La situazione sociolinguistica della lingua sarda settentrionale (2008) di Mauro Maxia
0. Premessa
Nel ringraziare l’Assessorato per avermi invitato a intervenire su un argomento così interessante come quello rappresentato dalla situazione sociolinguistica oggi in Sardegna, premetto subito che dirò delle cose che a taluni potranno sembrare nuove o sorprendenti ma che non lo sono affatto, se non nella misura in cui un aspetto importante della realtà linguistica della Sardegna era finora poco noto o sottovalutato.
In effetti, dovendo parlare della situazione sociolinguistica della Sardegna settentrionale, di cui mi interesso da molti anni, devo parlare non solo di sardofonia ma anche di corsofonia e di italofonia.
Le parlate della Gallura, dell’Anglona e della zona di Sassari non rappresentano, infatti, delle varietà della lingua sarda bensì dell’idioma della Corsica anche se – ed è bene precisarlo per quanti disconoscono questo fatto – il gallurese, il sassarese e i dialetti dell’Anglona non sono propriamente varietà corse, bensì sardo-corse o, come dicono in Corsica, corso-sarde. Infatti, la loro sintassi e il loro lessico risentono pesantemente dell’influsso logudorese che, dopo secoli di convivenza, le ha allontanate per più aspetti dal ceppo corso oltremontano, dal quale queste varietà si sono distaccate fin dal medioevo.
Il tempo che mi è stato assegnato per parlare di una serie di questioni che richiederebbero molte ore di spiegazioni, è davvero poco e, pertanto, mi avvarrò di numerose immagini che possono spiegare in un tempo minore ciò che la semplice descrizione verbale non potrebbe a fare.
La mia relazione si articola in due parti e, più propriamente:
a) la situazione della lingua sarda nelle province di Sassari e Olbia-Tempio
b) la situazione delle varietà corsofone nelle medesime province
1. Situazione attuale della lingua sarda
Non sono passati neanche due anni dall’inchiesta sociolinguistica commissionata dalla Regione Sardegna alle due università di Cagliari e Sassari. Tutti conoscono le conclusioni raggiunte da quella inchiesta. Si tratta di conclusioni che presentano risultati tutto sommato lusinghieri ma che necessitano di alcune importanti precisazioni.
Anzitutto l’inchiesta in questione si è interessata delle fasce di età giovanili e adulte ma, di fatto, ha tralasciato la fascia relativa alla generazione più giovane: quella in età scolare che ha meno di 15 anni. Non so se si sia trattato di una scelta voluta o casuale ma questo fatto nasconde una verità davvero scomoda e, cioè, che soltanto una piccolissima parte dell’ultima generazione parla in sardo mentre la stragrande maggioranza parla esclusivamente l’italiano.
Questo dato, apparentemente innocuo, sottende invece a una verità dirompente. Infatti, esso significa che siamo di fronte a una tendenza che, salvo improbabili inversioni (e poi vedremo perché) nel giro di poche decine di anni probabilmente porterà la lingua sarda all’estinzione.
Perché il sardo dovrebbe estinguersi? Perché tra poche decine di anni soltanto la generazione che oggi ha oltre 40 anni parlerà il sardo in misura maggioritaria rispetto all’italiano. La generazione che attualmente è compresa tra i 15 e i 40 anni parlerà in larga maggioranza l’italiano e soltanto in minima parte il sardo. La generazione più giovane, quella che oggi ha meno di 25 anni, parlerà quasi soltanto in italiano e a quel punto il sardo, in quanto avrà cessato di essere trasmesso dai genitori ai figli da una generazione all’altra, sarà virtualmente morto. Certo, quelli che oggi hanno intorno ai 35-40 anni continueranno a parlarlo ancora per altri 30-40 anni ma a quel punto i giochi saranno fatti e praticamente sarà quasi impossibile tornare indietro.
Gli studiosi più documentati e quelli che si occupano di lingua sarda in modo scientifico conoscono bene questa prospettiva. Prospettiva che forse non è conosciuta altrettanto bene da chi determina le politiche linguistiche e che ancora si illude che basti stanziare qualche migliaio di euro in più qua e là per invertire una dinamica che, al contrario, richiede interventi forti, precisi e duraturi.
Soltanto dodici anni fa la legge regionale n. 26 sembrava un toccasana e invece – nonostante l’impegno di alcuni insegnanti volenterosi e lo stanziamento di risorse finanziarie che nella maggior parte dei casi sono state sprecate in progetti e progettini che con la lingua sarda avevano poco a che fare – la situazione è peggiorata di gran lunga. D’altra parte, la stessa legge n. 26 era già in ritardo rispetto alla veloce evoluzione della situazione.
Tra breve mostrerò come in certi nostri paesi fin dal 1993 non vi sono più bambini che parlano in sardo. Eppure si tratta di paesi dell’interno a economia tradizionale dove fino agli anni Settanta si parlava quasi esclusivamente in sardo e quelli che parlavano in italiano erano soltanto poche maestre e qualche impiegato.
1.1 Una inchiesta recentissima
Questa relazione porta delle integrazioni all’inchiesta regionale dell’anno scorso mirate esclusivamente alla fascia di età inferiore ai 15 anni. E vuole rappresentare anche un aggiornamento rispetto a una inchiesta sociolinguistica che avevo effettuato otto anni fa in tre comuni dell’Anglona i cui risultati, pur essendo stati pubblicati da due anni, solo in pochi, conoscono [DIA].
La nuova rilevazione è relativa a 11 comuni della Sardegna settentrionale ovvero a 1 comune ogni 8 comuni situati nelle province di Sassari e Olbia-Tempio. Ho preso in esame sia dei comuni costieri sia dei comuni dell’interno e, sul piano economico, comuni a economia tradizionale insieme a un paio di comuni a prevalente economia turistica. Se si eccettua il caso di Sassari, che è l’unica città presa in esame, gli altri 10 centri hanno una popolazione compresa tra i 4.500 abitanti di Ploaghe e i 1.000 abitanti di Laerru.
Per quanto riguarda l’area sardo-corsa (cioè sassarese-gallurese) l’inchiesta si rivolge a 6 comuni rispetto ai 27 comuni corsofoni.
L’inchiesta sulla situazione nelle aree corsofone è ancora più affinata rispetto alle aree sardofone perché è relativa non a una sola varietà, come è il logudorese, ma a due distinte varietà come il sassarese, da un lato, e il gallurese, dall’altro.
Per il dominio sassaresofono l’indagine si è rivolta a una scuola elementare di Sassari e, precisamente, alle classi quinte del quartiere Rizzeddu, un rione dove convivono famiglie che fino a una cinquantina di anni fa abitavano nel centro storico e famiglie appartenenti al ceto medio.
