I. Le esequie di Giuanne Ispanu di Ange de Clermont
Premessa
Dopo La maschera dalla gonna capitina, su Ztaramonte.it, in fase di pubblicazione cartacea, il nostro Ange de Clermont, ci spedisce questo romanzo intitolato Il marchio dalla protòme taurina .
I . Le esequie di Giuanne Ispanu
Correva l’anno del Signore 1878, il giorno 20 giugno alle 10, nel rione Castello in Càlleri si celebravano solennemente i funerali del grande vecchio Giuanne Ispanu.
Un faro di sapere si era spento nel suo studio mentre analizzava con la lente una navicella con macaco che aveva rinvenuto presso il nuraghe Ispiene nel territorio di Miramonti.
L’illustre vecchio aveva reclinato il capo lasciando cadere sulla scrivania statuaetta e lente. I servitori lo avevano adagiato sul letto e dopo la visita del protomedico, avevano avuto l’ordine di predisporre il defunto per l’ultimo viaggio.
La salma fu rapidamente sottoposta alle procedure dell’ultima igiene, rivestita dei paramenti della sua dignità canonicale e accademica, ed esposta dentro una bara di noce al centro della cattedrale.
Così come aveva sempre desiderato, dentro una navicella, anche la sua anima grande era migrata verso il sapere eterno.
Con tutti i mezzi possibili di locomozione, tradizionali e recenti, dall’intera isola di Zerdenia si mossero studiosi e dignitari, parenti amici ed estimatori, mentre dalla Penisola Vitaliana giungevano lettere numerose che niente aggiungevano alla grandezza dell’uomo affamato di sapere e mai pago d’indagare sul territorio della sua amata isola con escursioni continue nella penisola e in corrispondenza con le teste pensanti non solo di Vitalia, ma anche dell’intera Europa, compresi illustri e spigolosi discendenti delle tribù germaniche.
Giuanne Ispanu era pure lui un mortale e visto che era giunta la sua ora se n’era andato all’ultima dimora avviluppato dalle passioni che avevano mosso la sua movimentata esistenza.
Passato il triduo, l’arcivescovo di Càlleri, in pompa magna, con uno strascico di dieci metri, circondato dai canonici rivestiti di rosse mozzette, era giunto dal vicino episcopio, accompagnato da una processione di numeroso clero, seminaristi, autorità e popolo.
Il ritornato alla casa del Padre dello studioso del resto aveva ben meritato questo solenne commiato dalla valle di lacrime.
Il coro della cattedrale, primo tempio indiscusso dell’Isola, all’ingresso dell’arcivescovo aveva intonato il requiem aeternam e quindi il rito era andato avanti lento e solenne con tanto incenso e ondeggianti canti gregoriani fino al Dies irae che invece venne cantato da un solista e da un coro polifonico in modo plateale così come lo sarà un giorno nella valle di Giòsafat.
Dies irae dies illa/ solvet saeculum in favilla/ Quantus tremor est futurus/ quando iudex rex venturus/ Liber scriptus proferetur /in quo totus continetur/ unde iudex iudicetur. /Salva me fons pietatis/ qui salvandos salva gratis.
Giorno d’ira, sarà quel giorno/il mondo brucerà come fuoco./Quanto terrore ci sarà/ quando starà per giungere il Giudice/ Sarà aperto un libro/ dove saranno già scritte le colpe/ per le quali ciascuno verrà giudicato./ Salvami Fonte di pietà/ Tu soltanto potrai salvarmi non badando ai miei peccati/.
Clero e popolo divennero più seri a queste parole e quasi tremarono quando il baritono annunciò con voce tonante l’arrivo del Giudice. Tutti rividero la scena del giudizio finale di Michelangelo e quelli che stavano alla sinistra della cattedrale, si pentirono d’aver occupato quel posto. Non si sa mai, avrebbe potuto essere il preannuncio di un destino fatale.
Letto il Vangelo, l’arcivescovo prese la parola e comincio:
– Clero e popolo, autorità laiche e religiose, l’uomo che vedete rinchiuso in quella bara non solo fu grande, ma fu grandissimo. Spese la sua vita per il sapere, non si esaltò più di tanto per le medaglie e gli onori conferitigli. Nei momenti del conferimento, ai vicini sussurrava:
-Qui mi fanno perdere tempo prezioso, ho da completare gli scavi e il vocabolario; ho da rispondere ai miei amici studiosi. Questi onori non potevano essere madati per posta?-
S’imbarcò per la Penisola uno straordinario numero di volte e altrettante ritornò nella sua isola.
