’irrequietezza nuovamente accesasi tra le correnti democristiane proprio intorno al rinnovo delle presidenze degli enti regionali, che erano decadute da oltre un anno. Il 22 i capi corrente democristiani fecero sapere che l’insediamento di Castellaccio sarebbe avvenuto in tempi brevi: la Dc mirava a sedare le tensioni con il Psi, per pensare con maggiore tranquillità alla composizione del dissidio interno sugli enti e alla preparazione del congresso regionale, previsto per il mese di giugno ma poi rinviato a settembre per il sopraggiungere della crisi di governo.
Il comitato regionale socialista del 29-30 maggio, però, non si ritenne soddisfatto e chiese termini certi per il rispetto degli impegni. Il segretario Catte disse: “Non siamo stati mai né fautori né responsabili di crisi ingiustificate ma nessuno è autorizzato a pensare che oggi siamo disposti ad accettare decisioni che giudichiamo fortemente lesive degli interessi e della dignità del nostro partito. Il tentativo portato avanti da alcuni settori della Dc […] assume obiettivamente il significato di una provocazione messa in atto con lo scopo di addossare ai socialisti la responsabilità di una crisi che altri, evidentemente, desidera e vuol rendere inevitabile”[40].
La tensione fra i due partiti raggiunse l’apice quando, il 5 giugno, i rappresentanti socialisti nel consiglio di amministrazione dell’Ente minerario sardo non votarono il documento sul bilancio consuntivo del 1972, per esprimere il loro dissenso verso la politica del presidente dell’ente, il democristiano Paolo Fadda, il quale si dimise insieme ad altri tre colleghi di partito. Nonostante tutto questo, proprio in giugno la giunta riuscì ad approvare due importanti proposte di legge presentate dall’assessore Soddu: il giorno 5 quella per l’istituzione di una sede regionale della Radiotelevisione italiana, e il giorno 19 quella per la protezione delle acque pubbliche dall’inquinamento, che divenne legge in agosto[41].
Subito dopo tra Giagu e Soddu insorse una polemica che (forse al di là delle intenzioni dei protagonisti) divenne di pubblico dominio, perché finì sulle pagine del quotidiano di Sassari. Il 30 giugno l’assessore comunicò per lettera al presidente della Regione di essere pronto a dimettersi nel caso in cui la giunta non avesse appaltato i lavori per la costruzione della strada tra Olbia e Ottana, che egli riteneva fondamentale per lo sviluppo del territorio, ancora troppo isolato, del Goceano: “Mi corre l’obbligo non gradito – scriveva Soddu in tono molto formale – di significarle che ove la questione della strada non venisse sbloccata […] la mia permanenza nella giunta da lei presieduta si renderebbe impossibile”.
La risposta di Giagu fu altrettanto fredda: “Caro assessore, mi duole constatare che una lettera ‘riservata’ inviata al presidente della giunta sia stata data poi alla stampa. È una questione di correttezza. Per quanto riguarda la sostanza debbo farle rilevare: 1) il problema della mancata realizzazione della strada Ottana-Olbia è stato esaminato […], per la prima volta, dalla giunta da me presieduta e su mia iniziativa; 2) la giunta ha deciso di reperire, comunque, i fondi mancanti per procedere all’appalto; 3) l’unico punto da risolvere […] consiste nell’appurare il motivo per cui uno stanziamento iniziale di circa un miliardo sia levitato enigmaticamente sino a oltre quattro miliardi. Queste cose erano a sua conoscenza, per cui non capisco l’odierno accenno a dimissioni”[42].
La polemica non smise di sollevare clamore e fu oggetto di discussione anche in Consiglio regionale. Il socialproletario Zucca sollecitò Giagu a riferire sull’accaduto, ma il presidente era convinto che la questione dovesse essere chiarita all’interno della giunta: “Se (contrariamente a quel che io mi auguro) – disse – il caso non dovesse avere uno sbocco rassicurante nell’ambito governativo, prendo formale impegno di riferire al Consiglio alla prossima tornata dei lavori”. Soddu, chiedendo di parlare per “fatto personale”, affermò che la sua lettera voleva avere unicamente un significato di “stimolo”, non certo di sfiducia verso il presidente e la giunta, come l’opposizione consiliare tendeva a far apparire; sostenne quindi di avere consegnato personalmente la lettera a Giagu, e di averne poi inviato una copia al sindaco di Benetutti (a riprova dell’impegno che l’assessore aveva assunto nei confronti degli amministratori e delle popolazioni di quelle zone, delle quali lui stesso è originario): “Con mia somma sorpresa […] ho visto la lettera pubblicata”, disse ancora Soddu, chiarendo infine, a proposito dell’aumento degli stanziamenti, di non avere avuto alcuna responsabilità diretta nella gara d’appalto[43].
Il segretario della Dc sarda, Rojch, intervenne per favorire il superamento di un contrasto che rischiava di mettere in forse la credibilità del principale partito di governo e, insieme, la stabilità della giunta. Il 17 luglio Rojch inviò una lettera a Giagu, invitandolo ad un incontro chiarificatore con Soddu, ma il presidente preferì non aderire, anche perché (molto probabilmente) aveva già maturato la decisione di rassegnare le dimissioni: egli le comunicò infatti il giorno seguente, motivandole con la necessità di indirizzare un forte atto di protesta verso il governo nazionale appena entrato in carica[44] e colpevole di non avere inserito nel suo programma il rifinanziamento del Piano di rinascita. Secondo voci circolanti negli ambienti politici regionali, tuttavia, né l’ennesimo “tradimento” governativo, né il dissidio con Soddu erano la vera ragione delle dimissioni di Giagu: esse invece – come in qualche modo aveva lasciato intendere, in maggio, la sibillina dichiarazione di Catte – avevano la loro causa profonda nella ripresa della frizione tra le correnti democristiane, che avevano rotto la tregua in vista del rinnovo del comitato regionale e avevano fatto mancare, così, la compattezza necessaria alla stabilità della giunta.
Lo stesso Giagu, del resto, rendendo ufficiali le sue dimissioni il 19 luglio con una breve comunicazione al presidente del Consiglio regionale, Contu, non mancò di chiamare in causa anche le difficoltà presenti nei partiti, parlando della necessità di dare luogo ad un processo di chiarificazione “tra le forze e dentro le forze politiche”. I tentativi del Psi e del Psdi per fare rientrare la dimissioni non ebbero successo. Questa volta, contrariamente a quanto era accaduto nel gennaio del 1972, Giagu era riuscito a tenere sotto controllo la situazione e aveva potuto aprire la crisi nel momento a lui più favorevole, tant’è vero che nel volgere di pochi giorni poteva iniziare il suo terzo mandato presidenziale.
5. La terza giunta Giagu.
Il partito diviso. Il Consiglio regionale rielesse Giagu il 27 luglio, con i voti favorevoli del quadripartito uscente. Il leader basista avviò immediatamente le consultazioni con il Psi, il Psdi e il Psdaz, ripromettendosi di presentare il nuovo governo regionale alla fine di agosto o, al più tardi, all’inizio di settembre. Attorno a Giagu si era costituita una forte maggioranza formata dalle correnti di Corrias e Contu (“Impegno autonomistico”), di Lucio Abis (“Sardegna domani”) e di Giovanni Del Rio (“Nuove cronache”).
I forzanovisti e i morotei, che si erano detti contrari all’apertura di una crisi a loro dire non necessaria, rimasti in minoranza nel comitato regionale, reagirono ritirando i loro uomini dagli organi del partito. Rojch, che qualche giorno prima aveva inutilmente provato a convocare la Direzione regionale in un estremo tentativo di scongiurare le dimissioni della giunta, il 3 agosto lasciò la carica di segretario politico e contestò la decisione della maggioranza giaghiana di rinviare a dopo le ferie la soluzione della crisi. La corrente di “Forze nuove” emise un comunicato con il quale affermava che il “gesto coraggioso” di Rojch inchiodava “alle loro responsabilità sia il presidente della giunta Giagu, sia quello dell’assemblea Contu, preoccupati più delle loro vacanze che dei problemi dell’Isola, la cui urgente soluzione è stata recentemente sollecitata in un documento unitario delle tre confederazioni sindacali”. La nota sosteneva anche che la crisi era “priva di motivazione politica”.
Le quattro correnti della maggioranza, definita “alleanza difensiva” dai morotei, replicarono con un comunicato congiunto che affermava sorpresa per le dimissioni di Rojch, “dopo la fiducia riconfermatagli dalla Direzione”, e insieme preoccupazione per la “turbativa tanto evitabile quanto inopportuna” che esse finivano per arrecare al partito, proprio mentre esso era impegnato nella soluzione della crisi[45].
Il 9 agosto il moroteo Pinuccio Serra e il forzanovista Salvatore Carta si dimisero dalla delegazione che conduceva le trattative per la formazione della nuova giunta, e Rojch (le cui dimissioni erano state respinte dal direttivo democristiano) rifiutò l’invito di Giagu a convocare la stessa delegazione perché riferisse sugli esiti del primo ciclo di consultazioni. Due giorni dopo tutti gli esponenti della minoranza annunciarono la decisione di seguire Rojch, Serra e Carta nel disimpegno dalle cariche che occupavano nel partito.
Il giorno 18 Giagu rientrò in Sardegna da una breve vacanza a San Martino di Castrozza, sulle Dolomiti. Fino al 10 si era mosso tra Cagliari e Roma per una serie di incontri istituzionali, il 20 tornò a Roma per discutere con i vertici della Dc della crisi politica sarda, il 21 ripropose a Rojch l’invito a convocare la delegazione incaricata delle consultazioni, aggiungendo, questa volta, che di fronte a un nuovo rifiuto del segretario la convocazione sarebbe stata fatta dai due vicesegretari: Vittorio Bona, uomo vicino ad Abis, e Lorenzo Idda, esponente della “Sinistra di base”.
Il 22 agosto il segretario Fanfani convocò urgentemente a Roma Giagu, Contu, Rojch, il capogruppo consiliare Melis e i vicesegretari regionali Bona e Idda. Dal vertice, al quale Rojch non prese parte, uscì la decisione di riunire a Cagliari la Direzione regionale democristiana, con lo scopo di porre fine alle discordie intestine. Alla riunione, che si tenne il 24 nella sede di Piazza del Carmine, prese parte anche Franco Evangelisti, che rappresentava Fanfani. Una nota del cronista della “Nuova Sardegna” rende bene l’idea del clima nel quale si svolse quell’incontro: “Rojch si è incontrato per caso […] con il presidente Giagu. I due uomini politici si sono salutati freddamente, senza neppure scambiarsi una stretta di mano”[46]. Prima che iniziassero i lavori, Rojch confermò le sue dimissioni in una lettera consegnata nelle mani di Evangelisti e abbandonò la riunione insieme all’intera minoranza. La Direzione regionale decise di convocare il comitato regionale, e questo il 29 agosto elesse il nuovo segretario nella persona di Vittorio Bona.