Il numero dei comuni indagati (1) rappresenta il 25% del totale ma, se si considera la popolazione totale, è riferito a un campione che rappresenta il 75% della popolazione.
Per il dominio galluresefono, i 5 comuni indagati rappresentano il 20% dei comuni e il 10% della popolazione.
Per quanto riguarda il dominio sardofono, i comuni presi in esame sono Laerru e Perfugas in Anglona, Ploaghe (patria del celebre canonino Spanu), Bono in Goceano e Monti al limite tra il Monteacuto e la Gallura.
Il campione degli intervistati è costituito da 330 alunni di età compresa tra 9 e 11 anni. Di questi, 138 bambini sono sardofoni mentre 192 sono corsofoni che, a loro volta, si dividono in 114 galluresofoni e 78 sassaresofoni.
Queste proporzioni non sono casuali. Infatti, tengono conto che le due province di Sassari e Olbia-Tempio hanno una popolazione complessiva di circa 460.000 abitanti, di cui circa 200.000 sono corsofoni mentre gli altri 260.000 sono sardofoni, tra i quali un numero significativo, in realtà, è costituito da italofoni.
Sarebbe stato interessante prendere in esame un numero più elevato di comuni ma questo tipo di indagine richiede molto tempo e più risorse. Nel nostro caso, invece, l’inchiesta è stata realizzata in poco tempo e gratuitamente grazie alla disponibilità offerta da alcuni insegnanti di buona volontà.
Per quanto riguarda la zona sardofona, i bambini corrispondono a quelli delle classi quarte e quinte delle scuola primaria di Laerru, della classe quarta della scuola primaria di Perfugas, delle classi quinte della scuola primaria di Monti e della scuola primaria di Ploaghe e delle classi prime della scuola media di I grado di Bono. In pratica si tratta dei bambini nati in questi comuni negli anni compresi tra il 1996 e il 1999. Si tratta, peraltro, di tutti i bambini nati in quei comuni negli anni presi in considerazione.
A tutti i bambini è stato sottoposto, in forma anonima, un questionario di 20 domande attraverso il quale si è chiesto quale lingua parlino; quale lingua parlino i propri genitori tra loro e quella che i genitori parlano con i figli; la lingua che usano i nonni con loro; la lingua usata tra fratelli e sorelle e quella impiegata con i compagni di scuola, con i compagni di gioco e nei rapporti col vicinato.
Questo primo stock di 9 domande inquadra, dunque, i rapporti di forza tra sardo e italiano e i principali contesti d’uso.
Un altro quesito mira a conoscere il tasso di bilinguismo.
Altri 5 quesiti mirano a conoscere il livello di competenza della lingua locale, cioè quanto i bambini siano capaci di parlare, leggere e scrivere in sardo e la competenza che essi hanno riguardo a pochi ma importanti campi lessicali.
Altri 4 quesiti mettono in luce che cosa pensino i bambini della lingua locale, se sono favorevoli o meno al suo insegnamento a scuola e dove essi vorrebbero che essa fosse parlata maggiormente.
Infine l’ultima domanda chiede loro di esprimere un gradimento sulle canzoni tradizionali, nel senso che tende a indagare in quale misura i bambini condividano i valori della tradizione in un campo significativo come quello, appunto, rappresentato dalle canzoni popolari.
Complessivamente i bambini intervistati hanno fornito oltre 10.000 risposte. Infatti, in relazione a una serie di quesiti hanno dato anche anche due o tre risposte contestuali.
1.2 Risultati: il tasso di sardofonia
Per quanto riguarda la sardofonia, i risultati emersi dallo spoglio dei questionari mostrano in modo chiaro – o, se si preferisce, impietoso – quale sia l’effettivo stato di salute della lingua sarda e, in prospettiva, quale sia il destino che l’attende.
Oggi, per ragioni di tempo, riferirò soltanto sulle questioni più importanti, rimandando agli atti della Conferenza la pubblicazione della relazione integrale.
Iniziamo dalla situazione più lusinghiera, che è quella di Bono, dove i 51 bambini delle prime medie hanno fornito nella maggior parte dei casi una risposta triplice, nel senso che 44 su 51 affermano di parlare sia l’italiano sia il sardo. Tra i ragazzi che parlano soltanto una lingua, cioè il sardo o l’italiano, 5 sono italofoni e 7 sardofoni. Tutti gli altri, dunque, sono bilingui e questo dato è confermato dalle risposte successive.
Il caso di Monti è relativo a un comune del Monteacuto che confina con l’area sardo-corsa. Anzi, nel settore più settentrionale del territorio comunale di Monti vi sono delle piccole borgate e un certo numero di stazzi dove non si parla il sardo ma il gallurese. Il dato di Monti mostra una percentuale di sardofoni pari al 14,3% ai quali si aggiunge un altro 14,3% di bambini bilingui; il restante 71,4% è costituito da bambini esclusivamente italofoni.
Un caso in parte analogo a Monti è quello di Perfugas che è un comune dove il capoluogo (con circa 2200 abitanti) è sardofono mentre l’agro (con poco più di 300 abitanti) è corsofono. Anzi, una minoranza corsofona è presente anche all’interno del centro abitato con almeno 200 persone che parlano il gallurese e in diversi casi anche il logudorese.
La situazione di Perfugas era stata indagata già nell’anno 2000 quando tutta la popolazione scolastica con le famiglie e gli insegnanti (più di 1000 persone in tutto) parteciparono a un’inchiesta approfondita che offrì lo specchio esatto della situazione.
Già otto anni fa era emerso che dei bambini della scuola elementare di Perfugas tre su quattro parlavano in italiano e soltanto un 20% parlava in sardo e un altro 10% in gallurese.
I risultati dell’indagine odierna confermano sostanzialmente il dato del 2000 e, anzi, si constata una certa tenuta del sardo rispetto all’italiano. Non escluderei che questo dato abbia una relazione con l’opera di sensibilizzazione condotta attraverso l’inchiesta del 2000 e, soprattutto, nei tre anni di insegnamento sperimentale del sardo (dal 2001 al 2004). Insegnamento che in seguito, purtroppo, è stato abbandonato.
Dei 23 bambini nati nel 1998 oggi 14 parlano italiano, 5 parlano in sardo, 2 sono bilingui italo-sardofoni e 1 parla in gallurese. Quindi i sardofoni sono il 22% (il 30% se consideriamo anche i bilingui).
Nonostante la sostanziale tenuta durante questi ultimi otto anni, si tratta di un dato pessimo che, proiettato nel futuro a lungo termine, equivale all’estinzione del sardo in quanto, come sanno bene gli studiosi, le lingue che si trovano sotto la soglia del 30% di parlanti sono, di fatto, in una fase di pre-agonia.
