Mio nonno domatore di puledri di Antonio Maria Murgia
Ricordo che mio nonno veniva a sas Baddes per domare il puledro di mio padre. Egli vestiva sempre in costume sardo con la sua berretta frigia, con camicia bianca, corpetto con tanti bottoni ai due lati; giacca e pantaloni tutti dello stesso colore scuro, scarpe alte chiodate e rampini salvapunte.
Egli si avvicinava al puledro, gli passava dolcemente in bocca la mordacchia con le briglie e quindi lo costringeva, nel migliore dei modi, a percorrere un certo tragitto in linea retta, dopo vari giri, lo faceva sostare per mettergli la sella (sotto cui piazzava una piccola trapunta) e gli faceva rifare il percorso, successivamente faceva accostare il puledro ad un masso, da cui prendeva lo slancio per sedersi in sella e con dolcezza, nonostante le resistenze e gli scalciamenti del puledro, lo costringeva a rifare il percorso costellato da vari alberi di pero.
Per me che guardavo tutta la sua abilità nel gestire il puledro era uno spettacolo insolito, mi tenevo a debita distanza dal percorso e aspettavo che cavallo e cavaliere sbucassero tra un albero e l’altro entrambi fieri dei risultati ottenuti. Infine mio nonno si fermava, scendeva dalla sella, faceva sostare il puledro accanto ad un pero, coglieva le pere e le offriva a me, al puledro, e infine le mangiava anche lui.
Io mi sentivo orgoglioso di avere un tale nonno domatore di cavalli.
Il maiale da ingrasso
Nonno veniva da noi in campagna nel mese di dicembre, per uccidere il maiale da ingrasso. Ricordo che di buon mattino mia madre e mio padre, accendevano un grande fuoco, in seguito sistemavano il paiolo di rame vuoto, sui tre piedi “tribide,” e lo riempivano di acqua attinta dal fiume Giunturas, trasportata con un grosso recipiente di ferro smaltato, su lamone. Mia madre ed io, scendevamo il sentiero fino al fiume, dove scorreva acqua limpida e pulita, si riempiva il contenitore e si tornava a casa. Nel trasportare l’acqua in testa, per non perderla per strada, vi immergeva dei rami verdi di lentisco, strappati alla macchia, per agevolarne il trasporto, dando equilibrio al contenuto. Per non farsi male alla testa, usava da protezione una ciambella di stracci, su tidile, su cui veniva appoggiato il grosso contenitore pieno di acqua, per poi essere portato a destinazione. Il paiolo al fuoco ogni tanto si riportava alla temperatura d’uso, per essere pronta all’utilizzo del lavoro di ripulitura delle setole del maiale. Si faceva grande attenzione alla temperatura dell’acqua per non causare scottature alle mani dei raschiatori della cute, sa pedde, del maiale.
Mio nonno, Antonio Maria Murgia, con l’aiuto di mio padre e del servo pastore, uccideva il maiale, che veniva immobilizzato, legato bene ai quattro piedi con corde idonee, procedendo a trafiggerlo sotto il collo, mirando al cuore della bestia. Di solito veniva colpito con un punteruolo o con un lungo stiletto. Una volta eseguita l’operazione si toglieva l’utensile e si raccoglieva il sangue. Con l’utilizzo di un bastone si girava bene il sangue caldo che scorgava, impedendo che si concentrasse in grumi. Con costante insistenza si girava fino alla fine del procedimento tenendolo ben diluito. Per agevolare l’operazione di scannamento, il maiale veniva sollevato e deposto su alcuni massi in posizione rialzata, così si facilitava la raccolta del sangue e il lavoro di pulitura. Il maiale senza vita, dopo aver perso tutto il sangue, veniva slegato dai lacci, ed era pronto per essere passato alla fiamma, usciadu, cioè abbruciacchiato. Prima di passarlo alla fiamma si procedeva a togliere le setole più lunghe e resistenti, che di norma venivano prelevate dal collo della bestia, e venivano conservate accuratamente per l’utilizzo in vari lavori di cucitura di cuoi, come pellame di uso comune. Le setole che si usavano per la cucitura venivano preparate da mani esperte, spaccate all’estremità del bulbo e intrecciate alla punta di uno spago e consolidate con la pece, formando un unico filo. Per cucire la pelle, si forava con un punteruolo, sa sula, e si procedeva a far passare lo spago sul foro praticato per ottenere l’unione delle pelli. Si cuciono le corde di cuoio, dette soghe, selle per cavalli, scarpe, stivali, collane per campanacci da pecora, di capra, di mucca, borse in pelle, zainetti e tascapane, tanti oggetti utili all’uso domestico.
