Novembre di Giovanni Pascoli a cura di Ange de Clermont
Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…
Ma secco è il pruno e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno; solo, alle ventate
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cadere fragile. E’ l’estate,
fredda, dei morti.
Questa poesia mi richiama alla mente nostalgie del passato. Ero in Piemonte la prima volta che l’ho studiata anche a memoria e avevo modo di notare quanto le parole del Pascoli s’inserissero in quel paesaggio alberato ormai spoglio. In quella tristezza padana visitavamo i cimiteri dove la gente si affaccendava a collocare i crisantemi sulle tombe dei defunti. Qualche raggio di sole poteva darti l’illusione della primavera, ma il freddo pungente ti toglieva ogni illusione. In quel contesto cresceva la nostalgia del mio paese lontano, oltre il mare, dove sul tumulo cimiteriale di mio padre non potevo posare un fiore, correvo poi con la fantasia al campo n. 5 del cimitero della città tomba 101 dove riposava mia madre e anche lì una tomba non visitata senza un fiore. Non capivo perfettamente che una preghiera di suffragio sarebbe stata di conforto per i miei genitori scomparsi prematuramente. La lettura della poesia del Pascoli ancora oggi suscita in me questi ricordi e infonde nel mio cuore una sottile tristezza. Mi porto da una vita questo vuoto incolmabile che i platani spogli del viale che tutti i giorni attraverso cercano invano di confortare. E in questa malinconia novembrina si adagia la mia anima di uomo dall’età ormai calante.