Il vertice di Piazza del Carmine, dunque, non era riuscito a raggiungere il suo scopo. Giagu, tuttavia, presentandosi davanti al Consiglio regionale il 28 agosto per chiedere una proroga di due settimane per la presentazione della giunta, volle tenere un discorso rassicurante: “Per una serie di circostanze, dopo che erano stati esperiti i primi contatti con le forze politiche rappresentate nell’assemblea, il presidente eletto non ha potuto affrontare il colloquio diretto con le forze individuate per la compagine del nuovo governo […]. La situazione interna del mio partito va rapidamente normalizzandosi […]. In questi giorni gli organi statutari saranno ricostituiti e contemporaneamente la formazione della delegazione porrà la Democrazia cristiana in grado di presentarsi all’incontro con gli altri partiti con una veste formale ineccepibile ed in grado di adottare le decisioni e gli impegni che sono necessari per risolvere la crisi. Non posso nascondervi che, di fronte alle amarezze di questi giorni, avevo tratto la convinzione che fosse necessario presentarmi a voi dimissionario. Ciò non ho fatto, né intendo fare, per la considerazione che una mia decisione in questo senso avrebbe vieppiù aggravato la situazione, ritardato la soluzione della crisi, ingenerato un senso di sfiducia ancora maggiore nelle istituzioni”[47].
Il giorno seguente, dopo il dibattito, la conferenza dei capigruppo accolse la richiesta di proroga e fissò al 15 settembre il termine ultimo per la presentazione della giunta. Il 6 settembre, però, il comitato regionale socialista pose una precisa condizione all’ingresso in giunta del Psi, e cioè che gli assessori democristiani fossero scelti anche fra i morotei e i forzanovisti. Giagu provò allora a riaprire il dialogo all’interno del partito, ma dall’altra parte non arrivarono segnali distensivi. Il 12 settembre, a tarda notte, il comitato regionale del Psi decise con uno stretto margine di voti (18 a favore e 14 contrari) che i socialisti avrebbero fatto parte della maggioranza di governo, pur consapevoli che la irrisolta crisi della Dc metteva a rischio la stabilità della costituenda giunta: “Tuttavia, si è raggiunta nel frattempo una sufficiente elaborazione e precisazione del programma di governo”. Il giorno prima, invece, la segreteria regionale del Pri aveva respinto l’invito democristiano a far parte dell’esecutivo, confermando la convinzione espressa in occasione della formazione della seconda giunta Giagu, e cioè che la maggioranza che si voleva mettere insieme (vi aderiva anche il Psdaz) era dominata dall’“assemblearismo” e faceva “confusione tra governo e opposizione”[48].
Il 14 settembre, dopo avere ottenuto in extremis l’adesione, anche questa incerta fino all’ultimo, del Psdi, Giagu presentò la formazione di governo. Essa annoverava i democristiani Mario Puddu all’Agricoltura, Salvatore Campus al Turismo, Giovanni Del Rio alle Finanze, Guido Spina al Lavoro e Piero Are alla Sanità; i socialisti Salvatore Dessanay all’Industria e Francesco Branca all’Artigianato, il socialdemocratico Antonio Defraia ai Lavori pubblici e il sardista Mario Melis agli Affari generali.
I morotei e i forzanovisti dichiararono immediatamente che avrebbero votato contro una giunta che, dicevano, si fondava su “presupposti inaccettabili”. Per voce di Dettori, i consiglieri dissidenti affermarono anche di avere proposto al presidente Giagu due vie per la soluzione della crisi del partito: la celebrazione immediata di un congresso che desse legittimità agli organi in carica, oppure, per evitare il differimento dell’insediamento della giunta che la prima soluzione avrebbe comportato, l’impegno a celebrare il prossimo congresso “con spirito unitario” e con la disponibilità ad accogliere “come essenziale” la collaborazione di tutti i gruppi. Del resto, la discordia interna non riguardava soltanto la Dc; gli stessi partiti socialisti presentavano al loro interno una profonda divisione sull’opportunità di sostenere il governo regionale: si è detto della risicata maggioranza con la quale il comitato regionale socialista aveva deciso l’ingresso in giunta del Psi, ma è da ricordare anche la decisione personale dei socialdemocratici Ghinami e Biggio (appoggiati dal vice-segretario regionale, Umberto Genovesi) di non appoggiare Giagu.
Pur di fronte ad una situazione poco incoraggiante, il presidente della Regione lesse le dichiarazioni programmatiche, annunciando l’impegno legislativo della giunta per il rilancio dell’attività edilizia, un migliore assetto del sistema dei trasporti pubblici, l’assistenza farmaceutica a favore dei lavoratori dipendenti, il passaggio ai Comuni delle competenze regionali in materia di impianti sportivi, la tutela della libertà d’informazione, l’approvazione del piano di sviluppo delle zone interne e il varo del quinto programma esecutivo del Piano di rinascita. Il quinto programma esecutivo, in particolare, doveva essere lo strumento per impostare la soluzione di due problemi “essenziali”, a cui restava subordinato “il progresso civile di tutta la comunità”: il rilancio dell’agricoltura e il corretto sviluppo industriale, da attuarsi attraverso una più organica e diretta politica dell’incentivazione finanziaria della Regione, avrebbero permesso di incrementare l’occupazione e ridurre la sottoccupazione, utilizzare a pieno le risorse regionali, eliminare i dislivelli di reddito fra i diversi territori, ed estendere la fruibilità dei servizi sociali e collettivi a strati sempre più larghi di cittadini. A sostegno di queste iniziative fondamentali, la giunta pensava di dare impulso all’istruzione professionale.
La Regione, però, doveva essere strutturalmente capace di predisporre, avviare e dirigere i processi di sviluppo che intendeva realizzare, ed ecco che tornava il tema nodale del progetto di governo di Giagu: “Prioritario appare l’impegno di revisione legislativa delle strutture istituzionali della Regione, condizione necessaria per realizzare gli obiettivi fissati in sede di programmazione”. Come primo passo il presidente indicò la “ristrutturazione e definizione delle funzioni della giunta regionale”, cioè, in buona sostanza, il riassetto delle competenze assessoriali e, in particolare, la creazione di un assessorato che si occupasse della tutela delle risorse ambientali e naturali e regolamentasse anche le materie della caccia e della pesca, e l’istituzione di un assessorato della “programmazione”, il cui compito doveva essere quello di predisporre, in stretta e funzionale interdipendenza, il bilancio finanziario e i piani di sviluppo economico della Regione; inoltre, le competenze dell’assessorato al Lavoro avrebbero incluso la “sicurezza sociale” e la cooperazione, mentre l’assessorato alla Pubblica istruzione si sarebbe occupato anche dello spettacolo e dello sport.
Giagu parlò anche della collocazione della giunta nel quadro politico regionale e nazionale, sostenendo, intanto, che la decisione di aprire la crisi di luglio era scaturita dalla convinzione che l’alleanza fra i partiti socialisti e il Psdaz doveva essere “rigenerata”, perché appariva “logorata da un non sufficiente impegno politico”. Il presidente affermò poi di avere fiducia nella “dichiarata carica innovativa” del governo Rumor (lo stesso verso il quale Giagu aveva indirizzato la sua protesta in luglio) e di aspettarsi, quindi, il rilancio della legge 588 e l’approvazione del disegno di legge 509. Quanto ai rapporti della giunta con il Pci, essi sarebbero stati “quelli che devono intercorrere fra partiti che, pur profondamente distanti per concezione della società, ideologia e linea politica, possono trovare nelle sedi istituzionali della democrazia parlamentare momenti di utile convergenza”[49].
Il dibattito consiliare si aprì il 17 settembre e durò tre giorni. Il partito comunista, per voce del capogruppo Raggio, di fatto respinse l’ipotesi dell’“utile convergenza”, accusando invece i dirigenti democristiani di un “atteggiamento irresponsabile” che stava provocando la “frantumazione del processo di unità autonomistica”, che era stato “l’aspetto più positivo” della vita politica sarda degli ultimi anni; così, il programma della giunta risultava incapace di dare luogo alla “svolta profonda” che i sardi attendevano perché privo di quelle “scelte qualificanti” che Giagu, proseguiva Raggio, non aveva saputo operare: “Egli ha subito un serio condizionamento delle forze moderate, rilanciate con l’operazione della “alleanza difensiva” […]. La Dc sarda, che nel passato aveva dato l’impressione di voler andare ad una valutazione positiva della questione comunista, oggi si pone su una posizione arretrata. Da qui la sua crisi e la paralisi della Regione. Il nodo del rapporto con il Pci deve essere sciolto rapidamente – come hanno affermato anche i compagni socialisti e i sardisti – se si vogliono affrontare le questioni vitali dell’Isola, mantenendo aperta la prospettiva della rinascita”.
I consiglieri degli altri partiti di opposizione espressero anch’essi un giudizio negativo sui propositi della giunta e sul suo assetto (Lippi Serra arrivò a chiedere lo scioglimento del Consiglio regionale e le elezioni anticipate come unico rimedio al “discredito” dell’istituto autonomistico); gli stessi alleati della Dc, pur garantendo il voto favorevole, non nascosero la preoccupazione per l’inasprimento dello scontro democristiano, che rischiava di compromettere lo sviluppo del “buon seme” gettato dalle ultime giunte per l’avvenire dell’isola, come disse il sardista Melis. Nel frattempo, infatti, i morotei e i forzanovisti avevano ignorato un invito di Fanfani perché si attenessero alla “disciplina di voto” e, anzi, con un telegramma di risposta al segretario nazionale, lo avevano invitato a sottoporre all’esame della Direzione del partito il comportamento del gruppo di maggioranza della Dc sarda, che accusavano di “reiterati soprusi consumati in aperta violazione dello statuto del partito”. I firmatari della lettera facevano esplicito riferimento all’atto con il quale il 25 aprile Giuseppe Zamberletti, inviato da Fanfani nell’isola in occasione delle elezioni dei delegati sardi per il congresso nazionale democristiano, aveva dichiarato decaduta la direzione regionale della Dc: ciononostante, sostenevano ancora gli scriventi, la “autoproclamatasi” maggioranza aveva proceduto “all’elezione del segretario e al varo della giunta regionale”[50].