Varie volte corse il rischio di naufragare dal momento che comunque doveva imbarcarsi pur di giungere a destinazione. S’imbarcò per il Continente da tutti i porti dell’Isola, sicuri o insicuri che fossero. Iddio lo aveva davvero protetto dalle perfide insidie del mare.
Il Signore gli aveva dato dieci talenti ed egli li ha fatti fruttificare con il suo aiuto cento volte tanto. La sua vita è stata spesa per il sapere, ma non ha mai dimenticato di celebrare la santa Messa, non ha mai cessato di confessare e ha sempre recitato il breviario, aiuto sostanziale di ogni buon chierico. Si è speso per ogni genere di studio e di didattica, da quella delle scuole elementari a quella universitaria. Ha dato fondamento alla Biblioteca Universitaria, al Museo Archeologico, alla Lingua Nazionale della Zerdenia, per soffermarci solo alle opere più note.
Giuanne Ispanu era pure lui un peccatore: era ossessionato di non raggiungere le mete che si era prefissate, a volte era sbrigativo con le persone per le troppe cose che aveva da fare. Non badava a perdere tempo soltanto quando doveva risolvere questioni della gente in affanno.
Mentre suffraghiamo la sua anima, chiediamo al Signore che lo accolga in Paradiso! Amen-
Il rito nella cattedrale ebbe termine con il canto in paradisum deducant te angeli.
La processione si diresse al cimitero monumentale della città, mentre i partecipanti venuti da lontano, s’incamminarono verso le postazioni dei loro veicoli.
Numerosi i rappresentanti dell’Anglona e del Logudoro: barraghesi e miramontesi non erano stati assenti alle esequie, specie quella decina di allievi che l’illustre prelato aveva addestrato durante gli scavi e che si erano meritati i soprannomi di archeologos de Cabu de Susu. Tra costoro c’erano Luisi Pelina, Giosi Zatta, Pedru Fae di Barraghe; Andria Galanu, Antoni Pedde, Giuanne Malta e Giuanne Luisi Carra, il più giovane, di Miramonti; Istevene Galia, Peppinu Peigottu di Zerfuga; Bainzu Corsu di Laoru. I vulvuesi, in litigio, per i soliti problemi non erano riusciti a mandare una rappresentanza anche se pure tra di loro c’era qualche archeologu sardu illustre.
I barraghesi viaggiarono con la carrozza di Luisi Pelina, pur cambiando i cavalli in quattro poste concordate; i miramontesi sulla carrozza di Andria Galanu, benestante e proprietario di più carrozze. Anch’essi avevano concordato il cambio dei cavalli alle varie poste. La stessa cosa avevano concordato zerfughesi e laoresi, un volta tanto concordi.
Il lungo viaggio portò sos archeologos de su Cabu de Susu a discutere del loro maestro, concorrendo ciascuno a richiamare episodi e aneddoti degli scavi. Non sempre erano d’accordo sul giudizio complessivo dell’uomo Giuanne Ispanu, ma erano concordi sull’archeologo: scrupoloso, onesto e competente. I più esperti fra di loro come Luisi Pelina di Barraghe, Andria Galanu di Miramonti, Istevene Calia di Zerfuga badavano ad essere attenti al territorio e ad andarci con prudenza nelle varie congetture sul passato, Giuanne Malta e Giuanne Luisi Carra che erano riusciti a strappare meritatamente da Giuanne Ispanu un titolo onorario di sovrintendente del loro territorio parlavano più sbracatamente quasi a soverchiare gli altri che ai fatti risultavano non meno competenti e laboriosi.
I miramontesi, dotati di cavalli di buona razza, riuscirono a raggiungere prima degli altri le locande di Ogristani e le relative poste per il cambio-cavalli, cosi in dieci giorni riuscirono a raggiungere i loro paesi in Anglona, gli altri seguirono con qualche giorno in più.
Accolti in paese a s’istradone raccontarono del funerale in pompa magna e delle personalità presenti a Càlleri. I notabili li invitarono a cena e si fecero dire per filo e per segno in che modo quella montagna d’intelligenza fosse stato accompagnato e sepolto nella capitale della Zerdenia.