Purtroppo nel Logudoro il dato di Perfugas non solo non è tra i peggiori ma, anzi, sembra uno di quelli più lusinghieri. La conferma di questa realtà viene dal vicino centro di Laerru.
A differenza di Perfugas, che è un centro situato al confine linguistico con la Gallura ed ha tra i suoi stessi abitanti un discreto numero di corsofoni, Laerru, nonostante si trovi a soli 5 chilometri da Perfugas, è un centro-tipo della notra realtà isolana. Infatti tutta la popolazione risiede nel centro abitato che attualmente conta circa un migliaio di abitanti.
Il risultato dell’indagine non mi ha sorpreso per niente. Dei 14 bambini nati a Laerru tra il 1997 e il 1999 nessuno parla il sardo. Questo dato scioccante era emerso già nell’inchiesta del 2000 quando emerse una realtà che nessuno sospettava e, cioè, che a partire dal 1993 nessun bambino è stato più educato in sardo ma esclusivamente in italiano. Per il vero, uno dei 14 bambini saprebbe parlare in sardo perché dall’incrocio con i quesiti n. 2 e n. 3 del questionario risulta che i genitori con lui parlano in sardo. Però nessuno dei suoi compagni sa parlare il sardo, per cui anche lui è costretto a parlare in italiano.
A chi fosse sorpreso da questa situazione dirò che anche in altri centri del Logudoro la realtà è questa. Per esempio, a Chiaramonti (altro centro dell’Anglona ma con una popolazione doppia di quella di Laerru) già una decina d’anni fa tutti sapevano che tra i ragazzi dell’ultima generazione soltanto uno sapeva parlare il sardo.
D’altra parte, le risposte fornite dagli alunni di Ploaghe sono molto simili a quelle fornite dai bambini di Laerru. Anche a Ploaghe quasi tutti gli alunni della quinta elementare affermano di parlare soltanto in italiano. Solo 1 dice di parlare in sardo mentre altri due sono bilingui. Pertanto, si passa da un minimo del 3,3% a un massimo del 10%.
Questo dato lascia ritenere che nel Logudoro i casi analoghi a quelli di Laerru, Chiaramonti e Ploaghe rappresentino la norma piuttosto che l’eccezione.
Questi sono i risultati sulla situazione odierna relativa ai bambini che parlano effettivamente il sardo. Come chiunque può constatare, si tratta di dati lontanissimi – spesso di segno opposto – a quelli che sono emersi dall’inchiesta sociolinguistica commissionata soltanto due anni fa dalla Regione Sardegna.
Se è vero che oltre la metà della popolazione adulta e, in parte, di quella giovanile parla ancora il sardo (come è emerso dall’inchiesta regionale), è altrettanto vero che tra i ragazzi e i bambini che hanno meno di 12 anni l’uso del sardo oscilla tra il dato massimo del 46% di Bono (compresi i bilingui) e lo 0% di Laerru e Ploaghe passando attraverso i dati intermedi di Monti (14%) e Perfugas (22-30%).
La differenza tra i due tipi di risultati si spiega col fatto che, mentre la mia indagine si è rivolta a bambini di età compresa tra i 9 e gli 11-12 anni, l’inchiesta regionale si è rivolta a giovani e adulti dove si sa che l’uso del sardo è ancora abbastanza frequente e diffuso. Però è inutile nascondersi dietro un dito. E’ vero, purtroppo, che non solo a Laerru, Chiaramonti e Ploaghe ma che nella maggior parte della Sardegna l’ultima generazione di età inferiore ai vent’anni parla quasi esclusivamente l’italiano. Ho appurato io stesso questa realtà attraverso gli studenti che sostengono l’esame di sardo con me all’Università di Sassari: è sempre più raro trovarne uno che sappia parlare il sardo. E, mentre prima facevo lezione in sardo, oggi questo non è più possibile.
1.2 Risultati
1.2.1 Che cosa pensano i bambini del sardo e dell’italiano
Le risposte al quesito n. 11 ci danno un quadro attendibile su che cosa pensano i bambini dei nostri paesi sul valore del sardo rispetto all’italiano.
Sommando i dati relativi alle risposte fornite da tutti i bambini intervistati emerge che l’81% di essi pensa che il sardo non abbia un minore valore rispetto all’italiano.
(domanda) Ritieni che il sardo abbia un minor valore rispetto all’italiano?
Questo dato ha una importanza straordinaria perché ci consente di fare due considerazioni. Anzitutto, che i nostri bambini hanno una consapevolezza linguistica insospettata, forse superiore a quella dei propri genitori.
L’altra considerazione è che gli stessi bambini sono molto favorevoli a ricevere una educazione linguistica in sardo. Già: ma chi gliela deve dare questa educazione in sardo se la solita scuola e ora anche la famiglia fanno di tutto perché i bambini non imparino ma dimentichino il sardo a favore dell’uso esclusivo dell’italiano?
1.2. Che cosa pensano i bambini della loro educazione linguistica
Vediamo ora che cosa pensano i bambini della propria educazione linguistica.
Dalle risposte al quesito n. 12 (“Ritieni importante lo studio delle lingue locali a scuola?”) risulta che il 95% dei bambini ritiene importante che il sardo si studi a scuola. Si tratta di una percentuale impressionante e che si presta a diversi commenti.
(domanda) Ritieni importante lo studio delle lingue locali a scuola?
Commovente è il caso di Laerru dove tutti e 14 i bambini della classi terze, quarte e quinte ritengono importante che a scuola si studi il sardo: sono quegli stessi bambini ai quali i genitori hanno impedito di imparare la lingua della tradizione.
Il 95% dei nostri bambini, dunque, chiede che a scuola si faccia sardo eppure la scuola ignora quasi completamente questa richiesta. Eppure le direttive ministeriali impongono ai collegi dei docenti e, prima ancora, ai dirigenti scolastici di accertare quali siano i bisogni degli utenti, cioè degli alunni. La legge n. 482/1999, dunque una legge dello Stato, impone ai dirigenti scolastici delle scuole dove si parla una lingua minoritaria, di chiedere ai genitori, attraverso le domande di iscrizione, se vogliono che ai loro figli sia impartita l’educazione linguistica anche in lingua minoritaria. Ebbene, questa legge che soltanto dieci anni fa salutammo con entusiasmo è ignorata da quasi tutti i dirigenti scolastici che, viceversa, si sforzano di imbottire i POF (Piani dell’Offerta Formativa) di iniziative di ogni genere. Ora io mi chiedo e vi chiedo: i dirigenti scolastici e gli insegnanti sono pagati dallo Stato per applicare le leggi dello Stato o per fare soltanto quello che più gli aggrada?