Insomma, le due correnti non riconoscevano gli organi direttivi del partito, né il loro diritto a dare vita al governo della regione: perciò esse trasferirono la protesta dal contenzioso interno al piano istituzionale, attaccando duramente il presidente della Regione e la sua giunta. Pietro Soddu, dopo avere richiamato le vicende cilene e la situazione dei diritti civili nei paesi del “socialismo reale” per osservare che in Italia non si vivevano analoghe condizioni di oppressione “della persona umana e dei suoi diritti inalienabili”, affermò che nel nostro erano tuttavia presenti “altre forme di violenza, più sottili, subdole, nascoste, riconducibili all’esercizio arrogante e deviante del potere democratico”. Una di queste forme di violenza latente era quella che operava all’interno dei partiti politici ogni volta che la loro vita democratica veniva soffocata da maggioranze autoritarie, le quali imponevano “forme di disciplina militare, con ricorsi a pressioni sulla coscienza, con persuasioni particolari e innominabili”. Un “sopruso”, secondo l’esponente moroteo, che assumeva gravità ancora maggiore quando riguardava la Democrazia cristiana, perché i problemi che un partito impegnato nelle massime responsabilità di governo deve affrontare non possono essere risolti “con accordi e spartizioni di potere” decisi al di fuori del confronto libero e democratico: “Questa crisi – affermò Soddu, spostando la sua argomentazione sullo specifico caso sardo – […] ha infatti avuto ispirazione, inizio, svolgimento e sbocco sotto il segno dell’arroganza, dell’assurda ed inammissibile pretesa di piegare tutto ad un disegno di puro potere. […] Abbiamo già detto altre volte che a noi sfugge completamente, anche dopo la lettura delle dichiarazioni programmatiche, il senso politico di questa crisi”. La stessa motivazione ufficiale delle dimissioni della seconda giunta Giagu, e cioè la volontà di superare “il deterioramento del quadro politico”, secondo Soddu non era credibile, dal momento che la terza giunta era nata in un quadro politico addirittura peggiore di quello di luglio, perché la contrapposizione dentro la Democrazia cristiana si era aggravata e anche perché all’interno dei partiti alleati (con la sola eccezione del Psdaz) era rimasta tutta intera la divisione fra i favorevoli e i contrari alla collaborazione di governo (nel Psdi la situazione era anzi peggiorata al punto che il partito era stato commissariato): “Noi non possiamo ritenerci soddisfatti delle spiegazioni contenute nelle dichiarazioni programmatiche, che confermano in sostanza quanto già sapevamo, di essere vittime, cioè, di una violenza interna di partito che viola le norme della libera convivenza e dell’adesione consapevole alle decisioni prese da una maggioranza ma assunte poi a sintesi unitaria da tutto il partito. […] Perciò sentiamo la necessità di impostazioni e comportamenti corretti e coerenti, lineari e fondati sul dibattito e sulla ricerca onesta, e rifiutiamo le scelte di una maggioranza che forza al consenso la minoranza”: la maggioranza – concluse Soddu – non poteva pretendere che la minoranza condividesse acriticamente un programma di governo alla cui stesura non era stata chiamata a contribuire[51].
Per “Forze nuove” parlò Giovanni Lilliu, il quale ebbe parole durissime per il programma di governo: “è un cahier di propositi, non un programma di scelte, è un catalogo di problemi senza una linea di soluzioni, è una carta di doglianza senza precisi obiettivi politici e prospettive sicure di strumenti attuativi e di realizzazioni pratiche: il tutto senza definizione di tempi, librato in aria, nebulosamente avvolto di speranze, inquinato di reticenze, carico di oblique e mistificanti ambiguità sul futuro”. Il celebre studioso, ricollegandosi alla denuncia di Soddu, ricordò che il documento programmatico della giunta non era stato portato a conoscenza del gruppo consiliare democristiano, nemmeno su un tema cruciale come la riforma istituzionale: “Che dire poi, per venire ai particolari della dichiarativa presidenziale, di quell’abito autocratico per cui il presidente eletto si assegna ad interim tre assessorati, in una ristrutturazione della giunta che si presenta come una specie di palingenesi dell’autonomia, mentre rivela una affrettata e innaturale scorporazione di materie, quando non anche le stesse materie appaiono nelle competenze di diversi assessorati: si veda, ad esempio, la competenza in materia di acque pubbliche attribuita tanto all’assessorato all’Ecologia quanto all’assessorato ai Lavori pubblici. Francamente non ci sentiamo di accogliere la definizione pomposa di ‘riforma’ (che è una cosa molto seria, ma tant’è per molti della gente d’oggi riforma è solo riformismo, ossia trasformismo) e il termine di ‘qualificante’ per un provvedimento che è un mero prodotto di moltiplicazione di attributi di poteri, nel perdurante sistema delle scatole chiuse di ciascun assessorato, tanti piccoli imperi di tanti piccoli napoleoncini, pronti a difendere con i denti i loro possedimenti e le loro frontiere”. A quella che non considerava una riforma, l’esponente di “Forze nuove” contrapponeva l’idea di decentrare nel territorio le funzioni e le competenze degli assessorati, “chiamando la periferia alla partecipazione e alla costruzione dello sviluppo, per via amministrativa ed esecutiva e col controllo democratico”.
Lilliu passò poi a parlare della politica industriale della giunta. La strategia degli incentivi regionali era inutile se prima la Regione non operava per combattere la logica monopolistica, che avrebbe continuato a portare lontano dall’isola le risorse economiche ed umane della Sardegna: “I capitali della Regione, dati a fondo perduto e a tasso agevolato di interesse, servono soltanto ad aumentare i profitti esterni del privilegio, mentre dovrebbero essere divisi equamente tra i lavoratori e tra i sardi, le cui risorse, non molte invero, vengono ancora spogliate secondo le regole del colonialismo. Gira e rigira, fa capolino ancora l’ipotesi industriale globale con forme economiche non autonome ma imposte, senza programmazione alcuna, con scelte volute dal monopolio, secondo il suo semplice tornaconto che è lo sfruttamento riservato alle aree di sottosviluppo”. Queste ultime considerazioni servivano a Lilliu anche per introdurre una severa critica alla dichiarata vocazione autonomista della giunta: “Tutto si riduce a stanche riflessioni di forme di autonomia burocratica, meramente amministrativa e a una accettazione pura e semplice di deleghe statali, mentre manca qualsiasi tensione volta a difendere, a consolidare e ad esaltare l’autonomia radicale, l’autonomia germinale, ossia quel nostro ‘Sinn Fein’ che ci deve spingere a marciare, con intransigenza e con passione, verso più alti gradi di autogoverno, di autodeterminazione”. Lilliu pensava ad uno Stato organizzato in forma federale, perché, a suo dire, soltanto recuperando alla Sardegna una reale sovranità, “vale a dire un modo di essere giuridico-costituzionale […] fatto a immagine e somiglianza dell’Isola, di tutte le sue caratteristiche, di tutti i suoi valori”, sarebbe stato possibile parlare in termini concreti di “rinascita sarda”[52].
La critica di Lilliu si allargava, così, fino ad investire una tematica come quella della riforma dello Stato, intorno alla quale, però, la Regione poteva soltanto provare a stimolare un dibattito, sperando di trovare un riscontro in altri soggetti istituzionali del paese. Del resto, i tempi inevitabilmente lunghi che un simile dibattito avrebbe richiesto, senza peraltro poter garantire di dare luogo ad una determinazione politica abbastanza forte da avviare la riforma, bastavano da soli ad impedire alla giunta sarda di fare convintamente da apripista. Soprattutto in considerazione delle stringenti difficoltà di ordine economico e sociale che, quelle sì, dovevano essere affrontate con urgenza e determinazione dal governo regionale.
La “legislatura sprecata”. Considerando a distanza di tempo gli eventi della vita politica sarda degli anni Sessanta e Settanta, non sembra che la responsabilità della “rinascita” mancata debba essere ascritta alle scelte di una giunta piuttosto che a quelle di un’altra. Un peso considerevole lo ebbero le decisioni in materia finanziaria via via attuate dal governo nazionale, che produssero l’erogazione di somme complessivamente insufficienti allo scopo; come anche una certa macchinosità burocratica nei rapporti fra la Regione e lo Stato, causa di gravi ritardi nell’approvazione e nell’applicazione delle leggi di finanziamento e avvio dei piani operativi; nonché la mancanza di una univoca, compatta determinazione da parte delle forze politiche sarde nel presentare e sostenere i propositi regionali. Questi fattori minarono in profondità l’efficacia della programmazione della Regione, che fu costretta a ripetute deviazioni rispetto al tracciato originario. Così, seppure suscettibili di critiche, che lo stesso presidente riteneva utili al fine di correggere alcuni errori di fondo, le linee programmatiche dell’ultima giunta di Nino Giagu non sembrano il risultato puro e semplice né di una volontà di “imperio” né di incapacità a riconoscere la vera natura dei problemi della Sardegna, ma piuttosto il prodotto di un percorso involutivo che la politica regionale aveva intrapreso, per sua responsabilità ma non soltanto, anni addietro.
Un contibuto importante alla comprensione di quel momento difficile della politica sarda è stato dato dalla riflessione di Paolo Dettori. Quando egli parlò di “legislatura sprecata”, riferendosi all’intera sesta legislatura regionale, volle chiamare in causa responsabilità diverse e infine concomitanti nel lasciare ai sardi una “Regione inerte, inadeguata ai suoi compiti, […] dominata dalle crisi interminabili e ricorrenti della Giunta”. La prima causa di questa involuzione politica era, per Dettori, di carattere generale e consisteva nella incapacità dei partiti di superare le contrapposizioni ideologiche, “dalle quali è sempre inceppato il confronto dialettico”.
La seconda causa risiedeva invece nella incapacità delle altre forze politiche di svolgere un ruolo veramente alternativo rispetto a quello egemonico della Democrazia cristiana. Gli alleati della Dc, in primo luogo i socialisti e i sardisti, non erano mai stati in grado di formulare una proposta di governo diversa da quella democristiana, mentre il principale partito di opposizione, il Pci, non aveva opposto alle politiche democristiane una forte intransigenza, anche “per ragioni – Dettori lo riconosceva – dettate spesso da un forte senso di responsabilità”.
Vi era poi la situazione particolare della Democrazia cristiana, un partito che durante la sesta legislatura si era presentato ai sardi come “lacerato”, cioè “incapace di assetti interni stabili, perciò incapace di assicurare alla Regione, con la stabilità delle giunte, una guida autorevole e ferma”. Il partito era profondamente cambiato dopo le elezioni del 15 giugno 1969: gli uomini che per vent’anni lo avevano dominato non c’erano più e al loro posto si erano affermati nuovi protagonisti che, come i nuoresi di “Forze nuove” o i “giovani turchi”, avevano accresciuto la loro influenza nel corso del decennio precedente. Proprio dal gruppo sassarese – proseguiva Dettori – erano venute “le più vive ragioni di dissenso”, mentre esso “avrebbe potuto costituire, in una situazione generale profondamente mutata, un punto di coagulo, un sicuro elemento di stabilità”.
