Charles de Gaulle di Brizzi e Marchi, di Angelino Tedde
La stagione di Charles de Gaulle, almeno la seconda, (1955 -68), ho avuto modo di seguirla come un qualsiasi studente che frequentava gli studi liceali e poi quelli universitari, in parte nell’Isola in parte nella Penisola, e che si interessava di come andassero le vicende nel mondo soprattutto in Italia e in Europa. Come di consueto in Italia e in Francia, nella seconda ascesa al potere di De Gaulle, gridavano tutti al lupo al lupo o meglio al dittatore al dittatore. Leggevo con fastidio la stampa e al tempo stesso apprezzavo i francesi che, richiamandolo dagli ozi memorialistici, mettevano fine al teatrino della IV Repubblica, per affidarsi al cosiddetto sistema presidenziale e non ho mai creduto che De Gaulle potesse trasformarsi in un dittatore a lungo termine così come paventava la categoria dei giornalisti ipersensibili e ai limiti dell’allucinazione e dei politici nostrani loquaci e inconcludenti. Invidiavo i francesi che con un giro di boa riuscivano a risolvere il problema della governabilità di uno Stato, mentre da noi con eterne mediazioni, concertazioni, suggerimenti dei sacri mostri del giornalismo si stagnava negli acquitrini delle urgenze. Da noi, a parte i quattro anni di governo di Bettino Craxi, (il cui decisionismo ho sempre apprezzato e la cui figura, a dispetto di quelli che, anche oggi lo detestano, io ho sempre svisceratamente ammirato), continuava il teatrino democristiano e degli alleati di governi che, a ben andare duravano tre, sei, nove mesi con uno spreco di risorse umane e finanziarie da capogiro.
Ritornando a De Gaulle ricordo che di lui non apprezzai mai l’ingratitudine verso gli Usa e il Regno Unito che bene o male avevano dato un forte contributo alla liberazione della Francia dai tedeschi; non apprezzai l’affossamento della CED, proposta dai padri dell’Europa, la cui unione si è sviluppata come un matrimonio poliandrico con mariti di volta in volta prevalenti dei quali la poveretta continua a subire gli abusi.
L’altro elemento che mi disturbava era la sua anacronistica grandeur e la pur temibile force de frappe; le sue aperture alla Russia e alla Cina più che altro per offrire un antipasto agrodolce agli americani e agl’inglesi.
L’uomo però era fatto così, bisognava prenderlo “bruttu e bonu” come la frutta al mercato all’ingrosso. Alla Francia ha sicuramente dato una forma di governo che tiene. In Italia navighiamo a vista sebbene Berlusconi e poi Veltroni abbiano rotto i teatrini del passato e costretto anche noi alla semplificazione col bipolarismo e fra non molto pare si abbia intenzione di dare inizio alla marcia verso il presidenzialismo, aborrito dal “sistema dei partiti”, e quindi destinato forse a restare una pia intenzione di riforma come quasi tutte quelle proposte fino ad oggi.
