La morte di Francesco Cossiga. Uno statista cristiano di Marco Bellizi
Francesco Cossiga, figura di spicco del cattolicesimo politico democratico italiano, è stato essenzialmente un uomo di Stato. Ripercorrendo i grandi eventi che hanno caratterizzato la storia della Repubblica, si può facilmente constatare come il suo nome compaia in molti momenti cruciali della vita del Paese, dalla ricostruzione postbellica ai movimenti studenteschi, dagli anni bui del terrorismo fino all’esaurirsi di un’epoca e di una generazione politica, sotto i colpi delle inchieste giudiziarie e degli sconvolgimenti innescati dalla caduta del muro di Berlino.
Lo statista scomparso è stato a tutti gli effetti anche uomo della cosiddetta Prima Repubblica, della quale potrebbe essere considerato tra i simboli, esponente di una generazione che, dalle ceneri del ventennio fascista e del secondo conflitto mondiale, ha saputo costruire un’Italia nuova, in un contesto pieno di difficoltà e contraddizioni come fu quello della guerra fredda.
Ma Cossiga è stato anche capace di puntuali intuizioni circa gli sviluppi dei processi politici e ha anticipato, oltre che gli esiti di questi, anche un nuovo stile politico. Uomo di Stato, dunque. Di quello Stato che a volte ha saputo trasmettere il senso della fermezza e della certezza del diritto e che a volte ha tremato sotto i colpi del terrorismo e delle trame, vere o presunte, che di tanto in tanto affioravano in un contesto sicuramente particolare come è stato quello italiano, soprattutto dagli anni settanta fino ai novanta del secolo scorso.
Del suo essere uomo di Stato Cossiga – ed è questa forse la sua particolarità più spiccata – è stato sempre consapevole. Spesso insofferente. Soprattutto, è stato consapevole delle difficoltà, a volte drammatiche, che questo ruolo comporta. È stato così non solo nella tragica ed epocale vicenda del sequestro di Aldo Moro ma anche in molte altre pagine della storia repubblicana. Cossiga era consapevole di far parte integrante di un sistema – in quel momento, a suo parere, l’unico possibile – che presentava nette contraddizioni. Le stesse che, una volta diventato presidente della Repubblica, volle additare in quella stagione nella quale, “togliendosi qualche sassolino dalle scarpe”, divenne per tutti il “picconatore”.
Visione d’insieme e capacità di proiezione sono dunque alcuni dei caratteri della figura di Cossiga uomo politico. La carriera del futuro presidente della Repubblica italiana è stata del resto un percorso dalle tappe consumate sempre in anticipo sui tempi: nato a Sassari il 26 luglio 1928, a soli 16 anni ottenne la maturità liceale. Quattro anni più tardi la laurea in giurisprudenza: da qui prese avvio la carriera universitaria che lo porterà al insegnare diritto costituzionale nell’università di Sassari. Ancora più fulminante il percorso politico: a 17 anni è già iscritto alla Democrazia cristiana, e a 28 ne diventa segretario provinciale. Due anni dopo, nel 1958, entra a Montecitorio. È il più giovane sottosegretario alla Difesa nel terzo governo guidato da Aldo Moro; nel 1976, a 48 anni, è il più giovane ministro dell’Interno; nel 1979 è il più giovane presidente del Consiglio; poi, il più giovane presidente del Senato nel 1983, a 55 anni, e il più giovane presidente della Repubblica nel 1985, a 57 anni, eletto alla prima votazione da una maggioranza di voti molto estesa (752 su 977).
La formazione politica di Cossiga – cattolico in possesso di una raffinata institutio culturale e ammiratore di pensatori come Rosmini e Newman – è radicata nel solco del cattolicesimo politico. Negli anni universitari fece parte della Federazione universitaria cattolica italiana con ruoli di primo piano nella sezione di Sassari e a livello nazionale. Nella Democrazia cristiana è rimasto fino al suo scioglimento; nel 1998 ha poi fondato l’Unione democratica per la Repubblica (Udr), nel tentativo di costituire un’alternativa di centro ai nuovi poli di sinistra e destra, a suo parere non sufficientemente capaci di fornire al Paese una guida solida come quella che, sia pure nel succedersi di Governi, la Democrazia cristiana aveva saputo assicurare nel corso di un intero cinquantennio.
Il pragmatismo e il realismo sono stati del resto le altre cifre caratterizzanti la figura politica di Cossiga. Nello scenario della divisione fra blocchi e della conventio ad excludendum a danno del Partito comunista italiano, Cossiga si trovò a gestire situazioni drammatiche, dalle contromisure in vista di un’eventuale affermazione del comunismo in Italia, al movimento del 1977, con i tragici incidenti di Bologna e Roma, a seguito dei quali dai contestatori fu introdotta per il suo cognome la grafia Kossiga con la doppia s runica della famigerata organizzazione nazista, con una trovata tanto facile quanto ingiusta.
La vicenda più tragica è però senza dubbio quella del sequestro e dell’assassinio del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, a opera delle Brigate rosse quando Cossiga ricopriva la carica di ministro dell’Interno. Di fronte alle richieste dell’organizzazione terroristica per la liberazione dello statista democristiano, come è noto, le istituzioni scelsero la linea della fermezza. A seguito dell’uccisione di Moro il 9 maggio 1978, Cossiga si dimise. Ma l’anno successivo fu nominato presidente del Consiglio, rimanendo in carica fino al 1980.
Cinque anni più tardi, nel 1985, arrivò l’elezione al Quirinale. Fino al 1990 lo stile di Cossiga fu in linea con quello dei precedenti capi di Stato. Dopo la caduta del muro di Berlino, lo statista divenne invece più incisivo nel denunciare, come si è accennato, alcune delle contraddizioni del sistema di quella che venne poi definita Prima Repubblica. Nel 1991, a seguito delle rivelazioni sull’esistenza dell’organizzazione segreta Gladio, il presidente fu fatto oggetto di una procedura di messa in stato d’accusa, che cadde poi nel 1993. L’anno prima, il 25 aprile, a due mesi dalla scadenza del mandato presidenziale, si era dimesso.
Da senatore a vita, esaurito il tentativo cui si è già fatto cenno, della costruzione di un’alleanza di centro, le sue preferenze hanno oscillato fra i due principali schieramenti politici che si contendono la guida del Paese. Nel 1998 aveva contribuito alla nascita del primo governo italiano guidato da un politico di formazione comunista, Massimo D’Alema, nel 2006 ha dato il suo appoggio all’esecutivo presieduto da Prodi mentre nel 2008 ha sostenuto quello guidato da Berlusconi, al quale aveva già dato la sua fiducia nel 1994. Sempre nel 2006 aveva presentato le dimissioni dalla carica di senatore a vita, ritenendosi “ormai inidoneo ad espletare i complessi compiti e a esercitare le delicate funzioni che la Costituzione assegna come dovere ai membri del parlamento nazionale”. Ma le dimissioni erano state respinte. A conferma dell’autorevolezza di un ruolo riconosciuto allo statista al di là delle divisioni politiche.
(©L’Osservatore Romano – 17-18 agosto 2010)