Alla ricerca di nuovi equilibri tra Unione Europea e Cina di Giovanni Adornino
Nel gennaio 2009 l’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale statunitense Zbigniew Brzezinski affidò alle colonne del Financial Times un’idea dirompente: Stati Uniti e Cina avrebbero dovuto dare vita a un Summit dei G2 per affrontare e risolvere insieme le questioni più critiche dell’agenda internazionale. La proposta suscitò reazioni vivaci e fu respinta dalle cancellerie dei diretti interessati, ma ebbe il merito di mettere in evidenza il rapido spostamento del baricentro della vita politica internazionale dal tradizionale asse euro-atlantico alla regione dell’Asia-Pacifico. La fisionomia dell’ordine internazionale post-unipolare (e post-Lehman Brothers) dipenderà in modo determinante dalle scelte dei nuovi attori globali che vanno emergendo in particolare in Asia orientale, primo tra tutti la Repubblica Popolare Cinese (RPC). Alcune conseguenze della dinamica in atto sono già manifeste: al recente incontro dei Ministri delle Finanze dei Paesi del G20 a Gyeongju, in Corea del Sud, è stato stabilito che una rilevante quota dei diritti di voto nel Fondo Monetario Internazionale (il 6%) e due seggi nell’Executive Board siano trasferiti dall’Europa alle economie emergenti.
Nonostante il Vecchio Continente sia destinato a (e accetti di) farsi carico del prezzo politico che si impone per rendere più rappresentativa l’architettura della governance globale, sorprende come ciò non si traduca in una narrativa che sappia guadagnare all’Unione Europea un “moral high ground” politico a partire dal quale recuperare visibilità e salienza nel dibattito internazionale e nelle relazioni bilaterali. Il caso dei rapporti UE-Cina è emblematico: nonostante gli ultimi dieci mesi abbiano visto Pechino subire un progressivo isolamento nella propria regione e sulla scena globale – principalmente per effetto di un irrigidimento della posizione statunitense – Bruxelles fatica a tradurre in termini politici il proprio enorme peso commerciale. Proprio nel campo degli scambi commerciali si sono sviluppati i contatti tra Unione e Repubblica Popolare Cinese a partire dal 1975, tre anni prima dell’avvio del percorso di “riforme e apertura” ad opera di Deng Xiaoping, e succeduto agli eccessi ideologici della leadership di Mao. Nell’arco di un decennio la relazione si formalizzava con l’EU-China Trade and Cooperation Agreement, che insieme a una serie di altri accordi costituisce il quadro organizzativo del rapporto bilaterale. A seguito della poderosa e costante crescita registrata in Cina negli ultimi trent’anni, ma anche – crucialmente – alla luce delle trasformazioni che l’Unione Europea ha vissuto con la sigla dell’Atto Unico Europeo (1986), l’implementazione del mercato comune (1993) e l’introduzione dell’euro (2002), l’entità degli scambi commerciali bilaterali è lievitata al punto da vedere l’UE come primo partner della Cina e la Cina come secondo dell’UE dopo gli Stati Uniti. L’entità degli scambi di beni ha rasentato i 300 miliardi di dollari nel 2009, e i 31 miliardi nel campo dei servizi (sui cui Pechino mantiene forti posizioni di monopolio). Tra le prime economie a superare la crisi del 2008, la RPC è destinata in breve a superare il Giappone come seconda più grande economia al mondo in termini di PIL. La misura dell’integrazione della Cina nell’economia globale – peraltro sancita ufficialmente dall’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) nel dicembre 2001 – risulta chiara se si considera che oltre metà dell’export cinese (verso cui è orientato in modo significativo il sistema produttivo nazionale) deriva da imprese di proprietà o con partecipazione straniera, con particolare peso dei capitali di Hong Kong, Giappone, Taiwan e Corea del Sud. L’attesa del mondo imprenditoriale europeo è ora per una crescita dei consumi in Cina, che traduca in utili la rischiosa scommessa che molte imprese hanno sostenuto per penetrare il difficile mercato cinese nei decenni passati – spesso al costo di perdite rilevanti. L’allargamento della fascia di popolazione con accesso a un reddito medio-alto, sommato alla maturazione del gusto di cittadini cinesi maggiormente socializzati alle pratiche di consumo occidentali, dovrebbe favorire un ulteriore incremento delle esportazioni europee, già cresciute del 60% tra il 2005 e il 2009. Questa dinamica contribuirebbe a riequilibrare una relazione guardata con sospetto in particolare in quei paesi europei, come l’Italia, che hanno visto erosa la propria competitività in una serie di settori produttivi a bassa intensità tecnologica, oltre a sperimentare una emorragia di posti di lavoro. Analogamente, l’apertura effettiva del mercato dei servizi in Cina (ambito in cui l’Unione Europea gode di evidenti vantaggi comparati) è essenziale per i partner europei ed è tra i punti affrontati con decisione nell’ultimo Position Paper