Hic manebimus optime di Silvana Fasce
Immagini dell’alterità e dell’identità nelle rappresentazioni dello spazio del mondo classico: modelli culturali e retorica[1].
Il sistema delle rappresentazioni dello spazio elaborato dal mondo classico è un argomento che ha ricevuto e continua ad ottenere grande attenzione da parte della geografia storica e della storia del pensiero geografico antico, ma anche da parte dell’archeologia, dell’antichistica, della geografia della percezione e della psicologia storica. In queste pagine, vorrei pormi delle domande su come gli antichi hanno pensato lo spazio, non dal punto di vista delle scienze geografiche o della concezione del territorium quale ambito geografico di un dominio politico-militare, ma dal punto di vista delle immagini mentali. Tali immagini non sono mai arbitrarie, poiché risultano strettamente funzionali alle modalità con cui i gruppi umani si legano allo spazio fisico.
Le fonti di riferimento a cui attingiamo appartengono alla letteratura intellettuale, poiché della cultura intellettuale è espressione la quasi totalità dei testi letterari greci e latini a noi pervenuti; perciò, ci troviamo di fronte ad un incrocio di sapere e immaginario, dal momento che la letteratura tratterà sempre degli spazi e dei luoghi in quanto proiezioni di significati. Non si parla, quindi, di rappresentazioni mentali soggettive in rapporto all’individuo, ma di rappresentazioni mentali della sfera collettiva e di significato pubblico, nelle quali gli oggetti della rappresentazione geografica, sia essa mentale, sia essa figurata o descrittiva, vale a dire fiume, bosco, palude, colle, deserto, isola, porto, città, sono di elementare evidenza[2].
1. Nella Grecia arcaica la carta geografica, come afferma Erodoto, viene «mostrata», «dettata», cioè trasferita in una descrizione letteraria, evocante territori reali e funzionante come una mappa mentale; il verbo impiegato per stendere la carta è graphein, «scrivere», dal momento che il discorso sostituisce il disegno ed è in grado di far vedere al lettore quello che non ha sotto gli occhi o non ha mai visto[3]. La rappresentazione cartografica, come la descrizione geografica, è perciò una mimesis o «arte della verosimiglianza»[4]. Essa comporta un lavoro d’interpretazione e, nello stesso tempo, di traduzione delle parole in figure ed immagini, e viceversa.
Nella cultura greca arcaica, rappresentare lo spazio sulla carta, meglio su un pinax, una tavola, appariva un’operazione audace, se ancora in età augustea Strabone definisce un prodotto dell’«audacia» la tavoletta dell’ecumene stilata, nel VI sec. a. C., dal primo, per così dire, cartografo, il filosofo Anassimandro[5]: audacia, in quanto la raffigurazione cartografica della terra inaugura una nuova visione geografica e cosmologica, dell’ecumene e dell’universo, appropriandosi di una prerogativa ritenuta specifica degli dei: la visione dall’alto, lo sguardo complessivo che abbraccia la terra[6]. La cartografia è una tecnica connessa certamente ai progressi della nautica e a determinate condizioni politiche ed economiche[7], ma i suoi inizi sono presentati secondo lo schema dei miti di fondazione: nel sistema di rappresentazioni mitiche della Grecia arcaica, la cartografia si configura come un’espressione della hybris, l’orgoglio e l’ardire umani nei confronti del divino[8].
In effetti, dividere, suddividere, ripartire, segnare il territorio, è un’operazione di estrema portata, se si pensa che le medesime operazioni sono compiute per fondare la città e vengono indicate, in greco, col verbo ktízo; proprio il verbo ktízo, nella lingua biblica dei LXX, è il verbo tecnico della creazione, dell’attività plasmatrice e ordinatrice divina, accanto a poiéo, che, diversamente, traduce l’atto del creare dal nulla[9]. Nella Genesi, Dio ordina la sua creazione separando la luce dalle tenebre, il cielo dalla terra, la notte dal giorno; la separazione è attività ordinatrice, per la quale gli elementi naturali acquistano forma e ritmo vitale. Del resto, il ruolo di Zeus consiste nel ripartire compiti e destini, come il lavoro del fondatore nel suddividere il territorio prescelto. Si riconosce lo schema nel racconto di fondazione dell’«Odissea», secondo cui l’eroe Nausitoo, stabilitosi a Schería, l’«amabile» isola dei Feaci, fondò una città «lontano dagli uomini laboriosi, circondò di mura la città, edificò case, e fece templi agli dei e divise le terre»[10]: Odisseo, incamminandosi verso la città, ne ammira «le lunghe mura, eccelse, munite di palizzata, meraviglia a vederle»[11], molto simili a quelle di una polis greca, che prevede una divisione razionale e geometrica dello spazio[12].
Il modello ellenico della hybris avvalora il principio di misura e di ordine che deve reggere le opere dell’uomo e il rapporto uomo-natura: esso torna in molte tradizioni leggendarie a proposito di inaudite modifiche del territorio e dell’ambiente: taglio di istmi, trasformazione di penisole in isole, unione di isole al continente, deviazione di fiumi[13]. Di per sé, intervenire sulla natura e sull’ambiente non si oppone all’ordine delle cose, purché l’intervento sia opportuno e non sproporzionato rispetto al principio dell’utile[14]; andare oltre, anche se possibile, fa scattare la colpa dell’hybris, una colpa che si palesa in una serie di terribili conseguenze per la comunità.
2. L’uomo di ogni tempo ha elaborato una concezione dello spazio a partire dalla realtà che lo circonda e in cui si trova a vivere. Allo spazio l’uomo antico attribuisce significati e valori, al punto che, «nell’immaginazione linguistica e culturale il tempo si fa spazio» e costruisce le sue relazioni su base locativa: ante/post, davanti/dietro per la relazione di anteriorità/posteriorità, sopra/sotto, alto/basso, per indicare la topografia del tempo suggerita dal linguaggio[15].
Non esiste uno spazio senza uno sguardo da cui coglierlo, una posizione rispetto alla quale riferirsi, un contenuto che lo individui, un valore che lo classifichi.
Nell’intuizione mitica, come nella vita religiosa di ogni tempo, alla rappresentazione dello spazio omogeneo e geometrico si sostituisce la rappresentazione di uno spazio carico di significato e potenzialmente simbolico, dove l’orientazione, la posizione relativa di destra e sinistra, fuori e dentro, la direzione, il centro, le percezioni di utile e di pericolo, attivano distinzioni che hanno il corrispettivo nell’organizzazione sociale: l’organizzazione sociale modella le rappresentazioni dello spazio, vale a dire, la genesi delle rappresentazioni spaziali è di ordine storico-sociale, essendo la nozione di spazio integrata nei sistemi di cultura, entro ampi e differenti quadri: quindi, le rappresentazioni spaziali sono proiezioni, rete di riferimento dei fenomeni sociali, vale a dire con Lévi-Strauss, sono rappresentazioni che permettono di pensare i rapporti sociali[16], ed, in sintesi, esprimono «la consapevolezza che la società ha di se stessa»[17].
La cura dello spazio del focolare, o dell’agorá nella polis, o dei locali del tempio, o dell’ager su cui far sorgere la città, o dei recinti sacri ed identificati, rispecchia l’esigenza di far corrispondere l’ambiente ad un’idea, innanzi tutto, all’idea di ordine: così, ad esempio, il verbo latino lustrare, attraverso la pratica dei riti i lustrazione o purificazione, sviluppa le accezioni di osservare, percorrere con lo sguardo, esplorare, da cui, con il passaggio ai fenomeni celesti, illuminare, fino alla determinazione temporale di un quinquennio. L’esegesi sarebbe banale, se non si mettesse in rilievo il valore collettivo che la lustratio degli arva riveste nella cultura romana in rapporto alla ciclicità stagionale dei lavori agricoli: purificazione significa rinnovamento e rifondazione, ricognizione del territorio e garanzie di sicurezza. Infatti, nelle rappresentazioni dell’antica società quiritaria, il census e la lustratio sono strettamente connessi, essendo la lustratio censoria la cerimonia che accompagna il censimento con cui avviene la disposizione, si direbbe la registrazione, del popolo armato: la purificazione quinquennale intende stabilire una barriera contro forze estranee nocive minaccianti dall’esterno e offrire garanzia di protezione all’esercito della respublica[18], data la contiguità, nella cultura antica, di religioso e pubblico, di pubblico e privato[19].
