L’Europa 60 anni dopo la dichiarazione di Schuman di Michele Marchi
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È un anniversario particolare questo dei 60 anni dalla Dichiarazione Schuman, atto di avvio di quel ricco e tormentato percorso di integrazione che ha condotto all’attuale Unione Europea. Ventisette Paesi membri (e altri sarebbero pronti all’ingresso), quasi 500 milioni di abitanti, oltre 4 milioni di chilometri quadrati di superficie e, ad oggi, lo spazio economico più importante al mondo. Chi avrebbe scommesso in un’evoluzione di questo genere il 9 maggio 1950, poco dopo le 18 nella sala dell’Orologio del Quai d’Orsay, dopo aver ascoltato le parole dell’allora Ministro degli Esteri francese Robert Schuman? Ebbene, il 9 maggio 2010 la costruzione europea ha vissuto il suo “giorno più lungo”, con i ministri delle finanze dell’Ecofin che, dopo una lunga maratona notturna e i frenetici colloqui tra i principali capi di Stato e di governo e il presidente americano Obama, hanno varato il primo pacchetto di aiuti salva-Grecia e soprattutto sono scesi in campo per offrire tutto il sostegno possibile alla moneta unica.
Non si vuole in questa sede riflettere sull’entità del cosiddetto “salvataggio”, né sui ritardi in larga parte dovuti a ragioni di politica interna ai principali Paesi membri. Il punto sul quale ci si vuole soffermare è un altro. Che il momento più critico dell’attuale crisi della costruzione europea e del suo successo più eclatante, la moneta unica, sia avvenuto in corrispondenza del sessantesimo anniversario del suo atto di nascita impone una riflessione sulla dimensione storica del percorso di integrazione europea. Ritornare, anche se brevemente, sulle peculiarità storiche di quel maggio 1950 può forse aiutare a riflettere sulla “lunga crisi” che il processo di integrazione europea vive perlomeno da un ventennio. Una crisi di adattamento, apertasi all’indomani del crollo del muro di Berlino. Una crisi politica, surrogata con il tentativo di imporre il primato dell’economico prima e dell’istituzionale poi. Una crisi ancora più clamorosa se si pensa che, dalle troppo ottimistiche valutazioni di chi era arrivato a prospettare un XXI secolo come “secolo europeo” (Mark Leonard, 2006), si è oggi giunti a parlare di “fine dell’Europa” o “declino inevitabile” (Richard Haass, 2010). Perché è allora fondamentale ripartire dalla Dichiarazione Schuman? Lo è innanzitutto perché quando il 1° maggio 1950 Robert Schuman scese dal treno che lo riportava a Parigi, dopo un week-end trascorso nella sua terra d’origine (quella Lorena che aveva vissuto quasi un secolo di guerre franco-tedesche), e annunciò al suo capo di gabinetto: “ho letto il testo del progetto: potete dire a Monnet che procederò”, tutti gli elementi tipici del decisivo tornante storico erano presenti. Un progetto per avviare concretamente la riconciliazione franco-tedesca (garanzia di pace intra-europea). Allo stesso tempo un progetto per controllare, gestire ed incentivare la produzione e il commercio di carbone e acciaio (garanzia di una rapida ricostruzione e di un futuro benessere). Il maturare di un’evoluzione storica che, dal rifiuto di Mosca di partecipare al Piano Marshall fino all’esplosione della prima bomba atomica sovietica, aveva sgomberato qualsiasi dubbio sulla necessità che i Paesi dell’Europa occidentale prendessero definitivamente posizione nella Guerra Fredda oramai esplosa. Infine una leadership politica, quella francese nella figura di Schuman, pronta a farsi carico politicamente dell’iniziativa e a condividere ben presto questa responsabilità con le altre principali leadership nazionali dell’Europa occidentale. Insomma negli 8 giorni che dal 1° maggio condussero al fatidico momento della Dichiarazione (giorni di colloqui discreti e riservati, nel corso dei quali spicca per importanza il via libera americano dopo l’incontro Acheson-Schuman e la lettera di quest’ultimo ad Adenauer, meno di 24 ore prima dell’intervento pubblico) giunse a compimento un percorso di riflessione e analisi della congiuntura europea post-bellica. Preso atto del nuovo clima di Guerra Fredda, Parigi e Bonn sceglievano la via europea per compensare le loro rispettive debolezze (economica per la Francia e politica per la Germania) e per garantirsi quel Welfare State diffuso che di lì a pochi anni avrebbe fatto parlare, per l’Europa occidentale, di democrazie del benessere. Ebbene, facendo attenzione a non peccare di determinismo storico, è difficile contraddire chi vede nella Dichiarazione Schuman quella “riserva di energia” che ha condotto l’integrazione europea da embrione franco-tedesco ad unico esperimento riuscito di organizzazione sovranazionale a dimensione globale. È ugualmente difficile, però, contraddire chi, a 60 anni di distanza, invoca una nuova ripartenza, magari una “nuova dichiarazione” in grado di tracciare le coordinate per un’azione che, per forza di cose, dovrà porsi in discontinuità rispetto perlomeno all’ultimo decennio. Il tema più à la page nell’attuale congiuntura di crisi è quello del cosiddetto “governo economico” dell’Europa.