della Camera di Commercio Europea in Cina (2010-11), con l’intento di favorire l’attenuazione dello squilibrio nella bilancia commerciale, che nel 2009 gravava per complessivi 128 miliardi a carico dei paesi dell’Unione. Tra gli altri punti toccati nel documento, che riscontra una preoccupante involuzione dell’ambiente imprenditoriale cinese (in parziale violazione degli impegni assunti da Pechino all’atto dell’accesso all’OMC), si trovano le discriminazioni presenti nelle politiche per l’approvvigionamento della pubblica amministrazione cinese e l’acuirsi del tema della tutela dei diritti di proprietà intellettuale. Nel primo caso regolamenti volti a privilegiare produttori cinesi costituiscono un chiaro motivo di dissenso tra Pechino e Bruxelles, mentre una serie di proposte volte a stimolare la cosiddetta “indigenous innovation” (concedendo un trattamento preferenziale ai prodotti con proprietà intellettuale cinese) hanno l’effetto di costringere le imprese europee a scegliere tra la perdita di competitività dei propri prodotti più innovativi o la rinuncia ai propri diritti di proprietà intellettuale. L’effetto aggregato di queste divergenze di politica commerciale – che si traducono ad oggi in 52 misure anti-dumping applicate dal Commissario Europeo al Commercio a carico di circa l’1% delle importazioni dalla Cina – vale circa 21 miliardi di euro di mancato commercio, secondo stime della Commissione Europea. La questione è stata al centro del 13° Summit UE-Cina del 6 ottobre scorso, insieme con il delicato tema dell’equilibrio nel valore del Renmimbi (RMB), la valuta cinese, secondo Bruxelles mantenuto artificialmente basso da Pechino, con notevole svantaggio delle imprese europee. Nonostante l’enfasi retorica del comunicato stampa conclusivo, l’incontro non sembra aver prodotto progressi significativi su questi dossier economici, né rispetto alla richiesta cinese di riconoscere alla RPC lo status di “economia di mercato”, che consentirebbe a Pechino di meglio difendersi dalle azioni legali intentate ai suoi danni presso l’OMC. Il Partnership and Cooperation Agreement, la cui negoziazione è stata avviata nel 2007 e che dovrebbe sostituire il precedente accordo del 1985, è tuttora congelato. Sul piano più strettamente politico il Partenariato strategico stipulato nel 2003 è l’ombrello sotto cui si collocano i numerosi summit e dialoghi che regolarmente vedono funzionari europei e cinesi incontrarsi nei due continenti. Tra gli oltre 50 dialoghi settoriali spiccano le consultazioni al livello di esperti nei campi della non-proliferazione e dell’esportazioni di armi convenzionali, due ambiti in cui Unione Europea e Cina si confrontano su temi di sicurezza militare, altrimenti inibiti dall’embargo sugli armamenti imposto dall’Unione contro la Cina all’indomani della repressione di Piazza Tienanmen nel 1989 e mai revocato (anche su forte pressione statunitense). L’attuale compresenza di vascelli sotto comando cinese ed europeo nell’ambito delle operazioni di contrasto alla pirateria al largo della costa della Somalia potranno incrementare le occasioni di interazione operativa. Rilevante è anche il dialogo UE-Cina sui diritti umani, attivo con cadenza semestrale dal 1995 e impegnato nella trattazione di temi che spaziano dalla ratifica da parte cinese del Patto Internazionale per i Diritti civili e politici (siglato dalla RPC nel 1998 ma non ancora ratificato), alla riforma del sistema giuridico cinese secondo i criteri dello stato di diritto, passando per la tutela dei diritti delle minoranze e delle libertà di stampa e associazione. Il complesso delle relazioni bilaterali appare comunque imperniato sugli interessi economici; recenti sondaggi d’opinione hanno messo in luce la scarsa consonanza che i cittadini dei principali paesi europei avvertono tra i valori intorno a cui sono costituite le proprie società e quelli che percepiscono come i principi fondanti della vita sociale e politica cinese. Per converso, Pechino non nasconde la propria frustrazione dinanzi all’impossibilità di far fare ai rapporti con Bruxelles il salto di qualità che le consentirebbe di giocare di sponda quando la tensione con Washington cresce. Lo scenario potrebbe cambiare nel dopo-Lisbona con il consolidarsi del Servizio Europeo di Azione Esterna alle dipendenze di una più rilevante e autonoma figura di Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza europea. Un primo tentativo è stato compiuto nel Consiglio Europeo del 16 settembre scorso con il lancio di una nuova prospettiva di partenariati strategici, ma in definitiva spetterà agli Stati membri stabilire in che misura avvalersi del peso dell’Unione per spingere la propria agenda negli incontri con il partner cinese, oppure limitare l’azione comunitaria soltanto alle aree commerciali o di politica estera “interstiziale”.
Giovanni Andornino (Università di Torino; Torino World Affairs Institute)