Tuttavia, nemmeno la rottura fra i “giovani turchi” e le conseguenti “accentuate contrapposizioni personalistiche” potevano, da sole, spiegare la crisi della Dc e della Regione: “Un confronto fra la legislatura che da poco si è chiusa ed i lunghi anni di stabilità che la precedettero (più di dieci, dalla fine del 1958, data di elezione di Corrias alla presidenza della Giunta, fino al 1969, quando per le elezioni ebbe fine l’attività della prima giunta di Del Rio) ci aiuta a renderci conto che ci sono, della crisi attuale, ragioni più profonde. Ci aiutano a renderci conto che le vicende della sesta legislatura non sono tutte riconducibili ad ambiziosi disegni di potere, a tentativi di imporre leaderships inaccettate, a esasperati confronti personalistici”. La decennale stabilità della Regione sarda era stata favorita, innegabilmente, dalla presenza del prestigioso presidente cagliaritano[53], un uomo che era stato accettato come il “punto di riferimento” da tutti i gruppi del partito, e dalla presenza unitaria dei “giovani turchi”, che avevano esercitato un’influenza importante sugli equilibri della Dc e delle giunte. Ma l’elemento che aveva garantito saldezza al governo regionale era consistito, secondo Dettori, nell’impegno di tutti i partiti per dare uno sbocco alla crescente “tensione autonomistica”, all’aspirazione dei sardi alla rinascita dopo anni di “incertezze, di tentennamenti, di interminabili studi”, di febbrile preparazione: “Quell’impegno, quell’unità, quella forza, rivelatisi interamente negli incontri per la rinascita, vennero meno quando essi sarebbero stati più necessari, per le scelte del piano e per la sua attuazione. E la tensione autonomistica andò progressivamente esaurendosi né, bisogna riconoscerlo, fu sufficiente a dare il senso di un impegno nuovo la costituzione del centrosinistra in Sardegna”, perché allora socialisti e democristiani privilegiarono “le ragioni della prudenza e non quelle del coraggio e dell’autonomia”.
A conferma della validità della sua tesi, Dettori portava l’esempio di quello che era stato uno dei pochi risultati positivi dell’attività politica della sesta legislatura, vale a dire la predisposizione del disegno di legge per il nuovo Piano di rinascita (il disegno fu approvato dal Parlamento nel giugno del 1974 e divenne la “Legge 509”): “Il Consiglio regionale ha svolto, nell’ultimo anno, un suo ruolo, e lo ha potuto fare perché ha superato la contrapposizione fra maggioranza ed opposizione di sinistra, perché ha assunto come dato non discutibile la necessità di un raccordo, di un’azione concertata di tutte le forze che nella 509 si riconoscono, dei partiti del centro-sinistra e del Partito comunista”[54].
Nell’analisi di Dettori, dunque, la stessa spaccatura in atto nella Dc sarda non aveva la sua origine in accadimenti recenti, né era l’unica ragione della perdurante crisi regionale; essa era, tuttavia, un problema grave che richiedeva una soluzione urgente. Un nuovo tentativo per trovare la soluzione fu compiuto da Giovanni Del Rio, che il 19 settembre, alla vigilia del voto di fiducia, provò a mediare tra le parti, ma senza successo. All’esecutivo, dunque, non restava che affrontare il giudizio dell’aula senza il sostegno dei nove consiglieri della minoranza democristiana.
La “ribellione” dei morotei e dei forzanovisti. Il 20 settembre Giagu lesse la sua replica. Innanzitutto respinse le pesanti accuse che gli erano state mosse dal consigliere del Psiup, Zucca – il quale, insinuando che il presidente avesse preso accordi segreti con alcuni consiglieri di destra, lo aveva definito “uomo pericoloso per le stesse istituzioni democratiche” –, e sostenne che era stata orchestrata una manovra di discredito ai suoi danni: “Devo dire subito che io non raccoglierò le parole grosse che da qualche parte mi sono state rivolte, anche se non posso fare a meno di far rilevare all’onorevole Zucca che non mi aspettavo da lui, da molti anni in questa aula e di noi quasi il decano, l’accusa infamante di aver usato spregiudicatamente delle ‘leve di potere nei confronti di forze politiche e di singoli consiglieri’. Posso accettare tutte le accuse di natura politica, ma devo tutelare la mia onorabilità di politico e di uomo, perché posso affermare con estrema serenità che non c’è in quest’aula, né fuori di quest’aula, forza politica e consigliere che possano accusarmi di aver loro rivolto pressione illecita tendente ad ottenere preferenza politica, né in questa né in altre occasioni. Per contro, e come potrei dimostrare, squallidi e mortificanti episodi sono avvenuti per creare un’atmosfera di basso impero. Qualificati esponenti di questa assemblea hanno ricevuto telefonate di fantomatici personaggi che a mio nome hanno chiesto il ‘costo’ di un eventuale voto favorevole per la giunta da me presieduta. Io credo che la magistratura potrà far luce su questo degradante episodio di rissa politica”.
Giagu tornò poi a difendere la sua scelta di aprire la crisi politica, scelta che da più parti era stata definita inutile e incomprensibile, finalizzata unicamente alla conservazione del potere: “Il pericolo del logoramento dell’alleanza del centro-sinistra autonomistico, che abbiamo indicato come uno dei motivi della crisi di luglio, era veramente reale. E grande sarebbe stata la nostra responsabilità se non lo avessimo avvertito tempestivamente. La discussione di questi giorni ha infatti confermato inequivocabilmente come il programma della precedente giunta, non difforme nella sostanza e nelle scelte di linea da quello attuale, fosse stato accettato da qualche parte senza aver maturato un intimo convincimento sulla bontà e sulla realizzabilità dello stesso”. Dunque, l’apertura della crisi era scaturita dalla necessità di riesaminare il programma di governo, per trovare su di esso il pieno accordo fra i partners della giunta. Il risultato del riesame aveva portato l’esecutivo a scegliere di operare soltanto su quei problemi intorno ai quali, precisò Giagu, “per la loro indilazionabilità e soprattutto per la loro importanza, è stato raggiunto l’accordo circa i tempi, i modi e i mezzi idonei per risolverli”. Le restanti esigenze non venivano per questo dimenticate, ma semplicemente rinviate ad un successivo confronto, in base alla convinzione che “governare e governare bene, in particolari situazioni di emergenza, significa anche fare coraggiosamente scelte operative e concrete”, calibrate anche sui tempi dei procedimenti politici e legislativi rispetto alla vita residua di una legislatura che stava per concludersi. “Le vicende che hanno determinato la crisi e la conseguente formazione di un’altra giunta regionale di centro-sinistra – affermò ancora il presidente – […] hanno soprattutto questo significato: i partiti della maggioranza hanno potuto constatare che esistono alcune scelte politiche e programmatiche comuni con le quali si possono affrontare e risolvere i principali problemi della nostra comunità regionale in questo momento politico. Su questi temi i partiti hanno trovato l’accordo al di là delle formali e spesso provvisorie etichette proprie della labile topografia correntizia”.
Un altro aspetto fondamentale del programma sul quale Giagu aveva voluto fare chiarezza, perché molto criticato (in particolare dall’opposizione interna e di sinistra), era quello della riforma della Giunta. Egli affermò che la proposta di aumentare il numero degli assessorati non corrisponedva a “sete di potere”, ma all’esigenza di dare alla Regione una struttura organica e funzionale, “capace di rispondere con prontezza e sollecitudine alle istanze sempre più numerose che una società in sviluppo pone”: tant’è vero, puntualizzava il presidente, che l’idea della riforma era nata avendo a riferimento l’organizzazione di altre Regioni italiane, in particolare quelle a statuto ordinario.
A chi poi accusava la giunta di non avere una “decisa configurazione autonomistica”, Giagu rispose, intanto, che se il rilievo avesse avuto fondamento il Psdaz non sarebbe entrato nell’esecutivo; quindi, che anche l’atteggiamento contestativo nei confronti dello Stato restava “un punto chiave del modo di essere” della giunta, e ricordò ancora che uno dei motivi delle dimissioni del precedente esecutivo regionale era stato “il rifiuto del governo ad assumere esplicitamente l’impegno per la pronta approvazione del disegno di legge 509”[55].
Infine, il Consiglio votò a scrutinio segreto. La giunta, bastandole 36 voti per ottenere la fiducia del Consiglio, poteva dirsi al riparo dal rischio della bocciatura. Oltre che sui 25 voti dei consiglieri legati alla maggioranza della Dc, infatti, Giagu e i suoi assessori potevano contare anche sui voti dei quattro consiglieri socialisti, dei quattro socialdemocratici e dei tre sardisti. La giunta ottenne la fiducia con 38 voti favorevoli: nonostante la defezione della dissidenza democristiana, dunque, essa aveva raccolto due voti più del previsto. Fra i consiglieri dei partiti di sinistra, fra i consiglieri morotei e fra quelli di “Forze nuove” questo fatto destò il sospetto, già sollevato da Zucca, che Giagu per non correre rischi avesse chiesto nascostamente alcuni voti ai partiti di destra, cosicché Giovanni Lilliu lasciò l’incarico di presidente della commissione di vigilanza sulla Biblioteca del Consiglio regionale, sostenendo di non potere prestare “una convinta collaborazione” ad un governo che egli riteneva fondato sulla collusione con “forze politiche antidemocratiche e antiautonomistiche presenti nell’assemblea”. Qualche giorno dopo Lilliu fu imitato da Paolo Dettori, che lasciò la presidenza della commissione Programmazione.
Quasi a indovinare questi accadimenti, subito dopo il voto di fiducia il consigliere socialdemocratico Pigliaru aveva detto : “Per il momento, seppure senza esultanze fuori luogo, diciamo che è stata fatta la cosa più urgente che imponeva la difficile situazione, e cioè l’elezione della nuova giunta”, ricordando così a tutti che se la crisi di governo era stata superata, i motivi di tensione, di instabilità e di incertezza per il futuro, invece, rimanevano[56].
La maggioranza democristiana decise di reagire in maniera dura alla “ribellione”. Il giorno 25 il gruppo consiliare deliberò il deferimento dei nove consiglieri di “Forze nuove” e degli “Amici di Moro” al collegio nazionale dei probiviri. I nove, per contro, annunciarono di non riconoscere legittimità a quella decisione e di autosospendersi dal gruppo fino al pronunciamento dei probiviri; annunciarono inoltre che avrebbero chiesto alla Direzione nazionale di aprire un’inchiesta sul comportamento dei “diversi esponenti democristiani” in occasione delle crisi della legislatura, e che non avrebbero partecipato all’imminente congresso regionale del partito. Quello stesso giorno anche Masia e Carrus vollero mostrare dissenso verso gli ultimi accadimenti e verso l’incapacità del partito di trovare una via di pacificazione (Albino Pisano aveva vanamente cercato di mediare prima che il gruppo consiliare adottasse il provvedimento contro i “ribelli”): il primo lasciò la presidenza della commissione Industria, il secondo quella della commissione Statuto.