Come scriveva efficacemente Walter Belardi, «Tempo e Spazio: due “luoghi”, eterogenei e concomitanti, offerti dalla realtà all’agire dell’uomo. Già in essi l’agire incontra i primi condizionamenti, naturali e oggettivi … Ma poi altri condizionamenti, ancora spaziali e temporali, seppure di natura antropologica, si aggiungono a creare per l’individuo itinerari obbliganti: contrassegni della sua etnia, specificazioni della sua socialità. Evincerli non è dato se non per lenta e secolare conquista di libertà, per faticoso superamento di imposizioni di costume»[20]: accessi, spazi assegnati, spazi delimitati, barriere, spazi interdetti. Sempre nuove barriere creano divisioni su base religiosa, etnica, e sociale. Secondo uno schema psico-religioso e metacronico, alla base delle proibizioni è il divino, che riserva a sé parti di tempo e di spazio: spazio sottratto alla dimensione profana. Di qui, lo sforzo dell’uomo antico per conoscere, in modo preciso, luoghi non vietati, in cui organizzare e programmare le sue opere, senza venir meno alle norme del costume sociale o religioso.
Ci troviamo nella sfera del lecito e del non-lecito, fas et nefas secondo una formula dell’antico calendario religioso dei Romani, che individua tempi e luoghi appositi per il culto e per le attività profane e ritualizza atti espiatori relativi all’impiego del suolo e allo sfruttamento di determinate risorse naturali[21].
3. La prospettiva da cui l’uomo greco considera lo spazio è quella della città, l’“interno” rispetto all’ “esterno” costituito dal territorio che si estende oltre la chora, la campagna circostante. Qui inizia uno spazio “altro” da quello urbano, uno spazio ad esso contrapposto per diversi schemi di opposizioni.
La cultura della polis greca è una cultura urbana, in cui risiedono cittadini liberi, schiavi, stranieri e gente priva di diritti, mercanti, artigiani e contadini: città, quindi, che è spazio di vita e di sopravvivenza. Ugualmente, nella città ellenistica e nella Roma di età repubblicana e poi imperiale, nell’urbe risiedono i cives con pieno diritto, schiavi, liberti e stranieri, ma nell’urbe accorrono contadini e abitanti di altre regioni, e per svariati motivi, in caso di crisi, calamità, carestia, e, soprattutto, in caso di guerra[22]: città luogo di sopravvivenza, come denunciano testi letterari di vario genere, secondo un cliché che, condannando il lusso e lo spreco insiti nel mondo urbano, descrivono, in forte contrasto, il popolo bisognoso e indigente concentrato in città.
L’uomo greco si rappresenta lo spazio avendo la città come punto di osservazione ideale: infatti, anche il contadino dell’Attica, che durante la giornata lavora nella campagna, la chora oltre la cinta muraria, la sera rientra in città. La città è spazio abitato, luogo d’incontro e di comunicazione, quindi spazio civico variamente composito, ma dalla decisa identità politica, garante della difesa e della sicurezza comune. La città espressa dalla polis aristocratica è, così, una realtà monocentrica, un organismo unitario sul piano logico ed ideale. L’ideologia dello spazio urbano territoriale è quella di uno spazio circoscritto e delimitato, chiuso rispetto all’esterno e ben ripartito, all’interno, secondo una tassonomia, che dallo spazio fisico si trasferisce allo spazio sociale, e, ancora all’interno, regolamentato per estreme evenienze: prima fra tutte, la guerra, come accadde all’inizio della guerra del Peloponneso, quando, secondo Tucidide, la popolazione della chora dovette rifugiarsi ad Atene[23].
Lo spazio urbano della città greca è visto in termini di spazio strategico, chiuso e protetto dai pericoli esterni a scopo difensivo, come un’isola rispetto al territorio circostante; in Atene, infatti, a ridosso della cinta muraria, ai piedi dell’Acropoli, una fascia di terreno doveva restare sempre sgombra, interdetta agli insediamenti abitativi e non coltivata; ciò per consentire insediamenti straordinari in casi di necessità, senza alterare troppo l’ordine interno costituito[24].
Il contatto con lo straniero è ambiguo e conflittuale, nonostante il principio dell’ospitalità sia radicato nel costume e nel diritto: ancora una volta, l’archetipo di questa relazione si trova nell’«Odissea», dove la dea Atena, sotto l’aspetto di una nobile fanciulla, avverte Odisseo che i Feaci, abili naviganti e intraprendenti in mare, quelli che ricolmeranno l’eroe di favori e di doni, in patria, «non vedono volentieri gli estranei e non fanno cordiale accoglienza a chi venga da fuori»[25].
All’esterno della città, oltre la campagna coltivata, si trova la natura selvaggia, incolta, non abitata dall’uomo e di segno negativo, il mondo dell’altro e dell’alterità[26].
Se si vuole istituire una catena di relazioni a maglie strette fra modelli di organizzazione dello spazio nell’antichità, il modello greco di impiego del suolo e di organizzazione del territorio urbano risulta molto stringente, traducendosi in astratto in un modello politico e religioso: innanzitutto, come hanno chiarito da tempo alcuni studi importanti[27], per l’assoluto rilievo dato all’agorá, centro della polis, vale a dire della vita politica, assimilabile religiosamente e simbolicamente alla sacralità e alla stabilità del focolare domestico, con i sacri valori che questo rappresenta in epoca arcaica[28].
Al centro e all’idea del centro si lega, quindi, il complesso dei valori su cui si regge la comunità, valori che sono alla base, per i Greci, del concetto stesso di libertà: il concetto greco di libertà significa sempre possibilità di difesa e sicurezza per quanti si trovano dentro la città. Al centro e all’idea di centro, inoltre, si lega una simbologia dei rapporti sociali ispirati ai principi dell’eguaglianza e della reciprocità.
Dal centro, lo sguardo abbraccia il territorio urbano e si estende oltre il perimetro, fino ai campi coltivati, ambito politico e domestico, chiuso e protetto, connotato al femminile, stando a quanto afferma Senofonte circa la donna, «fatta per le occupazioni dentro casa», e l’uomo, «fatto per le occupazioni di fuori»[29].
Si delinea, quindi, una demarcazione fra il mondo che riunisce la casa, la città e le aree coltivate e quello delle zone che, a partire dal margine, non abitate e incolte, diventano sempre più selvatiche, zone della natura selvaggia, zone silvestri che l’immaginazione può riempire di vari oggetti geografici: fonti, fiumi, rupi, antri e precipizi. Certamente, non è il luogo del femminile, ma neppure del maschile: solo un giovane cacciatore potrebbe percorrerlo, pur con certi limiti di accesso, per esercitare la caccia o recuperare il bestiame che, al pascolo, si è inoltrato in una zona impraticabile[30].
Mentre lo spazio interno della città è sotto la tutela di Hestía, dea del focolare, quello esterno, aperto alla caccia e alle avventure, è sotto la guida di Hermes, ladro di bestiame: poiché, secondo la preistoria degli antichi, la caccia precede sempre la facies economica dell’agricoltura, allo spazio non addomesticato e non antropico si assimila, attraverso sequenze di opposizioni, la sfera del primitivo contro quella della cultura[31].
Uscire e rientrare, andare e tornare, osare nuove esperienze e portarne il frutto e i guadagni alla casa come alla città, incontrare pericoli in zone di margine senza addentrarsi in ambienti ostili, questo è quanto prevede il paradigma del corretto comportamento maschile. La fuga nello spazio venatorio, la caccia solitaria e il rifiuto di Afrodite non si addicono all’uomo e, a maggior ragione, alla donna greca.
Ecco allora che una serie innumerevole di miti greci, conosciuti attraverso intricate varianti, scaturite da un sistema simbolico molto strutturato, produce uno schema narrativo compatto: nello spazio privilegiato della foresta, nella selva sui monti o nelle valli solitarie e presso le rive dei corsi d’acqua, come presso le sorgenti riparate fra gli alberi, avvengono incontri inquietanti fra un giovane cacciatore e una vergine fanciulla che vive lontano dalla città, all’aperto, inseguendo la selvaggina[32]. Giovani dediti al servizio di Artemide disdegnano Afrodite, preferiscono la castità e contrastano il matrimonio: Tiresia, Atteone, Leucippo, Ippolito, Attis, Tanais, sono soltanto alcuni dei numerosi giovani incauti che percorrono boschi e selve, vittime impreparate ad affrontare la crisi del passaggio alla vita adulta, le delimitazioni di genere, le restrizioni imposte dai codici di comportamento, fino al tragico sacrificio della virilità o della vita stessa. Dafne, Callisto, Atalanta, Polifonte, sono solo alcune delle tante vergini che vanno incontro a violenze o a disavventure amorose, colpevoli di volere sottrarsi alle nozze: anche in questi casi, storie d’identità della sfera sessuale e rifiuto della sessualità che si esprime nella consacrazione alla dea cacciatrice, nella fuga dalla vita associata, nello scenario dell’ambiente selvaggio, nello stile di vita ferino, in uno spazio, che non si addice all’uomo adulto né, assolutamente, alla donna.