Nelle nostre scuole si fa di tutto: dall’inglese al teatro alle attività creative, dai corsi extracurricolari di religione a quelli di musica e di ceramica. Soltanto in pochissime scuole si fa sardo e, nonostante la maggior parte delle scuole riceva dei finanziamenti regionali per la valorizzazione della cultura e della lingua sarda, il numero delle scuole dove si insegna il sardo sta addirittura diminuendo rispetto a qualche anno fa.
Sono personalmente a conoscenza che alcuni mesi fa una cinquantina di utenti ha chiesto a una scuola di fare dei corsi extracurricolari di lingua sarda e di storia locale con i fondi della delibera della Giunta Regionale n. 47/29 del 22 novembre 2007. Ebbene queste richieste, presentate per iscritto, non sono state portate a conoscenza degli insegnanti che dovevano scegliere quali tipi di corsi extracurricolari attivare. Tant’è che alcuni di quegli stessi utenti, rifiutati dalla scuola pubblica, si sono rivolti al sottoscritto per fare un corso serale che, appunto, si sta tenendo non nei locali scolastici ma in quelli di un municipio.
1.3 Il suicidio linguistico di una generazione…
I casi tragici di Laerru e Ploaghe, ma anche quelli meno gravi di Perfugas e di Bono, mostrano che siamo di fronte a un caso di suicidio linguistico. I risultati dell’inchiesta, anche se sono da verificare attraverso una indagine a carattere più esteso, dimostrano che la generazione nata negli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso ha fatto delle scelte che vanno in modo abbastanza netto contro la propria lingua o, se si preferisce, contro la propria identità. Si tratta, appunto e con grande evidenza, di un caso di suicidio linguistico.
Il caso di Ploaghe è clamoroso. Il paese di uno dei più grandi e appassionati studiosi della lingua sarda, proprio il paese da cui prende nome una delle forme più note di canto sardo tradizionale – Sa Piaghesa – si trova in testa alla “lista nera” delle comunità sardofone che hanno scelto in modo drastico di abbandonare la propria lingua.
Più avanti, parlando del caso di Sassari, vedremo per quale tipo di lingua e in nome di quale illusorio progresso questi paesi hanno abbandonato la propria lingua.
Cercare le cause e i responsabili di questa situazione disastrosa non è una impresa impossibile. Da un lato c’è una scuola che in molti casi continua a essere ostinatamente sardofoba (tutti i bambini di Ploaghe dichiarano di non sapere né scrivere né leggere in sardo, dimostrando che il discorso della lingua sarda è ancora off limits nelle scuole di Ploaghe e di molti comuni sardi). C’è poi un’altra scuola di falsi valori propagandata dalla TV del Grande Fratello, delle Isole dei Famosi, delle Talpe e delle Stalle che propala modelli basati sul nulla ovvero sul pettegolezzo o addirittura sulla delazione che nella società tradizionale sarda era uno dei delitti più gravi.
C’è poi la famiglia che attraversa un periodo di crisi profonda, nella quale i genitori nati in gran parte negli anni Settanta e Ottanta sono quelli che per primi sono stati abbacinati dai messaggi di una televisione massificante e falsamente democratica, dove occupano un posto di preminenza le griffes, l’abbigliamento e le auto di lusso e l’arrivare a qualunque costo a discapito della preparazione e della serietà.
1.4 … e il riscatto di quella successiva. La reazione anti-italofona dei giovani
Il quadro che emerge dai campioni analizzati è sicuramente serio e non induce ad alcun ottimismo. Uno spiraglio di speranza viene, tuttavia, da un fenomeno nuovo, attualmente in atto, di cui mi sto interessando.
Un numero importante dei maschi appartenenti alla prima generazione che nei nostri paesi è stata educata in italiano – quella nata negli anni Ottanta e che ora ha tra venti e trent’anni – si è ribellata alla scelta dei propri genitori e della scuola pubblica di cancellare la lingua sarda. Molti di questi ragazzi, che in alcuni casi conosco anche personalmente, con sempre maggiore frequenza, da Perfugas ad Aidomaggiore, abbandonano l’italiano e si mettono a parlare il sardo.
Un signore del mio paese di quasi 60 anni, uno dei primi ad essere stato educato in italiano (suo padre era il segretario locale del PNF), sposato con una signora ugualmente italofona, mi esponeva quasi con stupore che alcuni anni fa il proprio figlio, quando aveva poco meno di vent’anni, si è messo a parlicchiare in sardo nonostante a casa loro il sardo non si fosse mai parlato. Ora questo ragazzo, che sta superando le immaginabili difficoltà di apprendere una lingua esclusa dalla propria famiglia, parla il sardo con sempre maggiore convinzione e ha sostenuto con me all’Università di Sassari l’esame di Lingua sarda in sardo, superandolo brillantemente.
Anche i due figli maschi di un mio amico, educati entrambi in italiano perché la madre non sa parlare il sardo, una volta raggiunti i 18 – 20 anni di età si sono messi a parlare il sardo e ormai, dopo i primi periodi di difficoltà, lo sanno parlare discretamente con grande soddisfazione del mio amico che, come fanno ancora molti padri sardofoni (42,5%), parla in sardo ai propri figli mentre le madri che fanno altrettanto sono soltanto il 22,7%. Clamoroso, ancora una volta, il caso di Ploaghe dove nessuna madre parla ai propri figli in sardo.
Forse quest’aria nuova può dare fiato e qualche nuova speranza.
2. Il dominio sardo-corso
Gli organizzatori della Conferenza mi hanno chiesto di relazionare anche sulla situazione sociolinguistica del dominio sardo-corso, che è un campo nel quale conduco ricerche approfondite da oltre una decina d’anni e che io considero un esempio virtuoso che i sardofoni dovrebbe seguire.
Bisogna distinguere il caso di Sassari da quello della Gallura corsofona. Sassari, infatti, rappresenta un caso a sé stante, dove il sardo è quasi una lingua straniera ma dove, come vedremo più avanti, anche il sassarese è ormai in una situazione largamente compromessa se non irrimediabile.
La Gallura, viceversa, per certi aspetti rappresenta quasi un’isola felice ed è seconda soltanto a Carloforte e Calasetta per numero di parlanti nella varietà locale.
Dalla mia inchiesta del 2000 risultò che i bambini del comune corsofono di Erula, che fino a 20 anni fa era frazione di Perfugas e che si trova soltanto a una quindicina di chilometri da Laerru, l’85% dei bambini parlavano in gallurese mentre quelli che parlavano in italiano erano una piccola minoranza.
Anche sulla base di questi dati la mia convinzione sulla grande lealtà linguistica dei corsofoni ne era uscita rafforzata. E, d’altra parte, questa convinzione è largamente condivisa da coloro che in Gallura si interessano di lingue locali e specialmente del gallurese.