In queste condizioni la Dc sarda si apprestava a celebrare il suo terzo congresso ordinario. Poco prima dell’apertura dei lavori, un esponente della maggioranza rilasciò la seguente dichiarazione: “In questi anni morotei e forzanovisti hanno avuto, a livello di giunta e di segreteria regionale, posti di preminente prestigio, per cui se deterioramento c’è stato non possono che essere corresponsabili. Non possiamo accettare la tesi secondo la quale noi siamo i diavoli e loro gli angioletti. Possiamo trovarci d’accordo se diciamo che siamo un po’ tutti dei diavoletti”[57].
I lavori del congresso iniziarono il 29 settembre. L’attesa intorno all’evento era stata grande, perché la speranza generale era che esso potesse segnare la fine della guerra fra le correnti e, dunque, l’inizio di un periodo di stabilità per il governo dell’isola. Ma gli sviluppi degli ultimi giorni avevano raffreddato le speranze: la sala dei congressi della Fiera di Cagliari (il luogo scelto per l’assise democristiana) era rimasta in gran parte vuota (secondo l’“Unione Sarda” tra delegati e “addetti ai lavori” era presente soltanto un centinaio di persone), proprio come se tutti sapessero in anticipo che il convegno avrebbe semplicemente confermato lo status quo.
Gli interventi degli oratori, nei fatti, dimostrarono piuttosto la volontà dei contendenti di ribadire la bontà delle rispettive convinzioni e di scaricare sulla controparte la responsabilità della crisi del partito, che quella di cercare un reciproco avvicinamento. Esemplari, per la maggioranza, furono le parole del segretario Bona: “Siamo stati accusati […] di voler ingiustamente discriminare degli amici che come altri militanti del partito hanno dato in tante circostanze un contributo di non poco momento all’azione della Dc sarda. Noi sappiamo, ed è necessario che lo sappia l’intera base del partito, che ciò non è vero; che anzi costituisce una insinuazione che va respinta perché non trova sostegno alcuno nei fatti, né negli intendimenti e tanto meno nello stile di professione politica che ci contraddistingue. […] Senza peraltro ostinazione alcuna ci siamo nei fatti adoperati, incoraggiando e promuovendo il superamento delle divisioni […]. Con rincrescimento dobbiamo constatare che, dalle posizioni interne di dissenso, non è emersa una linea politica alternativa, in grado al tempo stesso di sostanziarne le motivazioni e di consentirne il dibattito politico nelle sedi appropriate”.
Prendendo a sua volta la parola, Giagu parlò soprattutto nella qualità di presidente della Regione e difese le “criticate” dichiarazioni programmatiche della sua giunta dalle “acrobatiche accuse” della minoranza interna. Egli volle inoltre sottolineare che la crisi di governo non era stata aperta per oscuri e incomprensibili motivi, per dare corso a “segreti disegni”, ma perché l’alleanza di centrosinistra “vacillava” e non era più in grado di operare nell’interesse della Sardegna: “Non siamo stati creduti e la situazione si è ancora di più aggrovigliata. Ma siamo noi che l’abbiamo fatta precipitare? Siamo noi che […] abbiamo votato contro la giunta, che presentiamo mozioni di sfiducia […] che disconosciamo gli organi di partito? Siamo noi, dopo tutte queste cose, quelli ai quali si chiede di avere senso di responsabilità? Noi riteniamo di averne oggi e di averne avuto in passato: abbiamo atteso le minoranze in delegazione per condurre le trattative e per mettere a punto il programma, per discutere la struttura della giunta e per sollecitarne la partecipazione. Siamo oggi qui ancora pronti a discutere, per fare le valutazioni del passato ed affrontare i temi di partito e di governo per il futuro, per comprenderci e, se mi si crede, per aiutarci”[58].
Il giorno dopo prese la parola Paolo Dettori, che guidava con Ariuccio Carta una piccola delegazione di morotei e forzanovisti. Egli respinse gli appellativi di “ribelli” e “dissidenti” che (prima del congresso) la maggioranza del partito aveva utilizzato parlando degli uomini della minoranza, e affermò che l’assetto interno non era scaturito da un dibattito “ricco e libero” ma dalla prevaricazione del più forte sul più debole: “Non è tempo di profeti disarmati nella Dc sarda: ma stiamo attenti a non privilegiare soltanto le ragioni del potere. Ora le cose rischiano di essere sistemate, nel partito e nella Regione, in modo tale da emarginare una schiera larga di amici […]. Questo è un tipo di tentazione che va respinta: l’unità si fa se hanno spazio e possono essere ascoltati anche i profeti disarmati. L’unità si fa se hanno uno spazio anche quelli che sono considerati qualche volta predicatori inutili”[59].
L’impressione della vigilia rimase confermata. Il congresso si chiuse senza la presentazione di un solo documento, con le parti ferme sulle posizioni di partenza e con una votazione senza storia che conferì alla maggioranza (Giagu, Cossiga, Del Rio, Abis, Garzia, Corrias, Contu) 29 seggi su 40. Se il giornale di Sassari rinunciò del tutto a dare conto dello svolgimento del congresso democristiano, quello di Cagliari evitò di riportare la cronaca della seconda e conclusiva giornata, limitandosi ad un commento colmo di amarezza: “Si realizza giorno per giorno – come è avvenuto nel deludente congresso regionale del partito – il divorzio tra parole e fatti, tra intenzioni e azioni, con gli esiti che abbiamo sotto gli occhi. La Dc sarda è perciò ferma alle diatribe spesso mediocri, invecchiata nella palude di polemiche sterili e lo stallo dura ormai almeno dal 1969”. Nel frattempo, però, i gravi problemi economici e sociali della Sardegna continuavano a rimanere irrisolti; perciò la Dc doveva finalmente “decidere se continuare a spendere le migliori energie nello scontro interno, oppure onorare gli impegni di governo” assunti di fronte ai cittadini: “Dovrà farlo tenendo presente che all’uomo della strada importa poco sapere chi siano i vinti e chi i vincitori nella battaglia di partito; gli importa invece che i veri perdenti non continuino a essere tutti i sardi e che le speranze residue dell’isola non vengano oscurate definitivamente dall’eclisse politica”[60].
L’incomunicabilità tra la maggioranza e la minoranza della Dc sarda rese impossibile anche l’accordo per l’elezione del segretario e per il rinnovo delle altre cariche. I contrasti interni, più che mai vivi, di lì a poco sarebbero stati la causa scatenante di un’altra crisi di governo, mentre la precedente era stata appena superata.
La caduta della terza giunta. La giunta, del resto, era già nel mirino dell’opposizione e il 5 ottobre, rientrando da Roma[61], Giagu trovò il Consiglio regionale in fermento. Il Pci aveva presentato una mozione che sintetizzava alcune proposte volte a “far fronte ai problemi drammatici dell’isola” e a “dare soluzione alla profonda crisi politica” di cui la Dc, che non riusciva a governare nemmeno se stessa, era ritenuta la principale responsabile.
Fanfani, che non aveva perso le speranze di ricondurre all’ordine la Dc sarda, era frattanto riuscito a promuovere un accordo di massima fra le correnti, proponendo Efisio Corrias per la carica di segretario regionale. Il 19 ottobre però, a stretta maggioranza, il comitato regionale decise di designare Sandro Usai, il quale, eletto, accettò l’incarico con riserva proprio in considerazione dello scarso consenso realizzatosi intorno al suo nome; la forte minoranza, che all’atto della designazione di Usai aveva accusato i vertici del partito di non volere rispettare gli accordi raggiunti con Fanfani, non prese parte al voto.
Gli effetti negativi della recrudescenza dello scontro si videro il 25 ottobre, quando il Consiglio regionale fu chiamato ad approvare il provvedimento di legge (che era stato bloccato in marzo dalla Cee) sulla produzione foraggiera e sull’organizzazione delle aziende pastorali. Molti consiglieri democristiani non si presentarono in aula e la legge passò con 29 voti favorevoli – compresi quelli dei morotei e dei forzanovisti, che vollero dare il loro appoggio ad una legge importante per la Sardegna –, e soltanto grazie alla decisione del Pci di non votare contro ma di astenersi: alcuni di quei 29 voti, infatti, erano della destra consiliare, e per questa ragione anche i socialisti avevano deciso di astenersi, facendo mancare il loro apporto alla giunta (i voti contrari furono 17). L’astensione socialista diede modo alle opposizioni di chiedere le dimissioni di una giunta che appariva, ormai, poco credibile; il sardista Bruno Fadda, pur criticando il comportamento dei consiglieri socialisti, mise in risalto lo stato di “confusione” presente nella Dc ed espresse l’esigenza di una verifica di governo, mentre anche il forzanovista Gianoglio chiese le dimissioni della giunta. L’attesa replica del presidente della Regione si risolse in un brevissimo intervento, al termine del quale Giagu si disse pronto ad accogliere l’appello di Fadda per arrivare al più presto ad una verifica della maggioranza.
Quel proposito rimase però inattuato, perché nei giorni seguenti la situazione politica generale peggiorò rapidamente. A fine mese il Psi comunicò che il primo di novembre il suo comitato regionale si sarebbe riunito per discutere la richiesta di una frangia sempre più consistente del partito che voleva la fine immediata della collaborazione con la Dc. Questo accadeva mentre in casa democristiana la conflittualità continuava ad inasprirsi: incapace di guidare il partito verso la pacificazione, Usai si dimise e la maggioranza, ancora una volta in disaccordo con la minoranza, elesse al suo posto Vittorio Bona (che era già stato segretario nei due mesi precedenti il congresso regionale)[62].
Pochi giorni dopo la giunta regionale venne a trovarsi in grave difficoltà. Il 6 novembre il gruppo consiliare comunista presentò una mozione di sfiducia, ma Giagu non volle discuterla subito, sostenendo che la priorità spettava alla procedura per la sostituzione dell’assessore socialista Branca (che era deceduto il 26 ottobre) con il collega di partito Piero Puddu. Ma a quel punto, sorprendendo i suoi stessi compagni, il consigliere del Psi Annibale Francesconi dichiarò che non aveva senso anteporre la surroga di un assessore alla verifica di governo e, facendo riferimento al contestato voto sulla legge per le aziende pastorali, auspicò le dimissioni di una giunta che egli considerava, di fatto, ormai minoritaria. Giagu, che probabilmente interpretò le parole di Francesconi come il segnale del definitivo defilarsi dei socialisti, chiese una pausa di riflessione; poi, rientrato in aula, disse di avere preso atto del venir meno della “sufficienza numerica” sulla quale si reggeva la sua giunta, “a causa – disse – dell’insorgere di frange di dissenso” mai manifestatesi prima, e comunicò al Consiglio che l’indomani mattina si sarebbe riunito con la giunta per “trarre le conseguenze”. Al rientro del presidente, però, il dibattito si rianimò immediatamente; alle dichiarazioni di sfiducia di destra e di sinistra si aggiunsero quelle dei socialdemocratici Ghinami e Biggio, che non condividevano la posizione del capogruppo Pigliaru e giudicavano inutile l’ostinazione della giunta a “voler durare senza prospettive di miglioramento”: perciò, e pur di fronte all’intervento di Catte, che parlò della volontà socialista di “non voler procedere a una rottura”, e ad una parziale ritrattazione di Francesconi, Giagu, ottenuta una nuova sospensione dei lavori, nelle primissime ore del 7 novembre comunicò le dimissioni dell’esecutivo.