Il sangue raccolto veniva insaccato nell’intestino medio che, una volta legato ai due estremi, si immergeva in acqua bollente per consolidarlo, quindi si immergeva nell’acqua fredda per essere conservato. Inutile dire della bontà del sanguinaccio, vero e proprio cioccolato ante literam. La pianta che si usava per la bruciatura dei peli del maiale, su laturighe siccu, era la più adatta per dare alla cute del maiale un colore dorato, e conservare buoni sapori. Questa meravigliosa pianta che da verde contiene lattice ustionante, alle cime dello stelo fiorisce, mentre lungo lo stelo tra i suoi anelli spuntano delle foglie a forma goffa di cavolo. Dallo stelo verde quando si spezza con le mani fuoriesce del lattice. Questa curiosa pianta si racchiude, come se volesse avvertire i passanti: “passate lontano da me, che posso provocare ustioni.”
I bracconieri di acqua dolce la usano per la pesca di frodo, inquinando l’acqua, e i pesci, storditi, muoiono. A questo punto i pesci morti per soffocamento, risalgono in superficie, e cosi vengono pescati per essere mangiati dai pescatori di frodo, e da gente del loro ambiente familiare.
Il maiale pulito veniva adagiato su una scala di legno, legato a gambe posteriori in cima alla scala ed in seguito sollevato di peso e appoggiato al muro di casa. In seguito si procedeva allo squartamento del maiale ancora caldo con un coltello a punta, veniva aperto dall’alto, dalla coda alla testa. Da prima veniva asportata la cistifellea, si procedeva all’estrazione del fegato, del polmone, del cuore, dei rognoni, della milza, dei nodini, e di tutte le budella avendo accortezza di raccogliere il restante sangue, rimasto all’interno del corpo del maiale.
La parte ossea veniva aperta con l’utilizzo di una scure, centrando al midollo spinale, fino alla testa. E’ bene far eseguire la macellazione da mani esperte, de bona manuza, perché le carni risultino di buona qualità, e conservino buon gusto. Si diceva che i più qualificati ai lavori erano le persone, che avessero avuto il dono di macellazione, altrimenti le carni non risultavano buone; la carne deve presentarsi di colore rossiccio, non scuro. Il maiale squartato in due dopo asciugato, veniva portato in casa per essere disossato, si deponeva sopra il tavolo e si procedeva a staccare dalla carne il lardo, che veniva trasferito arrotolato sopra un altro tavolo. Poi si procedeva al taglio del dorso che veniva messo da parte sopra il tavolo del lardo, per poi essere sezionato in parti uguali, riservate per essere donate ai conoscenti, ad esempio a mio nonno che aveva diretto l’operazione consuetudinaria. Si continuava a separare la carne idonea per le salsicce, le costole venivano messe da parte sullo stesso tavolo del lardo e dello spinale in attesa di lavorazione.
La carne riservata alle salsicce veniva tagliata a pezzi piccoli per essere condita, mentre la parte grassa veniva tagliata a pezzi piccoli e messa nel paiolo, per poi passarla al fuoco, che col calore scioglieva il grasso per la produzione dei ciccioli. Dopo che il grasso era sciolto, si prelevavano con un mestolo forato le scorie del grasso, per essere utilizzate nelle saporite focacce, condite con uva passa, sale e aromi che si usano in parte al condimento delle salsicce. La carne riservata per le salsicce veniva mescolata con degli aromi: noce moscata, semi di finocchio selvatico, spezie, sale. Il giorno dopo veniva insaccata. Nella fase di insaccatura la salsiccia veniva forata con una spilla, per espellere l’aria; infine venivano appese all’affumicatoio.
Il budello di grosso diametro, appartenente allo stesso maiale, si usava insaccarlo e legarlo con spago ai due estremi. Mio nonno la sera andava via, contento del suo lavoro, salutandoci, a un ater’annu mezus, si spera di far meglio al prossimo anno. Mia mamma le consegnava la parte di spino, con aggiunta di carne fresca, nell’istante della partenza gli augurava di tornare a casa tranquillo, “andade in bon’ora.”
Mio nonno era un tradizionalista, uomo di poche parole, rigoroso osservante delle consuetudini, sempre impeccabile in costume sardo. Era uomo di poche parole, rispettoso con tutti fuorché con le persone sgradite alle quali dava il nomignolo di lacaiu, ovvero sia lacchè. Detestava le persone che non si davano da fare nella vita, le vedeva come gente persa, che era buona a vivere sulle spalle altrui, senza nessun riguardo e rispetto al sacrificio del prossimo che veniva deriso e considerato un debole.