Categoria : cultura

La carta della cultura di Francesco Cossu

Luca Goldoni, uno scrittore che ama la nostra terra e vi soggiorna assiduamente, ha osato scrivere che la rovina della Sardegna sarebbe il suo splendido mare.

I turisti, infatti, attratti dal mare, non solo ignorano l’entroterra, il meraviglioso paesaggio che sta oltre il mare, ma anche il suo patrimonio culturale e storico.
Da anni, da quando è iniziato nel nostro territorio il fenomeno turistico, sono state realizzate le strutture recettive per accogliere i villeggianti: alberghi, ville, strade, acqua, luce, barche, discoteche…
Uno sviluppo abnorme che ha stravolto il territorio, l’economia e la vita sociale, una vera metamorfosi in tutti i settori.
Gli allevatori di capre e di vacche hanno abbandonato le campagne e trovato lavoro nel settore edilizio, nel mercato immobiliare, nel terziario, come giardinieri, camerieri…
Il lavoro stagionali attira operai da tutte le parti del mondo e che cessa nei mesi autunnali ed invernali, quando cresce notevolmente la disoccupazione.
Nel censimento del 1961 si contavamo 4.610 abitanti su un territorio di 228,61 chilometri quadrati. Oggi la popolazione è triplicata.
Probabilmente, chi viene in estate tra noi si chiede quale tipo di vita esisteva prima che gli attuali insediamenti modificassero il territorio.
La loro ricerca di un tempo di vacanze e di luoghi di silenzio rivelano non solo un senso di stanchezza fisica, ma anche fame di cultura, di senso di vita, nostalgia di semplicità, non il chiasso, le grandi abbuffate e certe musiche, che rischiano di rompere i nostri timpani.

 

Anche i nostri ragazzi, ammaliati dalla Costa, ingannati dalla pubblicità dei mass – media, rischiano di convincersi e di pensare che la vera città ove trasferirsi sia Porto Cervo e non la vecchia Arzachena, che i personaggi da ammirare siano quelli che in estate si presentano nei palcoscenici della Costa Smeralda e che i valori griffati siano quelli che si espongono in quelle vetrine estive: il denaro, il piacere, l’apparenza, il divertimento.
Anche noi adulti rischiamo di credere che sia ormai cessato il tempo dei capi carismatici che guidavano le comunità, e che oggi dobbiamo trasformarci in manichini dei poteri economici che manovrano i capitali nel nostro territorio.
Ci stiamo rendendo conto, a contatto con altre culture, del rischio che stiamo correndo di perdere quel patrimonio unico che costituisce il nostro codice genetico storico-culturale gallurese.
Lo verifichiamo, soprattutto dopo quei tre mesi estivi, quando le luci del palcoscenico si spengono e noi cominciamo a lamentarci:
“Ad Arzachena non c’è nulla…”.

Perché non giochiamo la carta della nostra cultura, inserendola come attività complementare, accanto a quella economica e urbanistica?
Perché non studiamo la conformazione del territorio lambito dal mare, sempre assetato di acqua, accarezzato o flagellato e intorpidito dal vento, che piega gli alberi e scolpisce le rocce dandole le forme più svariate?
Perché questo prezioso patrimonio, che è l’ambiente, non lo tuteliamo meglio, dagli incendi, dall’inquinamento, dalla speculazione e dagli scempi edilizi, che hanno distrutto il verde e fatto scomparire i ruscelli, insieme a suoni, colori, profumi, sapori di un tempo.
Gli agronomi hanno un buon lavoro per eliminare la contaminazione di essenze non indigene e ricuperare quelle naturali e originali del territorio gallurese.
Non sarà il caso di ricordare di averlo ricevuto in consegna dai nostri grandi e dal Signore stesso che nella parabola dei talenti ci ricorda che alla fine della vita ci chiederà conto della nostra amministrazione.
Mi piacerebbe commentare in sede opportuna l’episodio del primo libro dei Re (21, 1- 28).
“…Nabot di Izreèl possedeva una vigna vicino al palazzo di Acab, re di Samaria.
Acab disse a Nabot: “Cedimi la tua vigna; siccome è vicina alla mia casa, ne farei un orto. In cambio ti darò una vigna migliore, oppure, se preferisci, te la pagherò in denaro al prezzo che vale”.
Nabot rispose ad Acab: “mi guardi il Signore dal cederti l’eredità dei miei Padri”.