Due giorni dopo, però, un comunicato del gruppo consiliare socialista precisò che Francesconi aveva “certamente parlato a titolo personale” e che, anzi, aveva voluto “clamorosamente dissociarsi” dai deliberati del Psi (in seguito Francesconi fu deferito agli organi disciplinari del partito). A chiarire meglio la posizione del Psi, scese in campo il suo segretario, Giuseppe Catte: “Lo stato di incertezza in cui la giunta era costretta a muoversi per la dissidenza interna nella Dc, non poteva che portare ad un deterioramento di tutta la situazione politica e alla fine riflettersi anche sulla vita interna degli altri partiti. […] Il presidente Giagu, del resto, si era impegnato in Consiglio per una verifica della maggioranza, che ormai appariva a tutti, non solo ai socialisti, indispensabile. Il Psi non ha mai ritenuto che l’apertura di una crisi costituisca di per sé lo strumento unico e più sicuro per giungere ad una normalizzazione del quadro politico […]. Il chiarimento i partiti, primo fra tutti il partito di maggioranza relativa, lo devono ricercare al proprio interno, ricordando soprattutto che il problema degli equilibri interni è sempre meno importante dei gravi problemi dell’Isola, che attendono soluzione da un governo stabile. Per queste considerazioni i socialisti, pur ribadendo l’esigenza di superare uno stato di crisie di confusione divenuto insostenibile, non avevano inteso affrontare l’ultimo dibattito consiliare con una pregiudiziale volontà di rottura e tanto meno, poi, avevano individuato nel dibattito sulla surroga di un assessore socialista l’occasione per provocare la caduta di una giunta di cui essi stessi facevano parte. Il dissenso rispetto a questa linea, manifestato in aula da un consigliere socialista, non può in alcun modo ingenerare dubbi in proposito o modificare le decisioni degli organi ufficiali del partito”[63].
Dunque il Psi non aveva autorizzato alcuno dei suoi consiglieri a sollecitare l’apertura della crisi; tuttavia, come dimostrò l’atteggiamento dei socialisti nei giorni seguenti, il partito di Catte non si trovava più in sintonia con la giunta. Il 23 novembre, infatti, Giagu (che era stato designato il giorno prima dal suo partito, pur con l’astensione della minoranza) fu rieletto presidente senza i voti del Psi, che si astenne insieme al Psdi; per Giagu votarono i democristiani, anche i “ribelli” (per disciplina di partito), e i sardisti.
Il presidente provò ad intavolare le trattative per dare vita alla sua quarta giunta, ma si trovò subito di fronte alla indisponibilità del Psdi, del Pri e del Pli ad appoggiare un esecutivo che non rispecchiasse fedelmente il “centro-sinistra organico” nazionale, cioè che comprendesse anche il Psdaz. Per Giagu, invece, la collaborazione dei sardisti rimaneva un punto fermo, cosicché, dichiarando di non essere disposto a “diventare l’uomo adatto a tutte le situazioni”, il 4 dicembre annunciò di volere rinunciare all’incarico: “Non è che di colpo possa rinnegare tutto quanto ho fatto finora – disse in una intervista alla “Nuova Sardegna” –. Lo stesso monocolore da me presieduto si reggeva grazie all’appoggio esterno del Psdaz. Quindi ritengo di non poter accettare un mandato che non tenga conto di questi miei convincimenti politici”. Poi aggiunse: “Ho compiuto uno sforzo nel tentativo di riuscire a conciliare tutti quanti i problemi, che non riguardano soltanto la situazione interna della Dc. Ci sono anche esigenze di natura politica che non mi consentono di fare una giunta qualsiasi. Può darsi che domani in delegazione riesca a conciliare questi problemi, ma sono pessimista. Ci sono anche, è vero, grossi problemi all’interno del mio partito: uomini che sono stati in giunta per quarantotto giorni e che, evidentemente, non possono essere messi in disparte con leggerezza, dicendo loro: ora non mi servite più. […] Non è vero, come è stato detto, che tutta la situazione è stata determinata dai dissidi tra me e l’onorevole Soddu. La realtà è che il malessere dei partiti è conseguenza del malessere del Paese. Non è una crisi delle istituzioni o del sistema, che restano validi. Prima non avevamo davanti a noi grossi problemi, ora li abbiamo: industrializzazione, situazione nel settore chimico, cartiera di Arbatax, industrie di Villacidro, sproporzionato aumento dei consumi, il mondo della scuola che si muove in una determinata maniera. Non bisogna fare del qualunquismo; questi sono problemi reali, di fronte ai quali è perfettamente normale che ci si confronti e che si manifestino diversità di vedute”[64].
Il 6 dicembre 1973 Giagu confermò le dimissioni con una brevissima comunicazione al presidente Contu, ponendo fine alla sua esperienza di capo del governo regionale.
[1] Comunicato di “Nuova autonomia”; Nino Giagu De Martini nuovo presidente della Regione. Dichiarazione del presidente eletto. La designazione in sede di partito. Il testo del documento della Direzione regionale della Dc; Gestione unitaria della Dc sarda: dichiarazione di Nino Giagu De Martini in Direzione, in “Agi Sardegna”, a. XX, nn. 81-84, novembre 1970.
[2] Dopo la caduta del terzo governo Moro (giugno 1968) la Dc aveva dato vita ad un monocolore affidato a Leone e poi, sotto la presidenza di Rumor, ad un tripartito con Psu e Pri e ad un altro monocolore. I tre governi avevano avuto un’esistenza tormentata e una durata molto breve (tra i cinque e i sette mesi), ma il ritorno alla formula Dc-Psi-Psdi-Pri con un nuovo governo Rumor non aveva sortito effetti migliori, perché anche quell’esperienza si era esaurita presto (marzo-luglio 1970). Lo stesso destino aveva riguardato anche il quadripartito varato subito dopo da Emilio Colombo, che cadde dopo cinque mesi.
[3] Terminata la breve esperienza del Psu, fra i socialisti e i socialdemocratici era tornata molto profonda la divergenza sui rapporti da tenere con il Pci, una divisione che non era mai stata superata veramente e che, come si sa, nel 1947 era stata al centro della scissione di Palazzo Barberini. Rispetto ad allora anche il Psi era diventato un partito di governo, ma mantenendo la convinzione che la democrazia italiana avesse bisogno dell’apporto comunista.
[4] La prima segreteria Forlani era entrata in carica nel novembre 1969 e decadde nel giugno 1973.
[5] Forlani convoca a Roma i dirigenti della Dc sarda. Dichiarazione del deputato liberale Raffaele Camba. Articolo della “Voce Repubblicana”. Discorso del ministro Preti; Nota de “Il Popolo” sul colloquio Forlani-dirigenti democristiani sardi, in “Agi Sardegna”, a. XX, nn. 83-84, novembre 1970.
[6] Dichiarazione del segretario regionale del Psdaz, in “Agi Sardegna”, a. XX, n. 87, dicembre 1970.
[7] Gli sviluppi della crisi regionale; Le dimissioni del presidente della Regione. Testo della lettera di dimissioni del presidente, in “Agi Sardegna”, a. XX, nn. 89-93, dicembre 1970.
[8] Si veda il testo integrale delle dichiarazioni programmatiche della prima giunta Giagu in Appendice I.
[9] Per uno sguardo d’insieme sui vari aspetti dell’economia sarda tra il secondo dopoguerra e gli anni Settanta, si può utilmente consultare la sezione L’economia, in La Sardegna. Enciclopedia, a cura di M. Brigaglia, vol. II, cit.
[10] Il dibattito al Consiglio regionale sul programma della giunta Giagu, in “La programmazione in Sardegna”, a. 6, n. 31, gennaio-febbraio 1971, pp. 29-37.
[11] La replica del presidente Giagu, ivi, pp. 37-39.
[12] Fernando Tambroni apparteneva a “Nuove cronache”, la corrente che era stata organizzata dall’ala destra dei “fanfaniani” (Arnaldo Forlani, Franco Maria Malfatti) nel 1959, subito dopo lo scioglimento di “Iniziativa democratica” e l’avvento dei dorotei. Caduto il governo Segni (febbraio 1960) e falliti i tentativi dello stesso Segni di formare un nuovo esecutivo con il Psdi e il Pri, il presidente della Repubblica Gronchi incaricò Tambroni. Questi in marzo presentò un governo monocolore che riuscì ad ottenere la fiducia soltanto grazie ai voti dell’estrema destra missina e monarchica, un fatto che provocò le immediate dimissioni dei ministri Giulio Pastore, Fiorentino Sullo e Giorgio Bo. Nel paese si creò una diffusa avversione al governo e la tensione esplose a Genova alla fine di giugno, quando la città, fieramente antifascista, apprese che sarebbe stata sede del congresso nazionale del Msi. Le forti manifestazioni di protesta si estesero presto a diverse altre città e gli scontri con le forze dell’ordine causarono la morte di una decina di persone, cinque nella sola Reggio Emilia. Tambroni, sollecitato anche dalla Direzione democristiana (intervenuta con colpevole ritardo), si dimise in luglio.
Silvio Milazzo, uomo di vertice della Dc siciliana del dopoguerra, era stato protagonista di una vicenda clamorosa. Nell’agosto del 1958 era caduta la giunta regionale guidata da Giuseppe La Loggia, esponente di “Iniziativa democratica”; Fanfani aveva immediatamente imposto, come successore, Barbaro Lo Giudice, un altro uomo della sua corrente. Lo Giudice, però, non godeva di particolare stima negli ambienti democristiani siciliani, per cui, ignorando la direttiva del segretario nazionale, il comitato regionale del partito designò Milazzo. Questi, eletto presidente anche con i voti della destra e del Pci, formò una giunta tripartita con il Psi e il Pdium e l’appoggio esterno dei comunisti. Piazza del Gesù condannò l’intera operazione e invitò il presidente della Regione a dimettersi: Milazzo non obbedì e fu espulso dal partito (ottobre 1958).
[13] Le dichiarazioni di Donat Cattin furono riprese da “La Nuova Sardegna”, Le polemiche sul monocolore in Sardegna, 28 gennaio 1971.