Nei boschi, nei luoghi desolati, presso le sorgenti all’ora meridiana o presso le rive di fiumi di grande portata, storie di aggressioni e di incesto coinvolgono giovani e fanciulle che si trovano in uno stato di vita in bilico fra natura e cultura, per usare una terminologia tanto convenzionale quanto pregnante: racconti mitici di paura, ambientati là dove l’ambiente naturale non conosce la correzione dell’uomo e il paesaggio non contiene i segni della civiltà. Nel De fluviis et montibus dello Pseudo Plutarco, oscure tradizioni mitografiche offrono un repertorio variegato su questa tipologia di racconto, i cui protagonisti sono cacciatori e giovani vaganti in luoghi aridi e disabitati, vittime di passioni amorose illecite, che in prossimità di fiumi dai gorghi vorticosi perdono miseramente la vita: certo, ogni episodio narrato prospetta un mito all’origine degli idronimi[33], ma il modello culturale è ancora percepibile. Le trasgressioni dei giovani si scoprono sullo sfondo dello spazio istintivo.
Sembra possibile, di nuovo, riconoscere che la rappresentazione dello spazio fisico si trasferisce nello spazio sociale e psichico, e che il carattere deontico del mito – vale a dire l’indicazione circa la condotta preferibile da tenere – si coglie nel fallimento dei protagonisti dei singoli episodi: la morte dei protagonisti permette di negare il valore delle loro scelte, mentre diventa un contrassegno immaginario dello spazio esterno al territorio abitato con la fase di passaggio dei giovani e delle fanciulle alla vita da adulti nella comunità civile.
Ovidio, nelle «Metamorfosi», racconta il noto episodio di Piramo e Tisbe, due giovani, lui greco, lei orientale di Babilonia, che, ostacolati nel loro progetto di nozze dai rispettivi padri sembra di capire per ragioni etniche, decidono di fuggire insieme, con la complicità della notte[34]. Non si tratta semplicemente di «fuggire»: i giovani decidono di «uscire prima di casa e poi dalla città; vagabondando nell’ampia pianura, di incontrarsi presso il sepolcro del re Nino e di nascondersi sotto un albero ombroso, un albero carico di candidi frutti, un altissimo gelso che si erge al margine di una fresca fonte»[35]. Qui giungerà la leonessa inferocita e qui i due giovani si daranno la morte, l’uno per non sopravvivere all’altra: elementi convenzionali e certamente, in età augustea, stilizzati dalla topografia retorica, ma combacianti perfettamente con forme dell’immaginario greco arcaico.
I miti con le relative ambientazioni costituiscono, infatti, per la cultura letteraria greca e romana una preconoscenza culturale, determinante nel costruire codici di comunicazione, ma anche per gestire religiosamente e socialmente il rapporto con l’ambiente. Fuori dallo spazio urbano, si apre la pianura estesa, dove l’estensione è incognita e pericolo: spazio esterno, della natura non civilizzata, del mondo senza regole e dello straniero. Una retorica dell’alterità[36].
A pensarci, Piramo e Tisbe, i due innamorati che erano stati reclusi dai padri al punto da essere costretti a comunicare attraverso una parete divisoria delle loro case, “dentro”, in casa e in città, erano sicuri e potevano pensare di vivere, dice Ovidio, iure , cioè, secondo la legge[37].
4. Nel sentire religioso dei Greci c’è permeabilità fra il mondo naturale, l’uomo e il divino. E’ come se l’uomo greco antico sentisse pulsare la vita nelle manifestazioni della natura ed esprimesse tale percezione attraverso i nomi corrispondenti a varie entità minori dai netti tratti antropomorfici, divinità atmosferiche e naturistiche, che popolano tratti del paesaggio terrestre e personificano le forze e le qualità naturali dell’ambiente: i venti, le nubi, l’arcobaleno, le Driadi o ninfe degli alberi, le Oreadi dei monti, le Alseidi dei boschi, le Naiadi delle fonti, le Napee delle valli, le Meliadi dei frassini, le Nereidi del mare, e altri innumerevoli cori di figure femminili divine, che attraversano non solo la mitologia, ma la vita quotidiana, integrando immagini ed esperienze reali in un organico sistema della vita urbana.
Poiché la rappresentazione antropomorfica del divino è peculiare di un politeismo maturo[38], la religione ellenica, come altre espressioni della cultura, tende a portare sul piano del mito le rappresentazioni del reale e quindi a ritrovarle nei riti. La rappresentazione dello spazio esterno alla città contempla la particolare tipologia del prato primaverile, il cui valore si illustra con la coppia che oppone l’agricoltura alla cultura precerealicola. L’immaginazione dei Greci ha stilizzato nella descrizione e nel rito lo spazio di un tempo del tutto trascorso, anteriore alla pratica dell’agricoltura, quando mitiche giovani eroine, attraverso la violenza o il sacrificio del loro corpo, hanno inaugurato il tempo dell’attualità, fondando il passaggio all’agricoltura[39]. Nella rappresentazione mentale arcaica, il prato fiorito a primavera, collocato dalla mitologia classica nello sfondo geografico del Mediterraneo antico, è il luogo dove si pratica una raccolta singolare, la raccolta dei fiori, commestibili o comunque dotati di preziose proprietà, operazione critica che prelude all’utilizzo delle piante e a nuove culture[40].
Come si apprende da varie tradizioni letterarie mitico-rituali, e come sembrano suggerire alcune scene dell’antica pittura parietale minoica e dell’arte vascolare attica, nella pianura irrigua e coperta di fiori, si consumano vicende di violenza e di morte che coinvolgono vergini fanciulle, intente a raccogliere fiori.
Kore-Proserpina, nell’inno omerico a Demetra, fissa l’attimo prima di essere rapita da Ade e trasportata per sempre nel regno dei morti[41]:
«Giocavamo e coglievamo fiori profumati con le nostre mani, il molle croco, i fiori dell’iris, il giacinto, rose dai grandi boccioli, gigli meraviglia a vedersi ed il narciso che l’ampia terra fece sorgere come il croco. Io li colsi con gioia, ma la terra dal basso si aprì. Ne uscì il possente signore di molte genti e mi portò sotto terra con il suo cocchio d’oro».
Altre figure del mito sono rapite nel prato primaverile smaltato di fiori e luogo d’insidia: Europa, Creusa, Orizia, persino Elena, rapita da Ermes mentre coglie rose appena sbocciate per offrirle ad Atena[42]. Cogliere fiori non ancora o appena sbocciati, l’anthologeîn, è un atto pericoloso, non per essere una violazione dell’ambiente naturale, ma per essere un richiamo, un appello alle potenze sacre e misteriose del sottosuolo, rito adolescenziale che segnala il passaggio dalla pubertà alla piena maturità sessuale, consentendo di accedere alla vita adulta e al matrimonio. Infatti, il modello del rapimento rientra nel ritualismo iniziatico, fondativo della vita comunitaria[43].
Da questa rassegna, scontata se si vuole, emerge l’importanza culturale e religiosa di tale rappresentazione che sacralizza e ritualizza il prato primaverile, in cui la raccolta dei fiori evoca un tempo presunto reale, ormai del tutto concluso, quando avveniva la raccolta dei bulbi e delle piante a scopo alimentare, un tempo anteriore a quello dell’attualità.
Infatti, l’esigenza di ordinare, classificare e organizzare lo spazio porta a operare nuove distinzioni negli ambiti del paesaggio, attraverso un procedimento contrastivo, che polarizza gli aspetti della realtà mediante coppie di opposizioni binarie, dentro/fuori, chiuso/aperto, vicino/lontano, utile/pericolo, puro/impuro, sacro/profano, maschile/femminile, sopra/sotto, alto/basso, caccia/agricoltura, ma anche agricoltura/precerealicoltura. Ovviamente, si tratta di una rappresentazione che ordina e nella quale un estremo scivola verso l’altro, contemplando una serie, pur non illimitata, di situazioni intermedie.
5. Nella letteratura dei Romani, il contrasto fra la natura selvatica e la natura addomesticata si indebolisce attraverso la rappresentazione del paesaggio bucolico, stilizzato nella sua dimensione letteraria, ma composto in quadri che riuniscono elementi tradizionalmente distinti, attualizzati nel contesto storico: nell’egloga I di Virgilio, attraverso il raccordo dei versi d’apertura con i due versi conclusivi, un unico sguardo riunisce la campagna (arva), la casa e l’orizzonte montuoso con le silvae [44]. I monti non risultano estranei all’ambiente dei pastori: nell’egloga V, tutta la natura piange Dafni, i pascoli, gli alberi, i fiumi, i monti selvaggi, le foreste e i feroci leoni[45]. Ugualmente, la caccia non è assimilata al polo negativo, ma è parte integrante della vita pastorale[46]:
«O se soltanto ti piacesse abitare con me i campi per te rozzi e le umili capanne e trafiggere i cervi e sospingere la schiera dei capretti al verde ibisco!».
