La questione sarda di Lei Spano – di Francesco Obinu
Negli ultimi due secoli, uomini politici e studiosi si sono affaccendati intorno alla “questione sarda”, cioè l’insieme dei problemi economici e sociali legati al sottosviluppo della nostra regione.
Oltre agli articoli di Giovanni Battista Tuveri su “Movimento Sardo” (1876), sono da ricordare almeno il saggio di Giuseppe Todde La Sardegna, uscito su “L’Economista” nel 1895, la Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna (1896), di Francesco Pais Serra e la riflessione autonomistica svolta dai sardisti su “Il Solco” e in Parlamento nel primo dopoguerra e proseguita da Emilio Lussu, dopo l’avvento del fascismo, sui “Quaderni di Giustizia e Libertà”.
Un libro del tutto particolare, in questo panorama, è La questione sarda, di Giovanni Maria Lei Spano, edito dai Fratelli Bocca a Torino nel 1922 (riedizione a cura di M. Brigaglia: G. M. Lei Spano, La questione sarda, Ilisso, Nuoro 2000).
Lei Spano era esponente di una famiglia di proprietari terrieri di Ploaghe e lui stesso, seppure impegnato nella professione di magistrato, onorò il suo “dovere” di imprenditore agricolo, sperimentando nella sua tenuta tecniche di coltivazione e di allevamento innovative.
Nel 1916 maturò l’idea di scrivere il libro, con l’intento dichiarato di dimostrare in modo inoppugnabile le esigenze della regione, affinché lo Stato, avendo una conoscenza precisa di esse, si persuadesse ad intervenire anche nel suo stesso interesse, perché una regione tanto arretrata rappresentava una “vergogna” e un danno per l’intera nazione.
L’autore sosteneva anche che i Sardi avevano pensato più a lamentarsi della “ingratitudine” della patria verso il loro sacrificio nelle guerre nazionali, che a lavorare per il loro “miglioramento economico e morale”. Il malcontento era comprensibile, ma i Sardi dovevano deporre il rancore e il fatalismo e farsi artefici della loro “rinascita”.
Queste considerazioni proemiali sembrano pensate per dare sfogo all’ostilità di Lei Spano per il combattentismo e il sardismo, anche perché i problemi della Sardegna erano ben noti a Roma, soprattutto per le inchieste promosse dal Parlamento: chi leggesse la Relazione di Pais Serra, si troverebbe di fronte ad un lavoro scrupoloso e corredato con dati e documenti ufficiali, a cui non a caso erano seguiti i primi “provvedimenti speciali” in favore dell’isola (1897).
I sei capitoli del libro di Lei Spano descrivono soprattutto le condizioni dell’agricoltura e, in modo meno approfondito, dell’industria estrattiva. È vero che a quei tempi terra e miniere erano le sole voci macroeconomiche dell’isola, ma colpisce che l’autore non pensasse anche ad interventi per l’incremento di altre attività produttive (Pais Serra lo aveva fatto), per sollevarle dalla dimensione famigliare e artigianale e farne forze trainanti dell’economia sarda. Ad esempio, sulla pesca non si fa nemmeno un cenno e l’industria casearia è vista come una concausa della crisi dell’agricoltura, piuttosto che come un’opportunità di sviluppo.
Lei Spano voleva identificare, in buona sostanza, il sottosviluppo sardo e dunque la stessa “questione sarda”, con la crisi dell’agricoltura isolana.
Il giudice-agricoltore indicava la causa della crisi dell’agricoltura nella sua arretratezza: per superarla si doveva ricorrere alla “azienda agricola integrale”, con campi a coltura varia e prati artificiali per il pascolo del bestiame, abitata stabilmente dalla famiglia possidente e da quella del mezzadro.
Lo Stato doveva promuovere l’azienda agricola, invece di attuare la “vana e inconcludente divisione del latifondo”: ancora un attacco ai sardisti (e ai socialisti), che predicavano la distribuzione della terra alla massa dei piccoli contadini e braccianti.
Alla “buona borghesia” della terra si doveva dare più forza-lavoro, frenando l’emigrazione (nel primo capitolo si può leggere una puntigliosa polemica contro la tesi “migrazionista” della scuola economica che faceva capo a Francesco Saverio Nitti); più sicurezza, combattendo specialmente l’abigeato; strade moderne per il veloce ed economico trasporto delle merci; opere idrauliche per scongiurare le magre da siccità; opere di rimboschimento per l’umidificazione del clima e l’assetto idrogeologico; opere di bonifica per accrescere gli ettari coltivabili e debellare la malaria.
Per Lei Spano la libera capacità imprenditoriale della borghesia era la base del progresso. Per questo considerava il “comunismo della terra”, praticato in Russia dopo la Rivoluzione, come un “arretramento” verso i pessimi risultati economici e sociali dell’agricoltura dei popoli barbarici e del sistema feudale (l’argomentazione è scientificamente inconsistente, perché pretende di paragonare il sistema agrario delle tribù barbariche e del feudo – caratterizzato vuoi dallo sfruttamento irrazionale della terra, vuoi dalla vessazione tributaria e dal servaggio extra-agricolo a favore del feudatario – con l’organizzazione lavorativa e produttiva del sovchoz e del kolchoz).
Lei Spano si mostra ostile anche alla cultura e all’istruzione, tranne quella tecnica delle “scuole di arti e mestieri”. Auspicava senza mezzi termini che il mondo avesse “meno avvocati e meno professori” e “più agricoltori, più industriali, più commercianti” e che in Italia vi fosse “meno grammatica latina e più conoscenza della vita e delle pratiche del lavoro”. Considerava la scuola elementare la “fabbrica del passaporto” per gli emigranti (alcuni Stati non consentivano l’accesso agli analfabeti) e la “fabbrica del lieve titolo di studio” richiesto per l’arruolamento militare. L’istruzione allontanava i lavoratori dalle campagne.
Lei Spano, in sostanza, parlava di progresso “economico e morale” senza riconoscere che se il benessere economico può dipendere principalmente dallo sviluppo delle attività produttive, quello morale ha necessariamente bisogno di una società istruita e dunque consapevole, non lasciata nell’ignoranza, facile preda della prevaricazione e dello sfruttamento.
L’impressione che si ha, al termine della lettura del libro, è che l’autore non avesse realmente l’intenzione di proporre soluzioni per la “questione sarda”, ma che la agitasse strumentalmente per perorare davanti allo Stato la causa della borghesia terriera, timorosa di essere ridimensionata in termini di influenza economica e politica in conseguenza della crisi agricola e spaventata dall’avanzata del socialismo e del sardismo.
Spaventata, in sostanza, da un mondo in veloce ed irreversibile cambiamento democratico.
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Francesco Obinu