[14] Si veda I lavori dela giunta regionale: fissati gli impegni prioritari di intervento, in “Agi Sardegna”, a. XXI, nn. 12-13, febbraio 1971.
[15] La Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio era stata fondata a Parigi nel 1951 e riuniva, oltre all’Italia, Francia, Germania Federale, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Sebbene i trattati istitutivi garantissero la libertà dei singoli Stati contraenti rispetto alle decisioni collegiali, gli orientamenti dell’organismo (influenzati in gran parte dalle due nazioni economicamente più forti, la Francia e la Germania) finirono per assumere spesso un carattere vincolante.
[16] Telegramma del presidente Giagu, in “Agi Sardegna”, a. XXI, n. 4, gennaio 1970.
[17] La discussione in assemblea sulla situazione mineraria dopo le proposte del ministro Piccoli: Testo o. d. g. approvati. La replica di Giagu, in Agi Sardegna, a. XXI, nn. 16-17, febbraio 1971.
[18] L’articolo 54 dello statuto sardo recita: “L’iniziativa di modificazione del presente Statuto può essere esercitata dal Consiglio regionale o da almeno ventimila elettori. I progetti di modificazione del presente Statuto di iniziativa governativa o parlamentare sono comunicati dal Governo della Repubblica al Consiglio regionale, che esprime il suo parere entro un mese. […]. Le disposizioni del titolo III del presente Statuto possono essere modificate con leggi ordinarie della Repubblica su proposta del Governo o della Regione, in ogni caso sentita la Regione. […]”.
Intervenendo in Consiglio regionale il 9 febbraio, Giagu aveva messo in luce anche la violazione dell’articolo 47 dello statuto sardo, che prevede che il presidente della giunta prenda parte “alle sedute del Consiglio dei Ministri, quando si trattano questioni che riguardano particolarmente la Regione”. Nella circostanza Giagu aveva lanciato un appello alla rappresentanza parlamentare sarda perché i diritti della Regione fossero rispettati.
[19] Subito dopo il periodo pasquale la protesta dei minatori aveva assunto toni drammatici. Gli operai, esasperati dal prolungato stallo delle trattative tra la giunta e il governo, avevano minacciato di allagare le gallerie e di iniziare lo sciopero della fame.
La Sogersa fu costituita a Cagliari il 1° luglio 1971. Amministratore unico fu nominato Paolo De Magistris, allora direttore della Divisione miniere presso l’assessorato all’Industria. Il capitale azionario iniziale, pari a 450 milioni di lire, fu formato con quote paritetiche dall’Ammi, dall’Ente minerario sardo e da Montedison; dopo l’approvazione del decreto finanziario da parte del Consiglio dei ministri, il capitale fu aumentato fino a un miliardo e mezzo di lire.
[20] I lavori del comitato regionale della Dc. Testo della relazione Soddu. Testo del discorso del presidente della giunta regionale, in “Agi Sardegna”, a. XXI, n. 58, luglio 1971.
[21] In agosto la legge fu sottoposta dal governo a rinvio tecnico in attesa del parere di conformità della Comunità economica europea; il nulla osta di Bruxelles arrivò nel mese seguente, e finalmente Giagu poté promulgare la Legge regionale 30 settembre 1971, n. 25: “Norme per l’attuazione di un piano di intervento nelle zone interne a prevalente economia pastorale”.
[22] Intensa attività politica per il “chiarimento”: i lavori del comitato regionale della Dc; Testo del comunicato del gruppo consiliare del Pci; Testo del documento del comitato regionale della Dc. Dichiarazione dei consiglieri del Msi; Dichiarazione del segretario regionale del Psi; I lavori del comitato regionale del Pci; Il testo del documento del comitato regionale comunista, in “Agi Sardegna”, a. XXI, nn. 74-76, 79, 83, ottobre-novembre 1971.
[23] L’assemblea regionale concede la fiducia alla giunta Giagu al termine del dibattito sui rapporti Stato-Regione. Il testo delle dichiarazioni del presidente della giunta regionale. Il dibattito in Consiglio regionale. La replica del presidente Giagu, in “Agi Sardegna”, a. XXI, nn. 77-78.
[24] In minoranza la giunta regionale in commissione bilancio. Dichiarazione del presidente Giagu. Dichiarazione di Soddu. Documento del comitato provinciale della Dc nuorese. Dichiarazione di Pazzaglia, in “Agi Sardegna”, a. XXI, n. 85, novembre 1971.
[25] Testo del documento del comitato regionale del Psi, in “Agi Sardegna”, a. XXI, n. 91, dicembre 1971.
[26] Ente sardo acquedotti e fognature, istituito con la Legge regionale 20 febbraio 1957, n. 18.
[27] Una ricostruzione dei fatti è fornita da “La Nuova Sardegna”: Bocciato il bilancio della Regione. La giunta Giagu si dimette, 29 gennaio 1972; e Incertezza e silenzio sulla soluzione della crisi, 30 gennaio 1972. Sono in qualche modo indicative della causa della caduta della giunta le parole pronunciate, subito dopo l’apertura della crisi, da Soddu, che si lamentava del fatto che “il dissenso determinatosi dentro il partito” non era stato “espresso apertamente”, e da Zucca, secondo il quale la Dc non aveva mai risolto “il dilemma: ‘il potere per il potere, il potere per governare’”. Si veda Sviluppi della diciottesima crisi regionale, in “Agi Sardegna”, a. XXII, n. 10, febbraio 1972.
[28] Dichiarazione di voto di Masia a nome di “Sinistra di base” e “Nuove cronache”, in “Agi Sardegna”, a. XXII, n. 13, febbraio 1972.
[29] Testo della lettera di “Sinistra di base” e “Nuove cronache”. Dichiarazione dei vice-segretari regionali e del capogruppo della Dc, in “Agi Sardegna”, a. XXII, n. 17, febbraio 1972.
[30] La base navale dell’isola di Santo Stefano, secondo gli accordi stipulati dall’Italia con la Nato nel 1954, aveva sempre avuto funzioni di “facilitazioni portuali” e di “deposito carburanti”. L’11 agosto 1972 un’intesa segreta tra il governo italiano e quello degli Stati Uniti d’America modificò quegli accordi, e Santo Stefano divenne la base delle navi d’appoggio ai sommergibili che operavano con la VI flotta americana. I sommergibili in questione erano i cosiddetti “Hunter killer”, dotati di propulsione e di armamento nucleari, che fino ad allora erano stati di stanza nelle acque spagnole. L’accordo italo-americano suscitò subito fortissime preoccupazioni: intanto perché, avendo eluso la discussione parlamentare, esso era lesivo della sovranità nazionale; inoltre perché istituiva un sito nucleare senza prevedere adeguate misure per la sicurezza pubblica. Il 17 settembre il deputato socialista Enrico Manca presentò un’interpellanza con la quale chiedeva al governo chiarezza su tutta la delicata questione, anche perché fino a quel momento il governo italiano aveva smentito che una base americana fosse in allestimento nell’isola di Santo Stefano. Il giorno dopo un documento del Consiglio provinciale di Sassari, sottoscritto da Dc, Pci, Psi, Psdi e Pri, impegnava la giunta provinciale ad intervenire presso le autorità regionali e nazionali perché venisse “definitivamente scongiurato” il pericolo rappresentato da un’installazione militare di quel genere. Nei giorni successivi la stampa nazionale, dal “Corriere della sera” a “L’Unità”, mise in risalto tanto l’illegittimità dell’accordo sul piano del diritto, quanto la pericolosità degli “Hunter killer”, definiti “perfetto strumento da guerra che nessuno vorrebbe avere in casa” e la cui presenza era stata imposta agli abitanti dell’arcipelago maddalenino, in spregio al diritto all’autodeterminazione della popolazione locale. Di fronte a questa mobilitazione il governo regionale era rimasto inerte; Spano tentò di rimediare il 27 settembre (il giorno prima di dimettersi), inviando al presidente del Consiglio dei ministri, Andreotti, una “nota di protesta” nella quale lamentava il mancato coinvolgimento della Regione in una decisione che appesantiva il carico delle servitù militari in Sardegna e rischiava di compromettere lo sviluppo turistico dell’arcipelago di La Maddalena. La nota, però, si limitava a chiedere che il governo italiano riesaminasse “responsabilmente” i termini dell’accordo. Sulla vicenda, ancora oggi di scottante attualità, si veda La Maddalena, Sardegna. Storia e cronaca della base nucleare di S. Stefano. 1972-1991, a cura di S. Sanna, Cuec Editrice, Cagliari, 1994.
[31] M. Atzori, La crisi regionale: si ricominciano le “esplorazioni”, in “La Nuova Sardegna”, 29 novembre 1972.
[32] L’ultima crisi parlamentare aveva infatti bloccato le iniziative statali a suo tempo concordate con la Regione sarda. Andreotti (che in febbraio era subentrato ad Emilio Colombo) garantì a Giagu (che guidava una delegazione di sindaci e amministratori del Sulcis-Iglesiente e del Guspinese) che l’Enel avrebbe mantenuto i livelli occupativi nelle miniere di Carbonia grazie ad un piano di manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti. Intanto, al fine di valutare l’opportunità di proseguire l’attività estrattiva, sarebbe stata ripristinata la commissione tecnica nominata dall’ex ministro Piccoli; i risultati del lavoro della commissione sarebbero stati resi noti in occasione della Conferenza mineraria nazionale, prevista per il mese di marzo a Cagliari. Sui lavori della Conferenza mineraria, Conferenza Nazionale Mineraria. Cagliari, 9-11 marzo 1973. Atti, Ente Minerario Sardo, Cagliari, 1974.
[33] Il testo della dichiarazione fu pubblicato da “La Nuova Sardegna”, Giagu presenta la nuova giunta […], 13 gennaio 1973.
[34] Si veda il testo integrale delle dichiarazioni programmatiche della seconda giunta Giagu in Appendice I.
[35] Il dibattito al Consiglio regionale sul programma della giunta Giagu, in “La programmazione in Sardegna”, anno 7, nn. 41-42, ottobre-dicembre 1972, pp. 89-96.