Nella poesia augustea, il riferimento al mondo venatorio rimanda, persino in tono semiserio, ad un contesto del costume contemporaneo, che riconosce nella battuta di caccia un’occasione per istituire e conservare stabili relazioni sociali[47]. La presentazione del cacciatore adotta i moduli tradizionali del mito: con una vivida e dinamica immagine Orazio paragona Ottaviano che incalza Cleopatra, ormai vinta, ad un agile cacciatore, che nelle balze innevate dell’Emonia insegue la lepre[48], essendo entrambi topoi letterari sia il motivo dell’incompatibilità fra amore per la donna e passione per la caccia[49] sia l’equiparazione retorica dell’attività militare a quella venatoria[50].
Plinio il Giovane nel «Panegirico a Traiano» presenterà il princeps in uno scenario venatorio, che vede in primo piano le diverse componenti del paesaggio[51]:
«qual è la tua ricreazione se non percorrere (lustrare) i boschi, far sbucare le fiere dalle tane, valicare le alte cime dei monti e avanzare per orridi greppi senza l’aiuto di una mano o di chi ti preceda, e nello stesso tempo visitare con pia disposizione i sacri boschi e accostarsi alle divinità che vi dimorano?».
Traiano, nuovo Ippolito, è adattato alle ragioni della propaganda imperiale, tanto che alla passione della caccia Plinio aggiunge, subito dopo, lo svago della barca[52].
Secondo il sistema delle rappresentazioni dei Romani, sono orridi e suscitano paura soprattutto i luoghi montani, che non sono, però, luoghi generici, essendo oramai inseriti in una precisa topografia: nella X egloga virgiliana, Licoride ha lasciato Gallo per seguire un soldato al di là delle Alpi, preferendo nevi, horrida castra, freddo e solitudine, lontano dai soffici prati e dalle fresche sorgenti[53]. Ecco, scatta immediata un’ulteriore antitesi: anche Gallo, abbandonato, lascerà il suo ambiente sereno, la splendida e perfetta natura dell’Arcadia, e nella solitudine condurrà una vita simile a quella degli eroi del mito, che hanno scelto la montagna e la caccia, perché ora, per riscrivere le sofferenze d’amore del poeta non corrisposto, alla poesia elegiaca subentra il registro bucolico[54]:
«Ho deciso: preferisco soffrire nelle foreste tra i covi di fiere … percorrerò il Menalo in compagnia delle Linfe o caccerò i focosi cinghiali … già mi pare di procedere per rupi e boschi sonanti».
Properzio direbbe Ipse ego venabor, pur di seguire Cinzia che si è allontanata da Roma, rifugiandosi in campagna e preferendo la solitudine: sola eris et solos spectabis, Cynthia, montes[55].
Il volo di fantasia di Virgilio, tuttavia, non può spingersi molto lontano dalla visione di un territorio abitato: scese le ombre della sera, alle sue caprette il pastore potrà offrire un luogo ospitale: ite domum saturae, venit Hesperus, ite capellae, «andate a casa, caprette, viene la sera»[56]. Le ombre che scendono mentre il giorno declina e il fumo che si alza dai tetti, lontano, costruiscono un’immagine stilizzata, radicata nell’immaginario collettivo: et iam summa procul villarum culmina fumant / maioresque cadunt altis de montibus umbrae[57]. Il fumo è immagine della cultura, dello spazio reso ospitale dalla presenza dell’uomo[58].
Così, in Properzio, la vita ritirata lontano dall’urbe si svolge nei campi e nello sfondo del lavoro agricolo. Infatti, nelle rappresentazioni dei Romani, lo spazio di segno positivo è la campagna pianeggiante o lievemente collinare, abitata e coltivata, solcata dall’aratro, abbondante di frutti, facilmente raggiungibile, vicina alla città, dove il contadino ha mezzi sufficienti per vivere: laetor quod sine me devia rura colis[59]. Luoghi selvaggi, elevati, impervi, coperti di foreste, insidiati da paludi e acquitrini, non segnati da strade, sono spazi senza vita, solitudines, come quelle attraversate dai nemici di Roma, genti straniere che vivono ai margini dell’impero[60].
6. Il modello classico, che illustra gli attributi della civiltà contrapponendo lo spazio chiuso della casa e dell’urbe a quello aperto della selva, misterioso, ferino e carico di insidie, si ritrova con tratti netti in un passo di Agostino derivato da Varrone, dove si spiega il significato di un arcaico rituale romano volto a proteggere dall’influenza negativa del dio Silvano la dimora in cui fosse stato da poco partorito un bambino. Per impedire che il dio Silvano entrasse per noctem nella casa col suo effetto malefico, venivano chiamate in soccorso come custodi tre divinità, la cui presenza era rappresentata da tre uomini che si aggiravano vigili intorno alla casa; essi colpivano la soglia prima con una scure, quindi con un pestello, infine la spazzavano con una scopa: strumenti che nell’interpretazione di Agostino sono signa culturae, cioè simboli dell’agricoltura e totalmente estranei alla sfera del dio silvestre. Infatti, la scure indicherebbe la potatura degli alberi, il pestello la preparazione del farro, la scopa l’ammassare il grano nell’aia, operazioni dalle quali derivano i nomi delle tre entità ad esse funzionali, rispettivamente Intercidona, Pilumno e Deverra[61].
Evidentemente, il rito aderisce ad un sistema di rappresentazione dello spazio tipico di una comunità di agricoltori, che auspica per il neonato e per la puerpera la sicurezza della casa e la prosperità garantita dal lavoro agricolo, contro le aggressioni «notturne» di una forza sola ma terribile, selvaggia e incivile: tre divinità contro una, per scongiurare i mala infantiae[62].
7. Non sono i miti, le leggende e i racconti che conferiscono un valore negativo all’immagine dello spazio montano e forestale, ma l’assenza di cultura, il vuoto di significati, l’assenza di un modello in cui riconoscersi[63]. Per il Romano, infatti, il punto da cui osservare il mondo resta sempre la città: anche la campagna esiste nella relazione con l’urbs. La foresta e l’ambiente selvaggio ne sono l’opposto. Solo il giardino delle sontuose abitazioni, quando prevede un angolo in cui riprodurre la selva, diventa lo spazio della mediazione, che, mentre esalta esteticamente il contrasto fra due tipologie di paesaggio, celebra il trionfo della cultura e dell’artificio: «tra le lavorate colonne si fa crescere il bosco ed è apprezzata la casa se davanti guarda la vasta campagna» scrive Orazio all’amico Fusco, che ama vivere in città[64].
La retorica del paesaggio trasforma la natura in un discorso e rievoca infinite narrazioni. In ogni paesaggio, sia di campagna sia di città, il Romano colto e letterato può dire di vedere delle narrazioni e di riconoscervi delle storie ben note: vengono subito in mente le «Metamorfosi» di Ovidio, ma anche l’ekphrasis letteraria, sculture e monumenti architettonici, le immagini paesaggistiche dei parerga, con riferimenti ad una mitologia immediatamente riconoscibile alla prima osservazione. D’altra parte, all’uomo antico interessa la tipicità e non l’individualità.
Quando descrive la sua villa di Laurento, Plinio il Giovane mostra quale familiarità con il paesaggio vanti l’intellettuale romano: quanto più vive nell’urbs e per l’urbs, sommerso da incarichi e impegni, tanto più si dichiara amante delle bellezze naturali e del ristoro che anche un breve soggiorno, lontano dalla vita cittadina, può offrire[65]. Varie sono le configurazioni del paesaggio in cui si trova la sua villa (varia hinc atque inde facies): boschi che sembrano venire incontro a chi percorre la via di andata, ampi tratti di pianura, e una stupenda varietà del panorama, in modo che i molteplici aspetti del paesaggio (ancora facies locorum) sembrano «distinti e riuniti da altrettante finestre»; da tre lati, la vista è sul mare, il retro della villa, «guarda i boschi e più in lontananza i monti», silvas et longiquos respicit montes, dove il verbo respicere è il verbo tipico del guardare attentamente, dello sguardo intenso, del contatto cercato[66]. La dimensione estetica riunisce quegli aspetti che la scala dei valori e dei significati distingue.