Partendo da questo spunto, andiamo a vedere quale sia la situazione nel dominio linguistico sardo-corso ossia delle zone dove si parlano il sassarese, il gallurese e altre varietà affini.
2.1 Precisazioni e aggiunte all’inchiesta regionale del 2006
In quest’altra dispositiva vediamo, più in dettaglio, i comuni nei quali si parlano, esclusivamente o maggioritariamente, delle varietà sardo-corse.
E diciamo quali sono queste varietà che in molti spesso riducono alle due principali, cioè il sassarese e il gallurese. In realtà, come ci mostra un’altra immagine, alle due principali varietà bisogna aggiungere quelle intermedie dell’Anglona e il maddalenino o isulanu. La cosa non è priva di importanza perché la legge regionale n. 26 del 1997 ignora l’esistenza del maddalenino, associandolo in modo semplicistico al gallurese nonostante il maddalenino sia un dialetto propriamente corso. E anche le varietà anglonesi di Castelsardo e di Sedini, che alcuni studiosi considerano galluresi e altri considerano sassaresi, si distaccano da entrambe queste varietà. Sarebbe come dire, sul versante sardofono, che l’arborense e il barbaricino sono logudoresi oppure campidanesi. Invece, bisogna essere chiari e distinguere quello che è diverso da quello che è uguale.
Bene, visto che siamo in una fase di inquadramento, occorre precisare meglio quale sia il dominio geografico delle varietà sardo-corse.
La linguistica richiede sempre precisione e non tollera le approssimazioni. Quasi come una scienza esatta, descrive i fenomeni ed è in grado di misurarli con precisione. Naturalmente se le cose si fanno con metodo appropriato e con la necessaria attenzione.
Senza volere muovere delle critiche all’inchiesta regionale del 2006 sulla situazione sociolinguistica dell’isola e limitandomi al dominio sardo-corso devo, comunque, fare notare due errori non da poco. Quando si fa una inchiesta sociolinguistica si utilizzano principi e parametri statistici che, più sono corretti, e più vicino il dato finale è vicino al vero. Nel nostro caso, invece, si è attribuito al dominio gallurese un comune dell’Anglona come Tergu che parla una varietà più vicina al sassarese. Un po’ più grave è stata l’attribuzione al dominio sardofono (logudorese) del comune di S. Antonio di Gallura che, viceversa, è esclusivamente corsofono. Ora, anche si tratta di due comuni piccoli, è evidente che i relativi dati – essendo stati attribuiti a varietà linguistiche diverse da quelle effettive – in qualche misura alterano i risultati dell’inchiesta.
Sempre parlando di geolinguistica e statistica applicata alla sociolinguistica, bisogna fare chiarezza su quali siano gli effettivi domini linguistici del sardo e delle varietà sardo-corse.
Nella maggior parte dei testi di linguistica sarda vediamo delle cartine linguistiche che mostrano la situazione che possiamo osservare in questa immagine. Si tratta di una rappresentazione che non tiene conto dell’effettiva situazione ma soltanto della generica vigenza di varietà sardo-corse in un certo numero di comuni della Sardegna settentrionale.
Ebbene, anche un profano può notare le vistose differenze che esistono tra questo tipo di rappresentazione geolinguistica e questa immagine dove si tiene effettivamente conto della reale distribuzione geografica delle varietà sardo-corse.
In linguistica, come accennavo prima, le approssimazioni non sono consentite perché conducono inevitabilmente a conclusioni incongrue.
Nel nostro caso, questo significa che nel comune di Sassari non si parla soltanto sassarese, come sembrerebbe dalla prima cartina, ma si parla anche sardo logudorese e pure in proporzioni significative. Tant’è che Sassari ha dei quartieri anche popolosi, per esempio Li Punti, dove la maggioranza dei parlanti in lingua locale non usa il sassarese ma il logudorese.
In Anglona, il comune di Tergu ha una maggioranza corsofona ma con una presenza significativa di sardofoni e il comune di Erula non è sardofono ma esclusivamente corsofono. Anche una parte del comune di Perfugas, che tutti ritengono sardofono, è invece corsofona. Lo stesso dicasi per i comuni di Tula, Oschiri, Berchidda, Monti, Padru e Torpè che nelle cartine linguistiche risultano esclusivamente sardofoni. E per quanto riguarda Budoni, che grazie anche alla sua collocazione nella provincia di Olbia-Tempio, molti ritengono corsofono è, invece, parzialmente sardofono. Alla base di questa confusione forse è il toponimo di veste gallurese Budoni, ma bisogna ricordare che nella locale varietà logudorese questo toponimo corrisponde a Budune.
E, visto che ci siamo, bisogna dire anche che
– Golfoaranci è un comune sardofono non meno che corsofono né più né meno di Olbia.
– che nel territorio del comune sardofono di Luras si parla il gallurese.
– che perfino in una parte del comune baroniese di Torpè si parla il gallurese
– così anche nel comune sardofono di Bulzi.
Risulterà più chiaro, così, che una statistica linguistica non può prescindere dall’esatta conoscenza della realtà, pena la falsificazione dei dati e dei risultati.
2.2 Sulla collocazione delle varietà sardo-corse
I dialetti sardo-corsi – forse perché la maggior parte degli studiosi li considera delle varietà afferenti al gruppo toscano-corso – non trovano una collocazione adeguata nel contesto degli spazi che la linguistica italiana dedica al corso.
La stessa linguistica sarda se ne occupa episodicamente, essendo gli studiosi attratti soprattutto dal sardo. Ciò determina la circostanza per cui le conclusioni degli specialisti non sembrano portare elementi decisivi per la risoluzione di talune questioni legate alle strutture, alla storia e alla posizione di queste varietà nel panorama romanzo.
Eppure queste varietà rappresentano, nel loro insieme, la più cospicua eteroglossia tra quelle vigenti in Sardegna.
Da un punto di vista prettamente quantitativo, esse vantano un numero di utenti che si aggira intorno ai duecentomila. Un dato, questo, che corrisponde a poco meno del 12% della complessiva popolazione sarda e che si colloca, in una stima approssimata, a fianco degli italofoni dopo la maggioranza sardofona che, seppure in progressivo decremento, è stimabile ancora intorno a un milione di utenti.
Sotto il profilo numerico questo dato mette i dialetti sardo-corsi in diretta concorrenza con quelli della stessa Corsica dove le varietà locali sono parlate da non più di duecentomila utenti.
Si tratta di numeri che, qualora al corso venisse riconosciuto lo status di lingua (come in Francia), farebbero delle eteroglossie della Sardegna settentrionale una minoranza linguistica più numerosa di quella franco-provenzale della Valle d’Aosta, di quella slovena del Friuli-Venezia Giulia e che la metterebbero quasi sullo stesso piano della minoranza tedescofona dell’Alto Adige.