Matteu Brancone e Giosi Balchi furono tra i più curiosi, mentre gli altri notabili che avevano brigato con Giuanne Ispanu non organizzarono cene, ma cercarono di succhiare notizie fingendo scarso interesse. Sas domos de Janas e sos nuraghes non sarebbero stati in pace come i vecchi villaggi medievali perché si annunciava l’arrivo di un certo Tarraméllo, a quanto pare bravissimo archeologo medievale, continentale e pure amico del defunto. In attesa tutti avrebbero continuato a lavorare, a tempo debito, nei vari siti del territorio. Anche fra costoro vi erano invidie e sconfinamenti di territorio: un sito scoperto dall’uno diventava un dolore lancinante per l’altro tanto la brama delle antichità li consumava. Vi era in essi una certa libidine maniacale al punto che qualcuno in certi momenti aveva avuto il desiderio di far fuori qualche altro, sparando dietro un muretto a secco. Per fortuna erano buoni cristiani e i confessori assolvendoli dai cattivi pensieri avuti, ripetevano loro di frenare gli appetiti delle scoperte che di certo, in punto di morte, non potevano portare all’aldilà.
Cercando e ricercando erano passati dieci anni dalla morte di Giuanne Ispanu e si era giunti al maggio del 1888, allorché a Miramonti, grazie al lascito di donna Fulgenzia Pidde, era stata consacrata la nuova chiesa parrocchiale dedicata alla Santa Croce e a San Matteo, visto che la vecchia chiesa sul monte, tra fulmini e incuria, negli ultimi tre anni era andata deteriorandosi.
– Una cosa è officiare lassù e metterci l’anima per salire, un’altra cosa è officiare al centro del paese. Credo sia stata una scelta intelligente abbattere l’oratorio di Santa Croce e costruire questa ariosa parrocchia nel cuore del paese, giusto nella piazza che porta a s’istradone dove transitano forestieri, mezzi e animali da trasporto per tutte le destinazioni.-
Così sosteneva il vicario contro quell’anarchico frammassone di tiu Nanneddu, che pur mangiapreti e contro la chiesa, amava di tanto in tanto attaccare il clero su episodi di cui avrebbe fatto bene a non interessarsi, visto che pare avesse venduto l’anima al diavolo, secondo le beghine. Anima mia libera!
Miramonti, lo si è già detto nella triste storia di quell’assassino che si era travestito come una vulvuese dalla gonna capitina, compiendo ben tre delitti, stazionava come un gregge nella zona sud di quel colle di quasi 470 metri sul livello del mare dove a metà del Trecento i Doria di Genova avevano costruito un castello, finendo per mangiarsi tutte le ville medievali che erano disseminate intorno. Avevano battezzato la fortezza Miramont, in omaggio ai loro compari catalani, che s’erano imbarcati per la Zizilia, a dare una mano al re che aveva concesso loro dei buoni feudi in terra iberica.
Abituati fin d’allora a rifornirsi abusivamente a valle di pecore e capre, ma non guardavano in faccia nemmeno ai bovini, s’erano presi il soprannome di ladroni da parte dei paesi dirimpettai di Murtis, Vulvu, Laoru e Zérfuga.
L’ubicazione del loro borgo, costruito quando il castello era andato in disuso, aveva generato la loro professionalità appena mitigata dalle capacità di reazione dei centri a valle. Ruba oggi e ruba domani fatto sta che il loro territorio si era esteso per oltre cento chilometri quadrati, divenendo il più esteso territorio comunale dell’antica curatoria dell’Anglona, donata dai re di Spagna alla famiglia dei principi d’Olivas. Più tardi, passata la Zerdenia ai principi di Pedemonte, e chiuso con i feudi, la Commissione aveva rifornito gli abitanti, partendo dai più poveri, di un pezzo di terreno per il pane, ma la parte più grassa, a detta di coloro che la storia la scrivono contro i ricchi, questi ultimi s’erano già presa la parte più vasta e migliore del territorio.
Poi le cose si erano ulteriormente imbrogliate e usurai e notai avevano scombinato tutte le buone intenzioni del re che, pensando di diventare il re di Vitalia, poco si era curato dei ladri fra i ladri e, sempre secondo quello che raccontavano nel botteghino del vulvuese in Piatta:
– Il pesce grande, mangia il pesce piccolo!-
Molti erano rimasti senza la terra per il pane e dovevano andare a lavorare a giornata, quando c’era il lavoro e se no, a cercare fortuna oltre l’Oceano, che doveva essere un lago cento volte la conca di Puttugonzu, a detta di tiu Cicciu Trau. Purtroppo pochi credevano alle battute di questo calzolaio burlone che odiava i ricchi come il peccato, ma che svuotava le botti entro dicembre di ogni anno, ad appena 30 giorni dalla degustazione.