Nella tragedia di Seneca «Tieste», si ritrova un modello capovolto di domus, la reggia degli Atridi, dove si consuma il pasto cannibalico dei figli imbanditi da Atreo al fratello. Il palazzo sorge a ridosso di un monte, su un luogo elevato, e dall’alto sembra schiacciare (premit) la città; innumerevoli stanze si succedono per finire sul retro in una zona ritirata, interna, uno spazio che racchiude, anzi sembra abbracciare, il bosco di una fonda valle: il bosco non si vede in lontananza, ma penetra, vegeto e ondeggiante, nel cuore della casa[67]. L’orrore per l’altezza dell’arx su cui si erge la reggia cresce alla vista di una quercia che sovrasta e domina il bosco, una quercia che guarda dall’alto (despectat) questa inquietante scenografia del potere: immagine di potere e di dominio[68].
Ancora Seneca, nell’epistola 51, dove, secondo le sue stesse parole, «fa il processo» ai luoghi poco adatti alla meditazione a causa della loro eccessiva bellezza (amoenitas nimia) e frequentati da gente dissoluta (si riferisce a Baia), in tono polemico dichiara di disapprovare importanti personaggi politici, quali Mario, Pompeo e Cesare, che hanno fatto edificare le loro ville a Baia sulle cime dei monti, summis iugis[69]:
«sembrava loro più da militari dominare dall’alto, in lungo e in largo, la zona sottostante. Guarda che posizione hanno scelto, in quali luoghi hanno innalzato le loro case: ti renderai conto che non sono ville, ma accampamenti».
Poiché la rappresentazione dei luoghi si svolge non per quello che sono, ma per quello che valgono e significano, inevitabilmente le rappresentazioni spaziali si traducono in una retorica che avvalora o contrasta la visuale ideologica.
Il tradizionale confronto fra campagna e città s’illustra con una varietà di descrizioni dell’ambiente e del paesaggio naturale che risultano, non di rado, poco o scarsamente realistiche: ogni veduta prospetta, innanzi tutto, un’interpretazione dello spazio quale contenitore di fatti umani[70]. Lo schema della rappresentazione mentale è semplice: gli elementi positivi di un polo sono il negativo dell’altro.
Nella poesia elegiaca, la retorica della campagna e della città opera in senso attualizzante, al punto da far emergere negli schemi formali della cultura arcaica contenuti insoliti. In Tibullo e Properzio, il tema della “passeggiata archeologica” riscopre la semplice Roma delle origini, in ossequio all’indirizzo arcaizzante del regime augusteo, e fa sognare al poeta l’amore sereno e disinteressato di una puella non attratta dal lusso e dai doni costosi[71]; in Ovidio, il rifiuto della rusticitas, contraria allo stile del mondo urbano visto come luogo privilegiato per coltivare gli amori e, secondo una disinvolta prospettiva, un ritocco al modello retorico delle laudes Italiae[72] ripropongono il motivo dell’autosufficienza di Roma, non per i doni di cui è stata dotata dalla natura, ma per l’abbondanza di belle fanciulle che vi s’incontrano[73].
L’opposizione stilizzata fra mondo rustico e mondo urbano, a livello metaletterario, definisce l’antitesi fra due generi poetici, fra il dominio della poesia bucolica e quello della poesia elegiaca.
8. Ho evitato di parlare, fino a questo punto, di locus amoenus e di locus horridus, due etichette attribuite dai grammatici antichi e dai critici al paesaggio letterario della letteratura latina, in base ad una distinzione esteriore ed artificiale, che distingue uno scenario statico e idilliaco, in cui gli elementi paesaggistici, tratteggiati in modo convenzionale, esprimono i valori della pace e della cultura, e uno scenario connotato all’opposto, cupo e orrido, dinamico nella sua funzione simbolico-evocativa del disordine, della barbarie e del male[74].
Si tratta di un paesaggio che ha debole attinenza con la realtà, poiché è una riproduzione retorica e codificata, che trae forza dal processo di ricezione di determinati modelli poetici, non solo di genere bucolico. A partire dalla grotta della Calipso omerica, attraverso i quadri naturali della lirica greca, fino agli Idilli di Teocrito e alla poesia alessandrina, con relative imitazioni, la stilizzazione del paesaggio si trasforma in una procedura poetologica, che suggerisce al pubblico colto un commento metaletterario.
L’impiego retorico della descrizione dei luoghi a scopo persuasivo è lucidamente teorizzato dagli antichi[75]: basta un toponimo, un riferimento geografico, uno sfondo convenzionale, per costruire un’eco di richiami e di allusioni ai significati dello spazio culturale. Tuttavia, nessuna rappresentazione mentale e nessuna descrizione esprime valori e significati dello spazio per le sue caratteristiche reali, per quello che esso è: lo spazio, invece, è significativo per quello che rappresenta, per le narrazioni che evoca, per la storia di cui porta le impronte, per la tradizione che lo accende.
Creazione della lettura intellettuale, la distinzione fra locus amoenus e locus horridus mostra la sua inconsistenza, quando l’intellettuale romano, ancora Seneca ad esempio, dichiara tranquillamente che non ha importanza l’aspetto del luogo, sia esso ridente, arido e desolato[76]. Oppure, anni prima, in un clima di fervore per le grandi realizzazioni urbanistiche promosse dalla politica edilizia augustea, Orazio, che sul simbolo del “luogo” costruisce nelle «Epistole» la sua autobiografia spirituale, dirà che un villaggio semiabbandonato come Lebedo o come il piccolo Úlubra nelle paludi Pontine vale, in certe condizioni psicologiche, come le più grandi e belle città della Grecia[77].
Il poeta, quando si trova nel suo fundus in Sabina, ci offre uno scorcio archeologico, il retro del tempio cadente dell’antica dea Vacuna; da questo posto appartato, scrive la sua lettera all’amico Fusco: a Fusco che ama la città scrive il poeta, che ama la campagna [78].
Se un luogo di rovine non può certo definirsi città, come precisa Pausania con tono irridente a proposito di antichi centri diroccati e lasciati all’incuria[79], resta il fatto che, a partire dall’età ellenistica, il fascino dei luoghi un tempo frequentati e caduti in rovina è regolarmente documentato con diversi risvolti: riflessione sulla precarietà dei grandi imperi, sul ciclo vitale della città, sull’alterna vicenda della sorte, sull’incuria colpevole dell’uomo, meditatio mortis.
Il colto giureconsulto Servio Sulpicio, scrivendo una lettera di condoglianze a Cicerone per la morte della figlioletta Tullia, rievoca una sua esperienza personale, per esprimere la sua vicinanza all’amico[80]:
«Di ritorno dall’Asia, navigavo da Egina in direzione di Megara e mi misi a osservare il panorama che mi circondava. Dietro a me era Egina, davanti Megara, a destra il Pireo, a sinistra Corinto, tutte città un tempo fiorenti di vita che ora giacciono sotto i nostri occhi abbattute e diroccate. Presi allora a meditare fra me e me in questi termini: “Ahi! Noi esseri infimi ci indigniamo se qualcuno di noi, alla cui vita ha dato natura di essere più breve, è morto o è stato ucciso … vuoi tu, Servio, dominarti e rammentare che sei nato uomo?».
In ogni epoca, è avvenuto che le culture urbane abbiano elaborato circa le proprie origini e l’originario ambiente naturale una visione del tutto immaginaria, quasi a garantire l’impiego del suolo e l’organizzazione del territorio attraverso la rappresentazione di un paesaggio perduto. A questo paesaggio leggendario alludono gli scrittori antichi, inclini ad interpretare l’età dei primordi in termini di primitivismo: «Ospite, quello che vedi intorno alla magnifica Roma, prima del frigio Enea, erano colli e prati»[81] indica Properzio con la nostalgia convenzionale della celebrazione. Con forti con tratti di verosimiglianza quanto ai processi di aggregazione degli antichi centri, ma ancora con una descrizione convenzionale, nel libro VIII dell’«Eneide» viene ricostruito, secondo i principi del programma di restaurazione morale e religiosa promossa da Augusto, il microambiente del Latium vetus, in cui sorse la città protostorica di Evandro, sul Palatino[82]:
Questi boschi, narrava (Evandro), abitavano i Fauni indigeni e le Ninfe
e un popolo forte, nato dai tronchi di rovere duro,
non avevano né civiltà né tradizioni, né sapevano aggiogare i
tori, raccogliere provviste o serbare il raccolto,
ma i boschi e la rozza caccia fornivano il cibo.
…
questo bosco, il re disse, e la vetta del colle coperto di selve
è abitato da un dio – è incerto chi sia …
inoltre, questi due borghi dalle mura crollate,
tu vedi, reliquie e ricordi degli uomini antichi.