[36] La replica del presidente Giagu, ivi, pp. 97-99. Durante il dibattito, diversi consiglieri avevano condannato la rissa intorno all’assegnazione degli assessorati. Giagu volle spenderci sopra qualche parola: “Signor Presidente, Onorevoli colleghi, devo al termine di questa mia replica dare alcuni chiarimenti all’onorevole Soddu e al Consiglio secondo gli impegni assunti agli inizi di questo dibattito. Devo dire che lo stralcio dello Sport dalle competenze dell’Assessorato al turismo erano dovute alla preoccupazione di non appesantire un assessorato, al quale era mia intenzione appoggiare materia di straordinaria attualità, importanza e gravosità quale è l’Ecologia […]. Mi sembrava che la materia potesse trovare la collocazione più idonea nell’Assessorato al turismo, per le evidenti connessioni che ci sono con questo settore […]. Da un esame più accurato, e successivo alle dichiarazioni programmatiche e alle indicazioni dei destinatari degli assessorati, è apparso invece che il settore ecologico, al quale l’onorevole Soddu ha dimostrato la massima attenzione e una particolare propensione, doveva avere una collocazione più giusta […] nell’Assessorato all’igiene e sanità, e visto pertanto come più attinente alla salvaguardia delle condizioni di vita, anche in conseguenza di un processo di industrializzazione (e di un processo di industrializzazione particolare) che gravemente può pesare, sotto il profilo igienico e sanitario, sulle popolazioni sarde”.
[37] Legge regionale 31 ottobre 1973, n. 20: “Provvidenze per favorire l’incremento della produzione foraggiera e per indirizzare le aziende pastorali verso forme più attive di organizzazione produttiva”. Per conseguire gli scopi dichiarati, recita l’articolo 2, “l’Amministrazione regionale è autorizzata a concedere, per gli esercizi finanziari dal 1973 al 1977, ai coltivatori diretti, coloni, mezzadri, singoli o associati in cooperative per la conduzione aziendale, buoni per l’acquisto delle sementi selezionate necessarie per l’impianto di colture destinate alla produzione foraggiera, e per l’acquisto di fertilizzanti per un valore di lire 10.000 per i singoli e di lire 15.000 per le cooperative, per ogni ettaro investito a coltura foraggiera”.
Con un vibrante intervento tenuto in settembre davanti al Consiglio regionale, Giovanni Lillliu (che fu consigliere democristiano dal 1967 al 1974) denunciò l’eccessivo zelo con il quale il governo italiano – accogliendo i pareri contrari della Comunità Economica Europea – revocava o sospendeva le “misure protettive assistenziali che la Regione sarda, da tempo, aveva attuato con provvedimenti legislativi di sua specifica competenza, in favore delle categorie produttive dell’agricoltura isolana”. Lilliu, in sostanza, poneva in luce un aspetto fondamentale: nell’Europa che si stava costruendo l’autonomia regionale si trovava fortemente limitata da un sistema di accordi, stipulati fra gli Stati membri della Cee, che originava dalla considerazione “nazionale” dei problemi e delle prospettive, e che dimenticava le unità di base, le regioni, e in modo particolare trascurava le prerogative statutarie delle regioni rette da un ordinamento speciale. Il discorso fu pubblicato in seguito con il titolo Comunità economica europea, Stato italiano e Regione sarda, in G. Lilliu, Questioni di Sardegna, Editrice Sarda Fossataro, Cagliari, 1975.
[38] Le elezioni si tennero il 5 maggio. La corrente di “Iniziativa popolare” (che in campo nazionale faceva capo a Rumor e Piccoli) espresse sei delegati: L. Abis, M. Cocco, R. Garzia, A. Arru, R. Rabagliati, L. Monne; “Forze nuove” cinque: A. Carta, D. Dessì, S. Floris, G. Lilliu, G. Masia; “Nuove cronache” quattro: L. Tronci, T. Burrai, E. Pilia, G. Spano; infine, tre delegati ciascuna espressero le correnti di “Impegno democratico” (il cui riferimento nazionale era Colombo): C. Molè, D. Mannironi, G. Demontis; degli “Amici di Moro”: P. Dettori, P. Serra, M. Tilocca; e della “Sinistra di base”: F. Cossiga, P. Are, G. M. Lai.
[39] Dibattito in assemblea regionale sullo sviluppo delle zone minerarie dell’isola: testo dell’o. d. g. approvato e dichiarazioni del presidente Giagu, in “Agi Sardegna”, a. XXIII, n. 36, maggio 1973.
[40] Dichiarazione del segretario regionale del Psi; Comunicato del comitato regionale del Psi, in “Agi Sardegna”, a. XXIII, nn. 42, 44, maggio-giugno 1973. Il decreto di nomina di Castellaccio fu pubblicato il 23 novembre; il democristiano Danilo Sulis, che lasciava l’Esit, fu insediato lo stesso giorno alla presidenza dell’Esaf.
[41] Legge regionale 1 agosto 1973, n. 16: “Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 20 aprile 1955, n. 6, concernente la protezione delle acque pubbliche contro l’inquinamento”.
[42] Si vedano gli articoli de“La Nuova Sardegna” L’onorevole Soddu minaccia le dimissioni dalla giunta, 1 luglio 1973 e Reperiti i fondi per la Ottana-Olbia, 3 luglio 1973.
[43] Dibattito in assemblea sulla polemica Giagu-Soddu per la strada Ottana-Olbia, in “Agi Sardegna”, a. XXIII, n. 55, luglio 1973.
[44] Si tratta del quarto governo Rumor, un quadripartito Dc-Psi-Psdi-Pri insediatosi il 7 luglio.
[45] Sviluppi della XX crisi regionale, in “Agi Sardegna”, a. XXIII, nn. 61-62, settembre 1973.
[46] Si veda l’articolo Mercoledì verrà eletto il segretario regionale, in “La Nuova Sardegna”, 25 agosto 1973.
[47] Sviluppi della XX crisi regionale: dichiarazione di Giagu, in “Agi Sardegna”, a. XXIII, n. 63, settembre 1973.
[48] Sviluppi della XX crisi regionale, in “Agi Sardegna”, a. XXIII, nn. 64-65, settembre 1973.
[49] Si veda il testo integrale delle dichiarazioni della terza giunta Giagu in Appendice I. Prima di dare inizio ai suoi lavori, il Consiglio regionale aveva commemorato Salvador Allende, il presidente della Repubblica cilena morto suicida in seguito al colpo di stato militare perpetrato dal generale Augusto Pinochet.
[50] Sviluppi della XX crisi regionale; Il dibattito sulle dichiarazioni programmatiche della giunta Giagu, in “Agi Sardegna”, a. XXIII, nn. 66, 68-69, settembre-ottobre 1973.
[51] Il discorso fu poi pubblicato in P. Soddu, La crisi inutile e il potere arrogante, Edizioni di Nuova Autonomia, Sassari, 1973, pp. 53-115.
[52] Si veda G. Lilliu, Questioni di Sardegna, cit., in particolare pp. 73-84.
[53] Efisio Corrias fu tra i più attivi organizzatori della Dc nella provincia di Cagliari e a lungo fece parte del Consiglio nazionale democristiano.
[54] P. Dettori, I problemi della Sardegna e la legislatura “sprecata”, Edizioni di Nuova Autonomia, Sassari, 1974, pp. 1-15.
[55] La replica del presidente Giagu, in “Agi Sardegna”, a. XXIII, nn. 68-69, settembre-ottobre 1973.
[56] Risolta la XX crisi regionale: il voto di fiducia. Dichiarazioni e commenti sul risultato della votazione, in Agi Sardegna, n. 67, settembre 1973. I consiglieri missini, che si sentirono chiamati in causa dalle parole di Lilliu, emisero un comunicato con il quale davano la loro “parola d’onore” di avere votato contro la giunta e addirittura minacciavano di querelare chiunque sostenesse la tesi opposta. La grande attenzione con la quale le forze democratiche vigilavano per impedire che il Movimento sociale potesse in qualche modo influenzare il governo, in Sardegna come altrove, era giustificata sia dal recente tentativo golpista (dicembre 1970) di Junio Valerio Borghese, ex comandante della “Decima Mas” fascista, sia dalla crescente minaccia rappresentata dalle formazioni eversive di estrema destra, tra le quali era da ascrivere anche il Fronte nazionale della Gioventù, un’organizzazione di tipo paramilitare legata al Msi e fondata, tra gli altri, dallo stesso Borghese.
[57] A volere seguire una ricostruzione della “Nuova Sardegna”, la crisi della Dc sarda derivava dal mancato rispetto di un accordo che le correnti sembravano avere raggiunto all’indomani della caduta della giunta Spano. Secondo l’accordo, la “Sinistra di base” doveva avere, oltre alla presidenza della Regione, anche quella del Banco di Sardegna; “Forze nuove” doveva avere la segreteria del partito, la presidenza della Sfirs e la possibilità di dividersi tre assessorati con gli “Amici di Moro”; questi ultimi, inoltre, avrebbero potuto scegliere tra la presidenza dell’Esaf e quella dell’Ente minerario sardo, mentre quella rimasta delle due sarebbe andata a “Nuove cronache” insieme ad un assessorato; il cosiddetto “gruppone” di Cagliari doveva avere le presidenze del Consiglio regionale, del Cis e dell’Arst (l’Azienda regionale dei trasporti), oltre ad un assessorato; infine, il sesto assessorato democristiano doveva andare ad un esponente dei dorotei di Abis. Alla resa dei conti, però, soltanto Corrias (per il “gruppone”) e Murgia (per “Forze nuove”) avevano potuto prendere possesso delle cariche previste dall’accordo, anche perché alcuni interessati avevano avanzato richieste impreviste (al doroteo Garzia era stata accordata la presidenza dell’Etfas), dando origine ad un diffuso malcontento e alla conseguente discordia. Si veda Il congresso sancirà la frattura nella Dc, in “La Nuova Sardegna”, 29 settembre 1973.
[58] Testo della relazione del segretario regionale della Dc; Testo del discorso del presidente Giagu, in “Agi Sardegna”, a. XXIII, nn. 71-72, ottobre 1973.
[59] P. Dettori, I profeti disarmati, in Paolo Dettori. Scritti politici e discorsi autonomistici, cit., pp. 295-309.
[60] G. M., I sicuri perdenti, in “L’Unione Sarda”, 2 ottobre 1973.
[61] Nella capitale Giagu aveva avuto incontri con diversi esponenti del governo, in particolare con Ciriaco De Mita, allora ministro dell’Industria, al quale aveva nuovamente sottoposto il problema delle miniere di Carbonia, che l’Enel intendeva abbandonare. Il presidente della Regione aveva preso parte anche ad una riunione, promossa da Fanfani, fra i presidenti delle Regioni italiane.
[62] Furono eletti anche i quindici membri del nuovo direttivo regionale: Francesco Asara, Titino Burrai, Beniamino Camba, Antonio Arru, Efisio Corrias, Giorgio Deiana, Leopoldo Durante, Raffaele Garzia, Nino Giagu, Giovanni Maria Loi, Giuseppe Meloni, Domenico Mannironi, Giuseppe Scano, Sandro Usai e Giovanni Battista Zurru.
[63] Sviluppi della situazione politica; Aperta la XXI crisi regionale, in “Agi Sardegna”, a. XXIII, nn. 79, 81-82, novembre 1973.
[64] Non sono l’uomo adatto a tutte le situazioni, in “La Nuova Sardegna”, 5 dicembre 1973.