Ci guardi il Signore…
Il richiamo a scoprire il nostro territorio è congiunto a quello di ricuperare la memoria, il passato profondo, le radici ben ferme che ci danno sicurezza.
Una funzione didattica da fare soprattutto con i nostri ragazzi, con quelli delle scuole medie e superiori per conoscere la storia della Gallura, dei suoi abitanti, delle loro lotte per affermare i loro valori.
Sappiamo, per esempio, perché il nostro menù gallurese, è contadino e pastorale, a base di suppa cuata, di agnello e porcetto, ed è assente qualsiasi riferimento al mare, al pesce?
Perché per secoli il mare, per i galluresi, è stato un terrore!
Dal mare sono venuti i fenici, i romani, i bizantini, i barbari, gli spagnoli…
Dal mare, per secoli, sono arrivati i saraceni, i turchi, lasciandosi dietro violenze, saccheggi…
Tracce di altre devastazioni sono rimaste nelle cave di Capo Testa, dove i romani estrassero le colonne del Pantheon, a Cala Francese assalita dai cavatori di Massa Carrara, in tutta la Gallura, un tempo rivestita a verde, poi devastata dai boscaioli toscani…
Nel nostro territorio possiamo ancora ritrovare le tracce delle nostre ville medioevali:
Cugnana, san Giovanni, san Michele, san Gavino, san Pietro, Arseguen, Carana, città costiere improvvisamente diventate deserte per la peste, i cui miseri superstiti fuggirono per ripararsi a Tempio, Calangianus, Aggius e Nuchis, ove furono accolti fraternamente.
Si veda quanto stanno facendo in proposito i comuni di Sorso, Sennori e Chiaramonti dove l’equipe di prof. Marco Milanese dell’Università di Sassari, con ricognizioni e scavi, sta riscoprendo le origini storico che hanno permesso ai medievali abitatori di rifugiarsi in centri nuovi e già esistenti fuggendo per le più svariate cause dalle antiche ville che vanno emergendo con tutta la loro eloquenza, offrendo l’occasione di itinerari storici per chi voglia conoscere a fondo la Sardegna e le sue regioni storico-culturali.

Poi, agli inizi del settecento, coraggiosi pionieri, pastori che tornano nei terreni degli avi e sopravvivono inventando l’economia del maiale e della capra, la coltura e tessitura del lino, delle erbe medicinali, in mancanza di strutture sanitarie ufficiali.
Ne “L’albero degli zoccoli” possiamo rivedere anche quel nostro popolo d’analfabeti e semianalfabeti, la loro vita di povertà e di miseria, ma anche i valori della solidarietà, dell’accoglienza, della generosità.
I galluresi avevano sempre pronto un pezzo di lardo’ e di salsiccia da dare ai mendicanti, un pane da imprestare alla famiglia rimasta senza, un pezzo di carne da distribuire tra i vicini in occasione di un funerale, nei momenti difficili sapevano essere solidali con la punitura e la manilia e, seppur isolati, sapevano incontrarsi intorno alle chiese campestri per festeggiare ed invocare il loro Santi, scelti non a caso, ma perché dotati di particolari carismi che distribuivano ai loro fedeli in necessità.
La storia di Arzachena, come la storia della Gallura, è segnata, nelle sue varie fasi storiche, dalla chiese campestri che spesso hanno dato origine a tante comunità, dalla presenza di congregazioni maschili e femminili, dai Mercedari che curarono il riscatto degli scavi dai saraceni, dagli Scolopi che aprirono le scuole ai giovani, dai Padri Passionisti e dai Padri missionari vincenziani che visitarono le plaghe sperdute della nostra Isola, predicando le missioni agli strati più popolari, dai vari Padri Vassallo e Padre Manzella che spesero la vita visitando e riconciliando le famiglie nemiche.
Perché dimenticare o vergognarci di quel tempo e di quella cultura per lasciarci acculturare da quelle posticce che vengono dalla città durante i mesi estivi?
Perché non raccogliere i documenti sparsi qua e la, in Grecia, a Madrid, nelle varie biblioteche nazionali, regionali, provinciali, negli archivi delle curie e delle varie parrocchie?
Perché i comuni non favoriscono borse di studio, tesi di laurea, ricerche sul territorio?
Perché non aprire percorsi pedonali per visitare i siti archeologici, le chiese di campagna?
Finche abbiamo tempo, perché non registrare interviste, video ai pochi superstiti della cultura dello stazzo?
Perché non ricuperare i toponimi originari del nostro territorio, gli archi, le vie, i portoni della vecchia Arzachena?
Viviamo con senso critico il tempo di globalizzazione di massa, collaborando con gli elementi che costituiscono la società di oggi, operando un lavoro di ricucitura del tessuto sociale complessivo, con processi creativi, con un dialogo interculturale ed esperienze relazionali.
Ma restando sempre galluresi doc, arzachenesi autentici, perché “Arzachena – ricordiamolo – è sempri lu pernu di la’ita moderna”.

 

 

 

 

 

Commenti sono sospesi.

RSS Sottoscrivi.