L’età dei primordi di Roma, pienamente inserita nella storia romana, s’illustra attraverso la memoria dei caratteristici rituali della fondazione, poiché la fondazione fissa lo spazio della comunità e il tempo della sua storia, ab urbe condita: Properzio dichiara che canterà i cognomina prisca locorum, essendo la toponomastica il primo monumentum di una fondazione[83].
La grandezza dell’urbs arcaica, quella «città che chiamano Roma», urbem quem dicunt Romam, come si legge in Virgilio[84], è racchiusa nella leggenda della sua fondazione: «Romolo, Liber pater, Castore e Polluce, che furono accolti nei templi in seguito alle loro opere grandiose, quando vivevano sulla terra e tra gli uomini, ricomponevano dure guerre, distribuivano campi, fondavano città», scrive Orazio in un’epistola ad Augusto, in cui si esaltano i valori etici dell’età arcaica attraverso la rappresentazione di una comunità agropastorale primitiva, che si struttura in schemi di cultura[85].
In età augustea, Livio, narrando i primordia civitatis, mentre tenta il riscatto di Romolo dall’accusa di fratricidio, lo presenta funzionalmente nella veste di un accorto ecista: «L’urbe si ampliava, incorporando entro la cerchia delle mura sempre nuovi territori, poiché le mura venivano costruite in vista della popolazione futura, più che in rapporto a quella di allora … vetere consilio condentium urbes, secondo l’antico accorgimento dei fondatori di città»[86].
E’ come se il civis romano osservasse il tracciato del solco dall’interno della città, mentre lo straniero vi assistesse dall’esterno o da lontano. Enea, da un colle che sovrasta la nascente Cartagine, osserva i lavori che fervono in stato di avanzamento[87]: «O fortunati quelli di cui già sorgono le mura»[88] esclama mentre, guardando i pinnacoli dal basso verso l’alto (fastigia suspicit urbis) entra nella città, avvolto in una nube [89].
9. Così avranno fatto anche i soldati delle coorti romane che rientravano in città dai turni di guardia. Livio racconta che, dopo la vittoria di Roma su Veio, alla plebe sembrava preferibile trasferirsi nella città appena conquistata, in vista di grandi vantaggi e in netto contrasto con i patrizi. Camillo aveva tentato di convincere i suoi concittadini a restare sulla propria terra, sostenendo con enfasi drammatica che nessun luogo era migliore di quello scelto dagli dei per fondarvi l’Urbs, al centro dell’Italia, una laus Romae in chiave politica[90]:
«Non senza una ragione gli dèi e gli uomini scelsero questo luogo urbi condendae: colli più che salubri, un fiume adatto per trasportare il frumento dalle regioni dell’entroterra e per ricevere i prodotti da quelle costiere, un mare vicino quanto basta per goderne i vantaggi e nel contempo non esposto, per eccesso di contiguità, al pericolo di flotte nemiche, una posizione nel centro dell’Italia, insomma un luogo destinato esclusivamente allo sviluppo della città».
In quella difficile situazione di incertezza (res dubia), terminato il discorso di Camillo, mentre il senato era riunito nella Curia Ostilia discutendo se si dovesse abbandonare Roma o restare in patria, dove sorgeva il fuoco stabile e centrale di Vesta, alcune coorti, di ritorno dai posti di guardia, attraversavano a passo di marcia il foro. Ad un tratto, il centurione diede l’ordine: Signifer, statue signum, hic manebimus optime, «o alfiere, pianta l’insegna, qui staremo benissimo», frase che fu udita dai senatori e dalla plebe e accolta come un presagio, affinché la popolazione restasse in città[91].
Livio, però, aggiunge che si cominciò subito a riedificare sul suolo urbano, ma con disordine e a caso nei terreni liberi, senza rispetto per la proprietà e per le regole di una urbanistica razionale: «la pianta di Roma somiglia a quella di una città occupata più che divisa»[92].
L’alfiere aveva giudicato il foro, centro ideale dell’urbs, luogo sicuro ed accogliente, adatto al riposo, luogo in cui fermarsi stabilmente: non a caso, domi militiaeque significa in pace e in guerra e trova il parallelo in domi forisque, in casa e fuori, in patria e all’estero, secondo un sistema di rappresentazioni spaziali che si trasferisce nella lingua[93].
Cicerone, rispondendo a Servio Sulpicio, che gli aveva scritto la sopra ricordata lettera di condoglianze per la morte della figlia Tullia, esprime così il senso profondo di estraneità che lo avvolge in questo particolare momento di dolore: et domo absum et foro, « mi sento estraneo tanto alla mia casa quanto al foro»[94]:
«Non come allora, quando le accoglienti pareti della mia casa erano rimedio sicuro alle delusioni politiche, posso ora lasciare tra esse il mio dolore e cercare rifugio e distensione nella vista della felicità pubblica. Così mi sento estraneo tanto alla mia casa quanto al foro, giacché né la mia casa è in grado ormai di acquietare il dolore che mi provocano le condizioni della patria, né queste possono consolare il dolore privato».
Contributo pubblicato in “Silvae” di Latina Didaxis, X, 28, 2009, pp. 5-35.
[1] Riprendo in forma variata alcune linee della comunicazione tenuta durante il Seminario «Lo spazio ospitale» nel corso della manifestazione Spazio cinema, organizzata dal Laboratorio Probabile Bellamy presso l’Università degli Studi di Genova nell’ottobre 2009.
[2] G. Dematteis, Metafore della Terra. La geografia umana tra mito e scienza, Milano 1986 (II ed.- I ed. 1985), p. 97; G. Aujac, Les représentations de l’espace géographique ou cosmologique dans l’Antiquité, in «Pallas» 28, 1981, pp. 3-14: «Aucune activité humaine n’est parfaitement innocente, et surtout pas celle qui consiste à choisir dans le monde les éléments signifiants pour en donner un schéma lisible».
[3] Erodoto, quando parla della forma dei continenti, dice: «mostrerò in poche parole la grandezza, la forma di ciascuna di queste parti del mondo» (IV 36, 2); inoltre, a proposito di Aristagora che mostra una carta al re di Sparta: «parlava indicando i luoghi sulla mappa della terra che aveva con sé, incisa sulla tavola» (V 49, 5): J.L. Myres, Herodotus, Father of History, Oxford 1953, pp. 32-46 (= trad. it. Erodoto geografo, in Geografia e geografi nel mondo antico, a cura di F. Prontera, Bari 1983, pp. 115-134). Resta fondamentale per comprendere i modelli mentali operanti nella geografia descrittiva greca di età classica Ch. Van Paassen, The Classical Tradition of Geography, Groningen 1957.
[4] Ch. Jacob, Carte greche, in Geografia e geografi nel mondo antico, cit., pp. 47-67 (già in Hic sunt leones. Geografia fantastica e viaggi straordinari, a cura di O. Calabrese – R. Giovannoli – I. Pezzini, Milano 1983, pp. 24-29).
[5] Strabone, I 1, 1.
[6] Varie implicazioni nel tema della visione dall’alto: Ch. Jacob, Dionisio di Alessandria, il noos delle Muse e lo sguardo aereo sull’ecumene, in Mondo Classico: Percorsi possibili, a cura del C.I.D.I.-Roma e del C.R.S., Ravenna 1985, pp. 83-107.
[7] P. Janni, La mappa e il periplo. Cartografia antica e spazio odologico, Roma 1984, pp. 59-63.
[8] Ch. Jacob, Carte greche, cit., p. 61.
[9] W. Förster, s.v. ktízo, in GLNT, V, Brescia 1969, cl. 1304 , cll. 1235-1330 (ThWNT, III, Stuttgart 1933 e 1935).
[10] Od. VI 7-10: G. Marginesu, L’agora di Rhaukos (IC IV 182, 1-20), in «Dike» 6, 2006, p. 151. Cfr. F. Cordano, L’ideale città dei Feaci, in «Dialoghi di Archeologia» 9-10, 1976-1977, pp. 195-200.
[11] Od.VII 44-45.
[12] G. Pugliese Carratelli, Dalle odysseiai alle apoikiai, in «La parola del passato» 140, 1971,pp. 393-417; D. Musti, Lo scudo di Achille. Idee e forme di città nel mondo antico, Roma-Bari 2008, p. 54.
[13] G. Traina, Antico e moderno nella storia delle bonifiche italiane, in «Studi storici» 26, 1985, pp. 136-141 e passim del medesimo autore Ambiente e paesaggi di Roma antica, Roma 1990.
[14] G. Traina, La tecnica in Grecia e a Roma, Roma-Bari 1994, pp. 127-132.
[15] M. Bettini, Antropologia e cultura romana. Parentela, tempo, immagini dell’anima, Roma 1986, p. 127 la citazione e pp. 128-7-130.