D’altra parte occorre tener presente che la maggiore città corsofona non si trova in Corsica ma in Sardegna, poiché il dialetto di Sassari è parlato tuttora da circa la metà della popolazione ovvero da 50.000-60.000 utenti, cioè da un numero all’incirca doppio rispetto alla popolazione corsofona di Ajaccio o Bastia.
In una ideale classifica, relativa ai centri del sistema linguistico sardo-corso che vantano almeno 10.000 utenti corsofoni, la Sardegna occuperebbe ben sette posizioni rispetto a soltanto tre della Corsica (in corsivo i centri corsi): 1. Sassari; 2. Ajaccio; 3. Bastia; 4. Olbia (circa la metà di 50.000 abitanti); 5. Porto Torres, 6. Tempio; 7. Sorso; 8. Arzachena, 9. La Maddalena; 10. Porto Vecchio.
2.3 Sociolinguistica e storia della lingua
La vastità e la complessità dei rapporti culturali che la Sardegna e la Corsica ebbero tra il basso medioevo e l’età moderna è dimostrata, oltre che da una interessante documentazione storiografica, da circa duemila cognomi sardi di origine corsa, molti dei quali sono documentati già nelle fonti medievali e moderne.
L’elemento corso ebbe un ruolo di straordinario rilievo che la storiografia va progressivamente mettendo in luce. Nelle fonti del periodo compreso tra l’XI e il XV secolo le attestazioni di cognomi corsi rappresentano da sole circa il 27,5% della complessiva presenza straniera documentata in Sardegna. Questo aspetto, poi, si rafforza se lo si rapporta alla parte settentrionale dell’isola, nella quale l’elemento corso risulta largamente maggioritario rispetto a tutte le altre componenti antroponimiche non sarde.
Degli originari gruppi corsi ai quali si deve il radicamento delle varietà oggi vigenti nella Sardegna settentrionale resta, specialmente nella Gallura corsofona, una chiara percezione di sé che si estrinseca con la definizione li Sàldi ‘i Sardi’ con cui i galluresi indicano i restanti abitanti dell’isola di lingua sarda e specialmente quelli della parte centro-meridionale. Nei confronti di questi ultimi la letteratura orale gallurese conosce addirittura dei motti di disprezzo.
Questo atteggiamento, pur essendo meno marcato, non è del tutto sconosciuto anche a Sassari. Qui i sardofoni sono definiti comunemente li di li biddi ‘quelli dei paesi’ con particolare riferimento agli abitanti dei centri minori che cingono a sud la città (Sennori, Osilo, Ossi, Tissi, Usini etc.). I sardofoni residenti a Sassari e nelle sue borgate sono definiti accudiddi lettm. ‘sopraggiunti’ rispetto ai sassaresi di parlata corsa che, essendosi sovrapposti all’originaria popolazione della città da circa cinque secoli, si autodefiniscono sassaresi in ciabi lettm. ‘sassaresi in chiave’ cioè ‘autentici’ in quanto residenti dentro la città murata le cui antiche porte, come è noto, ogni sera venivano chiuse a chiave, per cui chi stava dentro le mura era sassarese ‘in chiave’ mentre chi ne restava fuori non lo era.
2.4 Attività di associazioni galluresi nel campo della lingua locale
Da alcuni anni nel nord dell’isola sono sorte alcune iniziative tendenti, con differenti gradi di consapevolezza, alla difesa e valorizzazione delle parlate di origine corsa.
Anche in questo frangente si osserva una maggiore determinazione nei galluresi che da una decina d’anni hanno dato vita a una Consulta Intercomunale Gallurese con sede ad Arzachena.
Questo organismo, composto dai sindaci dei comuni corsofoni e da alcuni intellettuali, sembra svolgere, in senso gramsciano, un ruolo politico non meno che linguistico.
Finalità propriamente linguistiche si propone, invece, l’Accademia di la linga gadduresa fondata alcuni anni fa a Luogosanto dove ha sede.
Ultimamente il dibattito sembra coinvolgere pure Sassari e i centri corsofoni dell’Anglona anche se esso, non sostenuto da un’adeguata percezione di appartenenza linguistica, sembra ripiegare più su questioni formali che su un chiaro quadro d’intenti.
Il punto di incontro di queste istanze pare, comunque, costituito dalla volontà di riformare la legge n. 482/1999 allargandone lo spettro e i benefici alla varietà storiche della lingua italiana e, tra queste, le varietà di origine corsa parlate in Sardegna come pure il tabarkino dell’arcipelago sulcitano.
2.5 L’utenza attuale delle varietà corsofone
Le variazioni di interesse tra la zona corsofona orientale (Gallura) e quella occidentale (Sassari, Nurra, Romangia, Anglona) del sardo-corso trovano delle conferme anche nell’uso che le rispettive comunità fanno delle proprie parlate.
In Gallura e nelle comunità corsofone dell’Anglona le diverse varietà locali sono usate sia dalla popolazione adulta che da quella giovanile in una serie di contesti che vanno dall’ambito familiare e amicale fino ai rapporti negli uffici pubblici. Ciò dipende sia dal fatto che il gallurese rappresenta il codice usato dalla maggior parte delle famiglie sia dal livello di autostima linguistica che ne hanno gli utenti. Una rappresentazione di questo atteggiamento può essere offerta dai risultati di un recente monitoraggio condotto presso la popolazione scolastica del comune di Erula.
A Sassari, invece, ormai la parlata locale è usata quasi soltanto dalla fascia adulta degli strati popolari anche per via del fatto che una parte significativa della popolazione, inurbatasi in momenti diversi dai vicini paesi sardofoni, usa correntemente il sardo. L’uso del dialetto è più frequente a Porto Torres e a Sorso.
2.6 I concorsi letterari
L’interfaccia di tale situazione si coglie anche attraverso i concorsi letterari, il cui numero è cresciuto esponenzialmente in Sardegna specie durante gli ultimi due decenni.
Questo tipo di iniziativa ha attecchito anche nell’area linguistica sardo-corsa.
Sassari segue il trend impostosi nel resto dell’isola, per cui queste manifestazioni sono organizzate soprattutto da comitati di festeggiamenti patronali e prevedono la partecipazione di opere in qualunque varietà parlata nell’isola, comprese le stesse alloglossie catalana e tabarchina.
La maggior parte dei concorsi organizzati in Gallura, viceversa, è riservata alle sole poesie in gallurese o anche alle opere in varietà corsa ma non a quelle scritte in sardo.
Un’iniziativa analoga, ma con norme forse più restrittive, è stata assunta da alcuni anni anche a Sedini.
