Stanchezza da integrazione di Paolo Pombeni
Editoriale I Luglio 2010
Di fronte alle crescenti difficoltà di ritrovare uno slancio comunitario tanto nelle opinioni pubbliche dei diversi stati europei quanto nelle loro dirigenze politiche qualcuno ha lanciato lo slogan della “stanchezza da integrazione”. L’obiettivo del grande mercato unico che avrebbe dovuto ad un tempo non solo garantire ma far crescere la prosperità europea ed allo stesso modo spingere alla crescita di un comune sentimento di cittadinanza non si sta realizzando che in parte molto ridotta. Più si allarga il mercato, più si guarda con interesse e talora con cupidigia alla creazione di un’area sempre più vasta di libero scambio (ed è emblematica in questo senso la posizione verso la Turchia accreditata di essere un ottimo mercato, mentre su tutto il resto esistono perplessità), meno si realizza quell’incremento di integrazione che avrebbe dovuto dare maggior forza e maggior importanza internazionale all’Unione.
Il fatto è che l’integrazione funziona sino ad un certo punto, complice anche la crisi economica internazionale che non è affatto finita. Tanto per cominciare l’integrazione è una fatica quando si devono fondere realtà tra loro molto differenti e molto distanti e non funziona quando si devono omogeneizzare situazioni che stanno sotto l’ombrello delle varie sovranità nazionali. Si veda, solo per citare il caso più eclatante, il problema che genericamente si potrebbe rubricare come problema della «corruzione». Certo ci sta dentro di tutto, da quelli che rubacchiano su sussidi agricoli di vario genere, a quelli che distorcono l’uso appropriato dei fondi comunitari, ma quando si vuole incidere sul malcostume non ci si riesce quasi mai. In conseguenza non è facile convincere i paesi più forti a fare come in passato le “locomotive”. Oggi sul banco degli imputati c’è la Germania di Angela Merkel che farebbe dei passi indietro, come accusa su «Die Zeit» l’ex cancelliere Helmut Schmidt, rispetto alla vocazione di essere al centro dello sviluppo europeo in asse con la Francia. In conseguenza sulla stampa tedesca ci sono i primi sintomi di un incubo da accerchiamento: si lamenta che nell’opinione pubblica europea sia tornata la sindrome del “cattivo tedesco”. Il fatto è che il cancelliere Merkel è restio a forzare la mano ad un paese che ha una economia in grande espansione, ma che non è intenzionato a metterla al servizio di un sistema europeo dove abbondano i membri scapestrati assai poco disponibili ad accettare un serio controllo sui loro comportamenti. Così si arriva ad un inaridimento del sistema reale di governo dell’Unione, dove ormai il vecchio dibattito fra fautori del “metodo comunitario” e fautori del “metodo intergovernativo” ha il sapore di una diatriba di scuola che non porta lontano. Purtroppo la nuova forma di governance al momento non è servita a molto. Il presidente Van Rompuy non avrebbe grandi difficoltà a convivere con la perdurante rotazione semestrale di presidenze fra gli stati membri, visto che quella appena conclusa della Spagna era piuttosto scialba e quella del Belgio che entra in vigore adesso fa capo ad un paese che non ha neppure un governo (anzi dovrà aspettare presumibilmente sino ad ottobre per averlo). Nonostante questo, al momento non si sono visti non diremo colpi di teatro (che peraltro in politica ogni tanto ci vogliono), ma nemmeno una per quanto modesta occupazione saltuaria della scena pubblica. La baronessa Ashton, Alto Commissario per la politica estera, ha messo in piedi un faraonico servizio diplomatico di 6000 persone, ma, se si dovesse dire a che scopo, qualche problema non mancherebbe. La baronessa si è stizzita della bassa considerazione di cui gode ed ha rilasciato una intervista molto “British” al «Financial Times» per lasciar intendere che sì, lei sarà anche una neofita, ma nessuno potrebbe far molto di più. Sarà vero sul piano dell’azione (forse), ma certo almeno sul piano della comunicazione fare meglio non sarebbe poi così difficile. In un contesto del genere si rischia che le cose vadano avanti per inerzia: così per i negoziati di ingresso della Croazia, così per quelli che si prospettano per Islanda e Macedonia, così per le stiracchiate trattative con la Turchia (per la curiosità del lettore: stanno negoziando il 13 capitolo su 35, quello che riguarda la sicurezza alimentare). Peccato che mentre i funzionari si occupano di queste raffinate questioni, nei circoli più avvertiti si discute, anche con qualche preoccupazione, della nuova posizione internazionale della Turchia che sembra muoversi in una prospettiva che viene definita efficacemente come prospettiva «neo-ottomana». Certo si tira un sospiro di sollievo per la vittoria in Polonia di Komorowski, politico europeista, ma non basta, perché ci vuole qualcosa di più perché anche lì non prevalgano le tentazioni integraliste che sono solidamente impiantate e che sono tutt’altro che sconfitte.
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