[16] C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, trad. it., Milano 1966, pp. 364-365 (ed. origin. Anthropologie structurale, Paris 1958); p. 365: «Anche quando la società si mostra indifferente allo spazio, o a un certo tipo di spazio (come lo spazio urbano quando non è pianificato), le cose sono come se le strutture inconsce si giovassero, per così dire, di queste indifferenze per invadere il campo vacante ed affermarvisi in forma simbolica o reale».
[17] M. Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, trad. it. di A. Vatta, Bologna 1976, p. 159 (ed. origin. Purity and Danger. An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo, Harmondsworth 1966).
[18] S. Fasce – A. Palma, s.v. lustro, in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, rispettivamente pp. 287-288 e 288-289. Sui riti di lustrazione: J. Gagé, Les rites anciens de lustration du populus et les attributs triomphaux des censeurs, in «MEFR» 82, 1970, pp. 43-45.
[19] D. Musti, Pubblico e privato nella democrazia periclea, in «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» N.S. 20, 49, 1985, pp. 7-17.
[20] Walter Belardi così apre la sua Presentazione del fine studio di Palmira Cipriano, Fas e Nefas, Roma 1978, p. 9.
[21] Per l’evoluzione dei concetti di fas, nefas, ius nella latinità arcaica e classica cfr. Palmira Cipriano, Fas e Nefas, cit., soprattutto pp. 33-56. Interessanti osservazioni in F. Borca, Isole e porti, tra natura e artificio, in «Bollettino di Studi Latini» 29, 1999, pp. 550-563.
[22] Cfr. in particolare Y. Garlan, Guerra e società nel mondo antico, trad. it. Bologna 1985 (ed. origin. La guerre dans l’antiquité, Paris 1972); D. Musti, La qualità della vita nella città greca classica, in Temi e discussioni di geografia antica, a cura di S. Fasce, Genova 1994, p. 198 (già in Ambiente urbano e qualità della vita, «Secondo Seminario Internazionale di Geografia Medica, Cassino, 4-7 dicembre 1985», a cura di G. Arena, Perugia 1986, pp. 109-119).
[23] Thuc. II 17,1-3; G. Nenci, Spazio civico, spazio religioso e spazio catastale nella polis, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa» 9, 1979, pp. 459-477.
[24] G. Nenci, Spazio civico, cit., pp. 467-470.
[25] Hom. Od. VII 32-33.
[26] Le zone boscose o Hylaia, le zone di frontiera sono gli ambienti che il Greco assegna agli “altri”: F. Hartog, Essai sur la représentation de l’autre, Paris 19912 (I ed.1980), pp. 81-127.
[27] Mi riferisco a P. Lévêque – P. Vidal-Naquet, Clisthène l’Athénien. Essai sur la représentation de l’espace e du temps dans la pensée politique grecque de la fin du VIe siècle à la mort de Platon, Paris 1964; M. Detienne, En Grèce archaïque: géométrie, politique et société, in «Annales E.S.C.» 1965, pp. 425-441; J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci. Studi di psicologia storica, trad. it., Torino 1978 (ed. origin. Mythe et pensée chez les Grecs. Études de psychologie historique, Paris 1971).
[28] J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, cit., pp. 145-200.
[29] Commento al passo dell’Economico (7, 30) di Senofonte in J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, cit., pp 155-156.
[30] Riprendo la tesi del bel libro di di E. Pellizer, Favole d’identità – Favole di paura. Storie di caccia e altri racconti della Grecia antica, Roma 1982 con prefazione di C. Calame.
[31] O. Longo, Ecologia antica. Il rapporto uomo / ambiente in Grecia, in Temi e discussioni di geografia antica, a cura di S. Fasce, Genova 1994, pp. 165-187 (già in «Aufidus», 6, 1988, pp. 3-30).
[32] Emblematico studio: P. Vidal-Naquet, Le chasseur noir et l’origine de l’éphébie athénienne, in «Annales E.S.C.» 23, 1968, pp. 947-964.
[33] Ps. Plut. De fluviis, 3, 1: Ebro amato dalla matrigna; 14, 1: Tanais, pur misogino, si innamora per opera di Ares della propria madre; 4,1: Gange diventa inconsapevolmente amante della madre. Cfr. E. Pellizer, Favole d’identità, cit., pp. 54-58.
[34] Ov. Met. IV 55-166.
[35] Ov. Met. IV 86-90.
[36] F. Hartog, Essai sur la représentation de l’autre, cit., cap. Une rhétorique de l’alterité, p. 376: «tout au long des Histoires, il s’agit toujours d’eux, les autres, et de nous, les Grecs ».
[37] Ov. Met. IV 60 : taedae quoque iure coissent.
[38] I. Chirassi, La religione in Grecia, Bari 1983, p. 21.
[39] P. Fedeli, Uomo e ambiente nel mondo romano, in Temi e discussioni di geografia antica, cit., p. 214 e passim (già in «Aufidus», 8, 1989, pp. 7-50). Sul tema della passione vegetale è ormai classico E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino 1975.
[40] I. Chirassi, Elementi di culture precereali nei miti e riti greci, Roma 1968, cap. Il prato in primavera, pp. 91-124.
[41] Hymn. Dem. 425-431.
[42] Eur. Hel. 243 -244; così Creusa rapita da Apollo nello Ione di Euripide (888-890).
[43] Un verso di Claudiano conserva vivido il modello religioso e antropologico che la raccolta dei fiori riveste nel mito: talia virgineo passim dum more geruntur (De raptu Proserpinae, II 151). Il riferimento al carattere virginale dell’atto riproduce un sintagma ovidiano (Ov. Met. V 393; Fasti, IV 443): cfr. M. Onorato, Commento, in Claudio Claudiano, De raptu Proserpinae, a cura di M. Onorato, Napoli 2008, p. 265.
[44] Verg. Ecl. 1, 1-5 e 82-83. Cfr. F. Serpa, s.v. paesaggio, in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, p. 921-926.
[45] Verg. Ecl. 5, 27-28: Daphni, tuum Poenos etiam ingemuisse leones / interitum montesque feri silvaeque locuntur. Sulla tecnica della descrizione paesaggistica di Virgilio cfr. F. Witek, Vergils Landschaften. Versuch einer Typologie literarischer Landschaft, Hidelsheim 2006 (e la recensione di G. Scafoglio in «Classical Review» 29, 2008).
[46] Verg. Ecl. 2, 28-30: A. Perutelli, Natura selvatica e genere bucolico, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa» 6, 1976, p. 779 (passim, pp. 763-798).
[47] Sull’argomento I. Lana, Orazio: dalla poesia al silenzio, Venosa (Pz) 1993, p. 55.
[48] Hor. Carm. I 37, 17-20.
[49] Famoso il ritratto del cacciatore di Hor. Carm. I 1, 25-28: manet sub Iove frigido / venator tenerae coniugis immemor, / seu visa est catulis cerva fidelibus / seu rupit teretes Marsus aper plagas. Nei vv. 27 – 28 il parallelismo e il chiasmo riferiti alle reti e alle prede mostra la forza del modello antropologico soggiacente: cfr. F. Capponi, s.v. caccia, in Enciclopedia Oraziana, II, Roma 1997, pp. 132-134; A. Ghiselli, Orazio, Ode 1,1. Saggio di analisi formale, Bologna 20013 (I ed. 1974), p. 101.
[50] Cic. De natura deorum, II 161: ut exerceamur in venando ad similitudinem bellicae disciplinae. Per passi significativi e discussione cfr. J. Aymard, Essai sur les chasses romaines des origines à la fin du siècle des Antonins, Paris 1951, pp. 31-40; A. Ghiselli, Orazio, Ode 1,1, cit., p. 60. Emblematico Prop. III 5, 1: Pacis Amor deus est, pacem veneramur amantes.
[51] Plin. Pan. 81, 1.
[52] Plin. Pan. 81, 4.
[53] Verg. Ecl. 10, 22-30. Cfr. G. Maggiulli, Incipiant silvae cum primum surgere, Roma 1995; M. Geymonat, Immagini letterarie e reali del paesaggio di montagna in Virgilio, in «Philoogus» 144, 2000, pp. 81-89. Sulla rappresentazione dei luoghi montuosi nella letteratura latina: F. Borca, Horridi montes. Paesaggi e uomini di montagna visti dai Romani, Aosta 2002.
[54] Verg. Ecl. 10, 52-59. Memoria dell’Ippolito euripideo: E.W. Leach, Vergil’s Eclogues. Landscape of Experience, Ithaca-London 1974, p. 167; G.B. Conte, Virgilio. Il genere e i suoi confini. Modelli del senso, modelli della forma in una poesia colta e “sentimentale”, Milano2 1984 (I ed. Torino 1980), p. 33: «non è più scrittura di motivi elegiaci, ma è la riscrittura di quei motivi nello esorcismo del registro bucolico».