Perché questa premessa? Già, perché avendo perso la consuetudine di discutere di politica, (magari dopo messa sul sagrato di San Giuseppe con Arturo Parisi, nei tempi dei suoi ritorni a Sassari), dal 5 dicembre ad oggi, mi son dato a leggere sempre con più passione il saggio di Riccardo Brizzi e di Michele Marchi, Charles de Gaulle, Il Mulino, Bologna 2008 ( 13,50 per 21,50; 671.580 caratteri circa, spazi inclusi, pp.260 € 30 ). Si tratta di due giovani studiosi, della scuderia del prof. Paolo Pombeni, poco più che trentenni, del Centro Europressresearch, convenzionato con il Dipartimento di Politica, Istituzioni, Storia dell’Università di Bologna, professori a contratto nella stessa Università. I due, di buona lena, hanno cercato di tratteggiare le vicende del Presidente, o de la Grandeur de la France, in quattro corposi capitoli: del cap. I. De Gaulle e il gollismo di guerra e del cap. IV. Il crepuscolo del Generale: tra “grandeur” e “usura del potere” è autore Marchi; dell’Introduzione, del cap. II. Il “Rassemblement du peuple francais e la “traversata nel deserto e del cap. III . La V Repubblica e il “monarca repubblicano” è autore Brizzi. I due saggisti s’integrano sapientemente per cui il lettore, viene letteralmente avvinto dalla lettura, dopo quella dei due due primi capitoli, che hanno richiesto un più articolato impegno espositivo per via del dinamismo continuo del Generale alla ricerca di una legittimità e, diciamolo pure, di una propria identità e di un progetto politico di fronte alle mene degli inglesi e degli americani che, in questi drammatici frangenti, si ritenevano i soli demiurghi della situazione, snobbandolo o, forse, studiandone le mosse, per meglio conoscerne l’indole e i progetti. D’altra parte il Generale, che aveva un alto concetto di sé, certamente superiore alla sua statura fisica, doveva vedersela con Churcill e, tramite lui, capire che idee macinassero, indebitamente, per il futuro della Francia Roosevelt e con lui l’America e contemporaneamente sapersi destreggiare con tutti i protagonisti della Resistenza di variegata estrazione ideologica e di altrettanto variegata progettazione per il futuro della stessa. L’uomo insistette finché non fu riconosciuta la sua legittimità militare e politica e dovette anche aggiustare più volte il tiro sia di fronte ai vari organismi collegiali che si andavano creando all’interno della Resistenza sia con gli alleati che ambiguamente trattavano con Pétain.
Quando ritenne d’essere sufficientemente legittimato a rappresentare il governo legittimo della Francia contro quello collaborazionista di Vichy, seppe muoversi sapientemente e soprattutto seppe comunicare con i francesi dando ad essi non il potere frammentato dai rituali di una repubblica parlamentare fiacca, ma il potere-persona fisica, il potere-responsabile, quello che la maggior parte dei cittadini vuole vedere e dal quale vuole essere blandito e rassicurato. Nonostante tutto, i vari insuccessi elettorali, che videro riconsegnare la Francia in mano al sistema dei partiti, lo costrinsero all’inattività non oziosa durante la IV Repubblica. Quando i suoi protagonisti esaurirono quella capacità propulsiva, con la quale avevano mandato in pensione anticipata il salvatore della patria, e si rividero nel caos sia all’interno sia nelle colonie, furono obbligati a richiamarlo per porre riparo allo sfacelo interno ed esterno che incombeva sulla Francia.
Da questo momento De Gaulle, senza remore e ripensamenti, novello Augusto, provvide a predisporre una costituzione che dava ampi poteri all’esecutivo e al Presidente, riducendo sia il sistema dei partiti sia il Parlamento ad una posizione subalterna all’esecutivo. Lo stesso Presidente del Consiglio dovette cedere il passo allo strapotere del Presidente che riprese a dialogare senza altre mediazioni, attraverso la televisione, con il popolo francese. La sua abilità comunicativa, i suoi colpi di scena, i referendum plebiscitari gli permisero di fare e di disfare quanto riteneva proficuo per la Francia. Egli si comportò, come “un monarca repubblicano”. Per oltre dieci anni poté provvedere, quasi a suo arbitrio, tanto alla politica estera quanto a quella interna. La Francia riprese a marciare su tutti i fronti con un potere che sapeva comunicare, imbonire, richiamare all’ordine favorire il progresso economico della Francia.
I tempi però, ai primi del ’68 cominciarono a mutare, mentre quelli del Presidente, Padre della Patria, cominciarono a stagnare. L’uomo, ormai settantottenne, andò incontro ad un insuccesso dopo l’altro e con quello stesso strumento del referendum popolare con cui aveva tenuto saldo il potere, la Francia lo congedò.
Concludendo, sebbene il saggio sorvoli sul contesto storico politico economico e religioso, che in quegli anni impressero al mondo un radicale cambiamento ovunque e in tutti i campi, e punti i riflettori su de Gaulle e la Francia, la lettura risulta illuminante e appagante. Il saggio, per gli over 60, risveglia la memoria storica, per i giovani è uno stimolo per conoscere in modo gradevole la storia dell’altro ieri ricostruita dalla sensibilità di due giovani storico-politologi brillanti.