Si tratta, tuttavia, di iniziative che difficilmente riescono a coinvolgere larghi strati della popolazione, presso i quali l’uso delle rispettive parlate, essendo limitato all’oralità come nel resto della Sardegna, non incoraggia la diffusione delle opere scritte. Non appare un caso che due tra i maggiori artisti che si esprimono nelle varietà sardo-corse, cioè Franco Fresi (gallurese) e Giuseppe Tirotto (castellanese), per le loro opere si servano anche dell’italiano, forse a causa del ristretto numero di persone che acquistano e leggono i loro lavori.
La fedeltà dei galluresi corsofoni e, in misura minore, degli anglonesi corsofoni alle proprie parlate è proverbiale e rappresenta un esempio che i sardofoni dovrebbero imitare se davvero vogliono che il sardo non si estingua nel giro di pochi decenni.
L’orgoglio linguistico dei galluresi corsofoni, poi, in certi casi sfiora aspetti paradossali e dà vita a veri e propri casi di sopraffazione linguistica. Per esempio, a Tempio gli abitanti del posto spesso rifiutano di “capire” quelli che parlano il sardo, costringendo questi ultimi a parlare il gallurese o, quanto meno, “tricolore” come dicono in modo eufemistico per obbligare i sardofoni a non parlare la propria lingua.
Quasi umoristico è il caso dei sardi meridionali che si spostano ad Arzachena per motivi di lavoro. Di fronte al pregiudizio o all’atteggiamento antisardofono di alcuni galluresofoni, vi è chi arriva scherzosamente a scommettere sul tempo che questo o quel campidanesofono impiegherà a parlare il gallurese. Il tempo medio, secondo questo tipo di scommesse, viene valutato in circa un mese o anche in 20-25 giorni.
2.7 L’azione delle associazioni in campo linguistico
Negli anni scorsi si è assistito a una certa chiusura da parte della Consulta Intercomunale Gallurese nei confronti di una proposta avanzata da una commissione di studio istituita dall’assessorato regionale alla cultura, la quale tendeva al adottare una varietà condivisa di sardo per la redazione degli atti del medesimo assessorato (la sigla L.S.U. in Gallura veniva sciolta ironicamente con “Lavori Socialmente Utili [alla Commissione]”).
Dopo che la Consulta Gallurese ha sensibilizzato i comuni corsofoni ad adottare delibere con le quali si respingeva l’idea di adottare una lingua unificata per gli usi della Regione Sardegna, si sono verificati dei casi di estremismo che in qualche caso rasentano il grottesco.
Se, da un lato, la posizione del sito web Il Gallurese appare morbida e aperta a soluzioni condivise, vi è qualcuno che per la tutela del dialetto maddalenino (ignorato dalla L.R. n. 26/1997) ha pensato di chiedere l’intervento del Consiglio della Comunità di Corsica. E non è mancato chi in una recente pubblicazione ha ventilato la secessione della Gallura rispetto alla Sardegna.
Comunque, la Consulta Gallurese ha bandito un concorso per un “inno gallurese” che si è svolto regolarmente e al quale hanno partecipato diversi concorrenti. Concorso che si è concluso con l’adozione di un inno che, per la verità, è poco conosciuto.
Alla base di tali posizioni più o meno sardofobe si intravede il timore di vedere il gallurese relegato in una posizione marginale. In realtà la legge regionale n. 26 del 1997 riconosce al gallurese (e alle altre varietà eteroglotte e alloglotte presenti in Sardegna) pari dignità col sardo. E, d’altra parte, sul piano geografico e quantitativo le varietà sardo-corse, seppure rappresentino un elemento significativo nella realtà linguistica sarda, occupano pur sempre una posizione minoritaria rispetto alla stragrande maggioranza sardofona. Comunque, si tratta di posizioni eccentriche che sembrano essersi ridimensionate con la costituzione della nuova provincia di Olbia-Tempio.
Le garanzie offerte dalla L.R. n. 26/1997 non bastano ad alcuni non sardofoni i quali pretenderebbero che al sardo non fosse riconosciuto quel ruolo millenario che gli studiosi e i legislatori gli riconoscono pacificamente, se è vero che il sardo è compreso tra le lingue sottoposte a tutela mentre le varietà sardo-corse, a causa del loro statuto di dialetti della lingua italiana, sono considerati alla stregua di altre pur importanti varietà regionali come, ad esempio, il lucano, il ligure, il romagnolo eccetera.
Tuttavia, se le questioni linguistiche riescono ad appassionare gli animi e ad accendere a tal punto la fantasia di qualche esagitato è bene che questi problemi non siano sottovalutati perché, come diceva Gramsci, quando si pone il problema della lingua si pone un problema politico. Ebbene, anche se la situazione non sembra paragonabile a quella dell’Irlanda, si deve riconoscere che, da un punto di vista geografico, la posizione della Gallura ricorda quella dell’Ulster. Può sembrare esagerato, ma a volte certi problemi possono ingigantirsi proprio a causa della loro sottovalutazione.
Non si deve dimenticare che alla base della costituzione della provincia di Olbia-Tempio c’è stata anche una spinta che si potrebbe definire, in un certo senso, autonomistica nei confronti del resto della Sardegna, specialmente da parte dei galluresi corsofoni. Per esempio, i promotori dell’adesione del Comune di Badesi alla nuova provincia hanno motivato la loro scelta adducendo anche motivazioni linguistiche.
Il Comune di S. Teodoro di recente è stato accusato di compiere una operazione di pulizia linguistica corsizzando gli antichi toponimi logudoresi dopo che questi sono sopravvissuti alla colonizzazione corsa dei secoli passati.
Bisogna dire, comunque, che un certo spirito antagonistico tra sardi corsofoni e sardi propriamente sardofoni è sempre esistito. Vi è chi, per marcare questa distanza, richiama il fatto che i galluresi corsofoni chiamino li Saldi gli altri Sardi. Ma costoro ignorano che i vecchi sardi corsofoni, cioè i loro progenitori, già diversi secoli orsono definivano i Corsi li Cossi, marcando una distanza anche con questi ultimi. Infatti nella toponimia gallurese sono attestate parecchie forme come Azza di li Cossi, Maccia di li Cossi, Riu di li Cossi e simili.
Sempre parlando di spirito antagonistico tra sardi e immigrati corsi, ma sarebbe meglio definirlo antagonismo cantonale o subregionale, si può citare il fatto che nella Gallura meridionale, specialmente nella zona di S. Teodoro, gli abitanti della Sardegna centrale e meridionale sono definiti la Saldadda lettm. ‘la Sardaglia’. E una poesia popolare recita ‘bastaldu ammannatu, sé fiddolu d’un saldu!”.