[55] Prop. II 19, 17. G.B. Conte, Virgilio. Il genere e i suoi confini, cit., pp. 28-30.
[56] Verg. Ecl. 10, 77.
[57] Verg. Ecl. 1, 82-83.
[58] Cfr. Hom. Od. X 99; X 196-197.
[59] Prop. II 19, 2.
[60] Cfr. G. Petrone, Locus amoenus / locus horridus: due modi di pensare il bosco, in «Aufidus» 5, 1988, pp. 5-18; E. Malaspina, Prospettive di studio per l’immaginario del bosco nella letteratura latina, in «Incontri triestini di filologia classica», 3, 2003-2004,pp. 97-118.
[61] Aug. De civ. dei, VI 9, 2 (= Varro, Antiquitates rerum divinarum, fr. 111, p. 71 Cardauns). Sul passo cfr. il fine commento di M. Lentano, Signa culturae. Saggi di antropologia e letteratura latina, Bologna 2009, pp. 7-9.
[62] Aug. De civ. dei, VI 9, 2: Ita contra dei nocentis saevitiam non valeret custodia bonorum, nisi plures essent adversus unum eique aspero horrendo inculto, utpote silvestri, signis culturae tamquam contrariis repugnarent; mala infantiae (Piso, fr. 44 HRR Peter2).
[63] F. Borca, Il modello del «bel paesaggio» nella cultura latina, in Enciclopedia dell’antichità classica, Milano 2000, pp. 1022 – 1023. D’altra parte, un boschetto può essere il luogo di marginalità e di allarme non per le sue dimensioni, ma per la sua connotazione: un esempio tipico è costituito dal lucus Stimulae, un piccolo bosco a fianco del Tevere, in una zona extra pomerium, “esterna” alla città, dove venivano praticati culti stranieri e d’importazione oppure eccentrici, come le danze orgiastiche praticate da sole donne sposate (Liv. XXXIX 13, 12; cfr. C. Gallini, Protesta e integrazione nella Roma antica, Bari 1970, pp. 16-17).
[64] Hor. Epist. I 10, 22-23.
[65] S. Fasce, Principî e criteri dell’urbanistica romana. La sistemazione della città nell’Epistolario di Plinio il Giovane, in Seminari Sassaresi II, a cura di E. Cadoni – S. Fasce, Sassari 1990, pp. 109-124.
[66] Plin. Epist. II 17. Per respicere cfr. M. Bettini, Antropologia e cultura romana, cit., p. 135.
[67] Sen. Thy. 641-656. Cfr. G. Maggiulli, Per alta nemora. La poesia del mondo vegetale in Seneca tragico, Roma 2007, pp. 67-69.
[68] G. Rosati, La scena del potere. Retorica del paesaggio nel teatro di Seneca, in Hispania terris omnibus felicior. Premesse ed esiti di un processo di integrazione, «Atti del congresso internazionale, Cividale del Friuli, 27-29 settembre 2001», Pisa 2002, pp. 225-239. Cfr. G. Picone, La fabula, il regno. Studi sul Thyestes di Seneca, Palermo 1996.
[69] Sen. Epist. 51, 11; cfr. G. Rosati, La scena del potere, cit., p. 239.
[70] G.A. Mansuelli, s.v. città, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, p. 802.
[71] Tema di Tib. II 5 e Prop. IV 1.
[72] Alcune laudes Italiae: Varro, De re rustica, I 2, 3-8; Verg. Geor. II 136-176; Prop. III 22, 17-38; Strabo, VI 4,2; Plin. Nat. Hist. III 39-42.
[73] M. Labate, Poetica ovidiana dell’elegia: la retorica della città, in «Materiali e Discussioni» 3, 1979, pp. 36-67 e lo studio di Roberta Piastri, L’elegia della città. Roma nella poesia elegiaca di Ovidio, Vercelli 2004.
[74] La sensibilità per la contrapposizione dei due tipi di paesaggio è analizzata da R. Mugellesi, Il senso della natura in Seneca tragico, in Argentea Aetas. In memoriam Entii V. Marmorale, Genova 1973, pp. 29-66. Per l’Arcadia come paesaggio spirituale classico B. Snell, L’Arcadia: scoperta di un paesaggio spurituale, in La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it. Torino 1963, pp. 387-402 (ed. origin. Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen, Hamburg 1946).
[75] Cfr. Quint. IV 13, 12.
[76] Sen. De tr. an. II 13: Inde peregrinationes suscipiuntur vagae et litora pererrantur et modo mari se, modo terra experitur semper praesentibus infesta levitas: «Nunc Campaniam petamus». Iam delicata fastidio sunt: «Inculta videantur, Bruttios et Lucaniae saltus persequamur». Aliquid tamen inter deserta amoeni requiritur, in quo luxuriosi oculi longo locorun horrentium squalore releventur: «Tarentum petatur laudatusque portus et hiberna caeli mitioris et regio vel antiquae satis opulenta turbae…. Iam flectamus cursum ad Urbem: nimis diu a plausu et fragore aures vacaverunt, iuvat iam et humano sanguine frui».
[77] Hor. Epist. I 11 e in particolare vv. 29-30: … Quid petis, hic est, / est Ulubris, animus si te non deficit aequus.
[78] Hor. Epist. I 10, 1-2: Urbis amatorem Fuscum salvere iubemus / ruris amatores; 49-50: Hac tibi dictabam post fanum putre Vacunae, / excepto quod non simul esses cetera laetus.
[79] Paus. X 4, 1, ad es., ironicamente afferma che non si può certo definire città Panopeus, piccolo centro della Focide, «gruppo di capanne di montagna sul ciglio di un burrone», privo di edifici pubblici e di comodità.
[80] Cic. Ad fam. IV 5, traduzione italiana di Riccardo Scarcia.
[81] Prop. IV 1, 1-2: Hoc, quodcumque vides, hospes, qua maxima Roma est, / ante Phrygem Aeneam collis et herba fuit.
[82] Verg. Aen. VIII 314-356. L’«Eneide» offre l’immagine di un passato di fondazioni anteriori ad Alba e poi a Roma, fondazioni avviate e non sempre condotte a buon fine, come quelle progettate da Enea in Tracia e a Creta: la definizione sul terreno, la costruzione della cinta muraria, la suddivisione del suolo, l’imposizione della legge, sono passaggi obbligati e interdipendenti dallo spazio fisico a quello sociale.
[83] Prop. IV 1, 69: sacra diesque canam et cognomina prisca locorum.
[84] Verg. Ecl. 1, 19.
[85] Hor. Epist. II 1, 5-8.
[86] Liv. I 8, 4-5.
[87] Verg. Aen. I 419-422: Iamque ascendebant collem, qui plurimus urbi / imminet adversasque adspectat desuper arces. / Miratur molem Aeneas, magalia quondam, / miratur portas strepitumque et strata viarum.
[88] Verg. Aen. I 436: O fortunati, quorum iam moenia surgunt!
[89] Verg. Aen. I 438.
[90] Liv. V 54, 4.
[91] Liv. V 55, 1-2.
[92] Liv. V 55, 3. Cfr. D. Musti, Lo scudo di Achille, cit., p. 15, dove il racconto di Livio illustra bene il valore che il centro e la circolarità rivestono nelle morfologie urbane del mondo classico.
[93] Come è noto, la frase pronunciata dall’alfiere fu assunta da Gabriele D’Annunzio come motto durante l’occupazione di Fiume, la cui autonomia era rivendicata dai reduci italiani dopo la prima guerra mondiale.
[94] Cic. Ad fam. IV 6 (traduzione italiana di R. Scarcia).
Commenti
E’ dilettevole leggere questo saggio! Lo spazio e le sue coordinate reali e immaginarie, concepito dal mondo classico greco e romano, con riferimento ad opere che è fortemente suggestivo evocare. Il saggio, oltre che uno studio attento, è esso stesso una composizione artistica armoniosa.
Lo spazio misterioso attraverso cui si muovono cuore e mente, ragione ed emozione. In sostanza lo spazio immaginario che nasce dall’impatto tra l’ambiente naturale e quello urbano. Ho capito perché nei miei modesti dipinti paesaggistici, preferisco i paesaggi visti dall’alto, ma senza alcuna impronta umana. Nei viaggi solitari, in macchina, tra strade tracciate nel solitario paesaggio sardo, mi è di conforto invece la vista improvvisa di qualche casolare che mi toglie dal panico del paesaggio. Spazi quasi panici e spazi segnati dall’impronta umana. Complimenti e grazie per questo saggio meraviglioso e suggestivo.
Aprile 25th, 2011