I più autorevoli europeisti, da Delors a Prodi passando per il presidente della Repubblica Napolitano e l’ex ministro degli esteri tedesco Fischer, hanno sottolineato i vizi d’origine dei quali soffre, oggi in maniera eclatante, in particolare l’area euro. Nessun futuro per un’unione solo monetaria, peraltro regolata malamente da un Patto di stabilità senza guardiani e fondata su una “strategia di crescita” (la cosiddetta strategia di Lisbona) avanzata solo teoricamente. Bene, questo è senza dubbio chiaro e l’attuale rischio default che si aggira per l’Europa, pronto a contagiare PIGS e non, potrebbe davvero condurre a qualche riforma virtuosa. Ma esiste anche un dato sistemico troppo spesso trascurato, comprensibile meglio proprio partendo dalla Dichiarazione Schuman, una proposta che oltre alla sua lungimiranza e completezza aveva un’altra caratteristica indispensabile: era profondamente in sintonia con il proprio tempo. Ecco il nodo della questione, il punto nel quale si è probabilmente inceppato il meccanismo virtuoso di integrazione europea. I leader nazionali e comunitari protagonisti del percorso di integrazione europea hanno sufficientemente preso atto della fine della Guerra Fredda e della necessità di un suo complessivo recentrage? È certamente giunta la risposta all’imperativo “storico” dell’allargamento e si è poi pensato di trovare soluzione al deficit democratico nella riforma delle istituzioni. L’Europa unita del post ’89 ha vissuto su un paradosso: continuare a pensare in grande, agendo in piccolo. Ha scelto di procedere accentuando una discrasia sempre più netta tra un’Europa dei desideri (sempre più larga e sempre più istituzionalmente riformata) ed un’Europa della realtà, fatta di un profondo e costante allontanamento delle opinioni pubbliche dall’ideale di integrazione (basti considerare i clamorosi “no” referendari francese, olandese e irlandese ma anche i livelli scandalosamente bassi di partecipazione alle elezioni per il Parlamento di Strasburgo) e di una progressiva marginalizzazione dallo scenario globale, dominato dalle potenze cosiddette emergenti. Emblematico il caso del logorante “decennio costituzionale”, con la montagna che ha partorito un topolino. Non solo e non tanto perché il Trattato di Lisbona sia così differente dall’originario Trattato costituzionale, quanto per le nomine successive alla sua entrata in vigore. Si è più volte fatto riferimento alla riflessione storica e dunque, anche sull’attuale congiuntura, solo la distanza temporale permetterà giudizi meno affrettati e più attendibili. Sulle prospettive poco o nulla si può dire. Sui mali evidenti è però difficile tacere. Almeno cinque sono palesi. Un accentuato nazionalismo (economico e non), l’assenza di leadership comunitarie forti ed autorevoli, l’assenza di prospettive di crescita economica, un preoccupante crollo demografico e una dilagante sindrome da “demilitarizzazione”, che condanna la UE ad un ruolo secondario nelle principali aree di crisi. Monnet, proprio commentando la Dichiarazione che aveva preparato per Schuman, amava ricordare che “l’Europa si farà dalle crisi o non si farà”. Oggi la situazione di crisi è sotto gli occhi di tutti. Al contrario, sembra assente chi dovrebbe interpretare la crisi stessa e chi dovrebbe essere in grado di trasformarla da rischio in opportunità. Insomma 60 anni dopo il 9 maggio 1950, l’Europa appare alla ricerca di un nuovo Monnet e di un nuovo Schuman.
Michele Marchi (Università di Bologna)
Grazie alla cortesia di Elisa Bortolotti, Segreteria Centro Studi Progetto Europeo Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna elisa.bortolotti@fondazionecarisbo.it, possiamo pubblicare il contributo di Michele Marchi. Numerosi contributi periodici possono leggersi in http://www.europressresearch.eu link indicato tra i siti utili nella nostra home page. (A. T.)