Si deve riconoscere che da parte degli altri Sardi non si osserva alcun atteggiamento negativo nei confronti dei galluresi che anzi, in certi casi, sono visti con simpatia e come una popolazione che suscita curiosità anche per la diversità della loro lingua. In passato, invece, vi furono delle contrapposizioni anche assai accese come quando, per esempio, il nobile corso Vincentello d’Istria con un suo esercito personale formato da mercenari corsi prese parte alla battaglia di Sanluri a fianco dei Catalani, contribuendo alla sconfitta dei Sardi arborensi e alla fine del sogno indipendentista degli Arborea.
2.8 Che fare?
Insomma, gli studiosi e gli operatori che, forse incautamente, attraverso la L.S.U. cercavano di fare qualcosa per salvare il sardo dall’estinzione, a causa della non conoscenza della reale situazione sociolinguistica della Gallura, hanno, certo involontariamente, messo in moto una reazione che in certi casi ha assunto anche caratteri assai vivaci. Sarà bene disinnescare questo tipo di reazioni con atteggiamenti basati sulla conoscenza delle situazioni e sullo studio delle conseguenze che l’adozione di questo o di quell’atto può provocare. Studiosi e operatori linguistici non si possono permettere di ignorare una parte non secondaria della realtà linguistica della Sardegna che, come quella sardo-corsa, rappresenta una cospicua minoranza nella minoranza con almeno un 15% dei parlanti.
Non sto suggerendo ricette ma sicuramente sarebbe necessaria, come minimo, una maggiore disponibilità da parte di tutti, dal momento che è interesse di tutti che le varietà minori non si estinguano e che, insieme ad esse, non si estingua un patrimonio culturale e linguistico di valore inestimabile.
Bisogna che tutti – a iniziare dai legislatori e dagli intellettuali – facciano uno sforzo in direzione del recupero dell’intercomprensione che con le ultime generazioni mostra un preoccupante regresso.
La difesa dei propri diritti linguistici non dovrebbe mai sfociare in posizioni esasperate ma tendere a trovare punti di incontro nella normale dialettica che deve esistere tra la maggioranza e la minoranza. Come una minoranza linguistica ha diritto di vedere riconosciuta la propria specificità, così la maggioranza ha diritto di darsi degli ordinamenti nel tentativo di salvare la propria lingua dall’estinzione.
In un passato non troppo lontano nell’esercito sardo gli ordini erano impartiti in una varietà a base logudorese che fungeva da koiné. Non a caso durante la Grande Guerra la parola d’ordine della celebre Brigata Sassari era Si ses italianu faèdda in sardu ‘se sei italiano parla in sardo’. Ora anche l’inno di questa stessa brigata, Dimonios ‘Diavoli, Demoni’, composto pochi anni fa in sardo logudorese, è cantato e capito dagli stessi soldati galluresi che vi militano. E, d’altra parte, i galluresi capiscono abbastanza bene i testi delle canzoni in sardo.
Un esempio giunge proprio dal canto e dal ballo tradizionali, che contribuiscono al perfetto inserimento dei gruppi folkloristici galluresi in un vivacissimo panorama di manifestazioni culturali. Queste iniziative non solo animano alcune tra le più seguite trasmissioni radiofoniche e televisive della Sardegna, ma rappresentano uno degli aspetti di maggior coesione sociale e culturale di un isola che, pure, è nota per i suoi particolarismi. Non appare un caso che i programmi televisivi Sardegna canta dell’emittente Videolina di Cagliari e Buonasera Sardegna dell’altra emittente cagliaritana Sardegna Uno, secondo rilevazioni di settore siano in assoluto i programmi locali di intrattenimento più seguiti nell’isola.
La trasmissione radiofonica dai contenuti popolari forse più seguita attualmente è La boci di la Gadduura ‘La voce della Gallura’ che, messa in onda da Radio Internazionale di Arzachena, trasmette canzoni dell’intero repertorio tradizionale sardo. Questa trasmissione, pur essendo condotta interamente in gallurese, è ascoltata anche dai sardofoni del Logudoro e anche dello stesso Campidano. Spesso i sardofoni interloquiscono con i conduttori, ciascuno nelle rispettive varietà, a dimostrare che l’intercomprensione, al di là delle diversità formali, rappresenta un fatto di disponibilità.
Se è vero che tutti coloro che parlano delle lingue neolatine riescono a capirsi tra loro purché parlino piano, non si vede come ciò non sia possibile tra sardofoni e corsofoni che per secoli, durante i quali le lingue ufficiali erano il catalano e lo spagnolo mentre l’italiano non era capito se non da poche persone, hanno interloquito parlando gli uni e gli altri i rispettivi linguaggi.
In effetti, si tratta soltanto di avere buona volontà e di non chiudersi ciascuno nel proprio cortile. Altrimenti si torna al detto sardo Chentu concas chentu berritas che esiste anche in gallurese (Centu capi, centu barretti) e in sassarese (Zentu cabbi, zentu barretti).
Sebbene siano passati circa cinquecento anni la situazione linguistica della Sardegna settentrionale – tenendo conto del fatto che da oltre due secoli l’italiano ha sostituito entrambe le lingue iberiche – non sembra essere mutata di molto rispetto a quella che veniva descritta dai Gesuiti di Sassari nel 1561: “es una confusión en esta tierra acerca de las lenguas” ‘c’è confusione in questa terra in fatto di lingue’.
Gli elementi di novità sembrano rappresentati da una nuova consapevolezza delle comunità sardo-corse che, nella solida integrazione con la comunità regionale, ambiscono a preservare le proprie parlate dalla decadenza che minaccia tutte le lingue minori. L’evidente coesione sociale raggiunta dalle due componenti sarda e corsa, grazie anche al plurisecolare processo di osmosi culturale e linguistica, rappresenta uno dei migliori esempi di convivenza civile.
3. Conclusioni
A conclusione di questo intervento, mi limiterò a qualche breve osservazione. Le decisioni spettano ai politici, però gli studiosi possono dare dei consigli.
L’anno scorso a Cagliari la Regione e l’Università mi chiesero di relazionare sulla storia degli usi formali del sardo. In quella occasione emerse chiaramente che il sardo ha almeno mille anni di storia scritta; dunque, alcuni secoli in più rispetto all’italiano. Allora, dirà qualcuno, che male c’è se il sardo muore qualche secolo prima dell’italiano?
Tutte le lingue muoiono e il latino ne è la dimostrazione più evidente. Tuttavia, se è vero che tra gli elementi che sono alla base dell’autonomia della Sardegna la lingua rappresenta forse l’elemento più caratterizzante, pur dando atto della buona volontà dimostrata dall’Amministrazione Regionale in questi ultimi anni, gli sforzi fatti sono veramente poca cosa rispetto ai mezzi che bisogna mettere in campo per cercare di salvare la lingua sarda e, con essa, una parte importante, forse decisiva, della storia del popolo sardo.